Giacomo Gabellini, Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania, GoWare, Firenze, 2019, 318 pagine, € 14,99
Il lavoro di Giacomo Gabellini è un testo denso di informazioni come nello stile dell’autore: è un testo di estrema qualità da leggere e da studiare.
Se c’è un sistema-paese comunemente percepito come simile ad una perfetta ed efficiente macchina da guerra e da produzione (ambiti tutt’altro che distinti e separati!) questo è per eccellenza la Germania. Ebbene: come funziona la “macchina tedesca”? Il libro di Giacomo Gabellini ci fa entrare nel cuore della strategia di Berlino, del meccanismo istituzionale e culturale della sua politica e della sua economia e lo fa da un’angolazione non tecnicistica (cioè per macrotematiche e con approccio sincronico) bensì storica e diacronica, sottolineando con forza come nella “Grande Strategia” germanica vi siano sorprendenti coerenze che vanno dal periodo prussiano a quello merkeliano passando attraverso due secoli.
Nessuno degli aspetti è tralasciato: le politiche della Bundesbank sui tassi, l’ordoliberalismo, le idee di List e di Bismarck, le scelte politiche e militari di Adenauer, il modello di governo delle industrie tedesche. È questa minuziosa completezza, sostenuta da un apparato bibliografico di altissimo livello, che rende il libro di Gabellini di grande stimolo per l’analista o l’accademico che (non digiuno di storia e di economia) voglia trovare i fili rossi della visione del mondo di Berlino. Già, anche per l’accademico, perché l’opera in esame è, tra l’altro, uno stato dell’arte della letteratura politologica ed economica concernente il paese di Mann e Heidegger negli ultimi due secoli, esposta però con sinteticità e chiarezza.
I quattro capitoli dell’opera – uno per periodo dall’Unificazione alla fine del Primo Conflitto Mondiale, da Versailles alla fine del Secondo, dal secondo dopoguerra alla fine della Guerra Fredda e quindi dalla Riunificazione ai giorni nostri – non lasciano sbalordito il lettore ferrato in geopolitica. Egli infatti sa bene che gli Stati hanno una loro visione di fondo dettata dalla storia, dalla cultura dei loro popoli, dalla loro posizione geografica.
Nondimeno, lo lasciano profondamente inquieto. Le conclusioni implicite del testo di Gabellini sono infatti piuttosto chiare: nonostante gli aspetti ricorrenti della sua politica, la Germania è immersa in una inestricabile contraddizione. È infatti lacerata tra spinte egemoniche di memoria imperiale e la condizione di importante pedina dell’imperialismo americano nel continente europeo, ruolo ingombrante dal quale essa vorrebbe istintivamente divincolarsi per non essere la “Bulgaria della NATO”; non già al fine di sostituirlo con un equilibrato concerto di libere nazioni europee, bensì con un sistema germanocentrico. Da qui il turbamento in cui Gabellini ci getta, con rigore argomentativo, senza buonismi psedoeuropeisti ma senza germanofobie d’accatto, pur non risparmiando uno sguardo assai severo alle scelte di Berlino. Nella visione di Gabellini tanto il liberismo anglosassone delle borse-valori quanto l’ordoliberismo tedesco dei grandi monopoli industriali sono ingranaggi di due diverse macchine che schiacciano i popoli d’Europa. Sia sotto l’apparato militare NATO, sia in un meccanismo UE germanocentrico in cui paesi come l’Olanda (e il Regno Unito) propongano dumping fiscale al quale stati come Slovacchia e Ungheria rispondono con dumping salariale e sociale, poco cambia per il benessere e la sopravvivenza dei nostri popoli.
Su ciò non daremo certamente torto all’autore; ma se in definitiva possiamo muovere una critica – un appunto – al lavoro di Gabellini notiamo che egli non propone una visione alternativa di Europa o di assetto politico. Se la Germania ha saputo orientare la vita europea a proprio esclusivo vantaggio (rectius: ad esclusivo vantaggio della propria classe capitalista), lo si deve anche all’insipienza delle classi dirigenti degli altri paesi. Se è il capitalista tedesco e non il cittadino tedesco (ad es. quello della ex DDR) a trarre giovamento dalle politiche di Berlino, vuol dire che il problema non è nella natura prevaricatrice della Germania, ma nel sistema imperialistico-capitalista in cui essa è inserita e dal quale lo stesso popolo tedesco dovrebbe liberarsi, in sintonia con gli altri popoli europei. Per farlo, sarebbe necessaria una coscienza di classe e una coscienza europea dei popoli, proposte cui l’autore purtroppo non fa cenno.
Quanto alle suggestioni filoamericane di certa germanofobia nostrana ci sembra invece che Gabellini non cada nell’equivoco: la visione del sistema capitalistico e imperialista americano restituita dal testo leva a queste illusioni la terra da sotto i piedi. La Germania è al centro dell’Europa sotto molti punti di vista – geografico e produttivo innanzitutto: ciò implica che sarà sempre al centro di ogni scelta politica che verrà (o non verrà) fatta sul futuro del nostro continente; a meno che l’Europa non venga intesa come parte di un quadro eurasiatico ed euromediterraneo (eventualmente riequilibrato dalla presenza russa). Finché per Europa si intenderà solo la Kerneuropa produttiva germanocentrica, o la penisola che l’Intermarium separa dall’Asia, o la propaggine orientale del Patto Atlantico, nulla di nuovo o di positivo potremo attenderci sul suo futuro.
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