Il 9 novembre 2022, dietro suggerimento del Generale Surovikin, il Ministro della Difesa russo Sergej Šojgu ha ordinato il ritiro dei soldati russi dislocati sulla sponda destra del fiume Dnepr, comprendente la città di Cherson e una serie di piccoli insediamenti di campagna. La decisione, trasmessa in diretta televisiva su Rossija 24 ma molto probabilmente già presa da tempo, è stata preceduta dall’evacuazione di circa 120.000 civili filorussi, che in caso di ritorno all’Ucraina sarebbero stati vittima di quella resa dei conti già vista nelle altre località riconquistate da Kiev, dalla distruzione di numerosi ponti e dalla rimozione dalle strade di Cherson di bandiere russe e del monumento al fondatore della città Grigorij Potëmkin, prevedibile vittima della cancel culture al gusto di boršč. Nel giro di due giorni, in maniera ordinata, i circa trentamila soldati russi di stanza nella regione si sono spostati sulla riva sinistra del fiume, dove già da tempo era in corso la preparazione di nuove trincee, e mentre i soldati ucraini si avvicinavano cautamente a Cherson, tra l’entusiasmo della popolazione filoucraina e le persecuzioni contro i residui filorussi, l’esercito russo ha fatto saltare in aria il Ponte Antonovskij, che collega Cherson con la sponda orientale del fiume, determinando così anche simbolicamente la fine della ritirata.

Perché le truppe russe si sono ritirate da Cherson? Fino a qualche giorno fa, ogni cessione della riva destra sembrava essere fuori discussione. Oltre che sul piano storico e simbolico, essendo la prima città fondata nell’ambito di quella colonizzazione – voluta dalla Zarina Caterina II – delle steppe dell’attuale Ucraina meridionale che ha portato alla nascita della Novorossija, la città di Gannibal[1] e Potëmkin costituisce anche una preziosa testa di ponte verso Nikolaev e Odessa, nonché la punta di un’area cuscinetto a protezione della riva sinistra del Dnepr e quindi della Crimea. Tra il marzo e il maggio di quest’anno, sulla riva destra del Boristene, le truppe russe hanno conquistato un territorio lungo fino a cento chilometri e largo quaranta, e le ripetute controffensive ucraine che si susseguono da giugno si sono concluse quasi sempre con un bagno di sangue, con pochi guadagni territoriali. Almeno in teoria, quindi, le truppe russe potevano ancora conservare la città, specie considerando che la maggioranza della popolazione locale sembrava sostenere il dominio russo e che l’arrivo della stagione invernale renderà molto difficile l’organizzazione di iniziative offensive. Eppure, almeno sul piano militare, quella di lasciare Cherson è stata una decisione nel complesso sensata.

Sotto questo aspetto, infatti, i vantaggi di tale decisione sono evidenti. Sebbene sufficienti a conservare la regione, i trentamila soldati russi di stanza a Cherson erano insufficienti per fare un’offensiva su Nikolaev, che avrebbe creato un nuovo confine difendibile lungo il Bug meridionale e l’Ingul. La linea del fronte, quindi, si trovava in una zona pianeggiante che ben si prestava ad eventuali controffensive ucraine. In più, a partire da luglio, il ponte Antonovskij è stato ripetutamente colpito dai missili HIMARS forniti dagli USA, che pur non distruggendolo lo hanno reso inagibile, costringendo i Russi ad utilizzare dei ponti di barche per rifornire la riva destra. Il Dnepr, la cui larghezza in alcuni tratti arriva a 23 chilometri, è invece la più importante barriera naturale tra il Volga e i Carpazi, ed oltre ad essere facilmente difendibile consente anche di liberare soldati da utilizzare nell’oblast’ di Zaporož’e, dove secondo molti report è possibile un’offensiva ucraina in direzione di Berdjansk e Melitopol’, e nel Donbass, dove il fronte è pressoché stazionario da settimane, con l’obiettivo di congelare i fronti o di completare alcune conquiste attualmente in corso (in particolare Artemovsk/Bachmut e Avdeevka) in attesa che l’arrivo dei rinforzi, la paralisi della logistica ucraina derivante dalla distruzione metodica delle infrastrutture energetiche e la fine della stagione invernale rendano possibile il ritorno all’offensiva.

A queste considerazioni, di carattere tattico, ne vanno aggiunte due di carattere strategico. Se il motivo ufficiale della guerra è la liberazione del Donbass, e più in generale di quei territori ucraini dove la maggior parte della popolazione si identifica nel concetto di Russkij Mir, nella prassi i principali obiettivi strategici russi sono creare un corridoio terrestre tra la Crimea e il Donbass, prevenendo un possibile strangolamento della Tauride tramite il Mar Nero e il Mar d’Azov[2], garantire alla Crimea l’autosufficienza idrica ed energetica e creare un confine difendibile a ovest della Russia. Per quanto riguarda il secondo punto risulta piuttosto evidente come, piuttosto che Cherson, il principale obiettivo strategico russo nella Chersonščina sia la città di Novaja Kachovka, sulla riva est del Boristene, punto di partenza del canale responsabile di gran parte delle forniture d’acqua per la penisola. La scarsità d’acqua, dopo tutto, è da sempre uno dei maggiori problemi della Crimea, e lo stesso trasferimento della Crimea all’Ucraina del 1954, ufficialmente motivato dal trecentesimo anniversario di quel Trattato di Perejaslav che la storiografia russa celebra da sempre come l’atto della riunificazione tra Russia e Ucraina, fu motivato in gran parte dalla costruzione del canale di cui sopra, tramite il quale la penisola avrebbe goduto di massicce forniture d’acqua ucraina. A seguito dell’annessione russa della Crimea del 2014, ufficialmente per debiti sulle forniture precedenti, l’Ucraina bloccò il flusso di acqua attraverso il canale, colpendo duramente la produzione agricola, e le forniture idriche sono riprese soltanto il 26 febbraio 2022, a seguito dell’arrivo delle forze russe a Novaja Kachovka.

Il secondo punto, invece, è più complesso. La Russia, probabilmente, avrebbe preferito arrivare al Dnestr, il fiume che il generale Suvorov vedeva come il limes occidentale del Russkij Mir. Il Paese, in questo modo, avrebbe conquistato Nikolaev e Odessa, privato l’Ucraina di un accesso al mare e ricongiunto la Transnistria alla madrepatria. La Russia, in cambio, avrebbe probabilmente dato il benestare all’annessione romena della Moldavia, del Budžak e dell’oblast’ di Černivci, che fino al 1940 appartenevano alla Romania. La sconfitta nella Battaglia di Voznesensk, tuttavia, ha bloccato un iniziale tentativo russo di raggiungere il Dnestr, e il ritiro da Cherson col connesso abbattimento dei ponti sul Dnepr ha reso quasi impossibile che ciò avvenga. Qualora i nuovi confini si dovessero attestare al Dnepr, tuttavia, il Cremlino vedrebbe il bicchiere mezzo pieno: la Russia rinuncerebbe per sempre ad Odessa, con la sua natura cosmopolita intimamente legata all’epoca imperiale e teatro di uno degli episodi più drammatici delle proteste filorusse del 2014 (il Massacro di Odessa), ma un confine sul Dnepr, che nel corso della storia ha svolto in più occasioni il ruolo di limes del mondo russo, garantirebbe al Paese un controllo quasi totale sulle coste settentrionali del Mar Nero, creando una barriera quasi invalicabile a difesa della Crimea e prevenendo il già menzionato strangolamento della principale porta di accesso della Russia ai mari caldi.

Sul piano politico, tuttavia, la situazione è ben diversa. Il ritiro da Cherson, più ancora dell’attentato al Ponte di Crimea – i rapidi tempi di ricostruzione delle campate distrutte, peraltro in tempi di guerra e di sanzioni, possono diventare anzi un motivo d’orgoglio – e della sconfitta tattica nella parte orientale dell’oblast’ di Char’kov, rappresenta per la Russia un boccone molto amaro. A differenza di quest’ultima, secondo la legge russa la parte occidentale dell’oblast’ di Cherson è ufficialmente territorio russo, e lasciarla dopo che la maggior parte della sua popolazione ha scelto l’annessione alla Russia in un referendum certamente discutibile, ma che non sarebbe stato possibile qualora almeno una parte della popolazione non fosse stata d’accordo, costituisce una palese perdita di credibilità. E, sebbene le autorità russe abbiano parlato di un ritiro temporaneo, una riconquista di Cherson nei prossimi mesi è praticamente impossibile (oltre a non rispondere a quelle logiche militari che adesso sono prevalenti nella gestione del conflitto).

È possibile che la perdita di Cherson consenta alla Russia di mantenere Berdjansk e Melitopol’, la cui eventuale perdita avrebbe implicato un danno non solo di immagine ma anche strategico; tuttavia la decisione ha avuto un forte impatto sul morale dei soldati, spesso increduli della decisione, mentre agli occhi di quei centoventimila profughi che molto probabilmente non vedranno mai più le loro case rasenta il tradimento. I rischi del ritiro da Cherson in termini di stabilità politica sono al momento scarsi, ma non è escluso che in futuro possano aumentare. Questi profughi, assieme ai reduci e ai nazionalisti, potrebbero infatti diventare la base di un movimento di massa, mentre già oggi il Partito Comunista attualmente all’opposizione ha presentato un’interrogazione alla Duma su quello che definisce “un ritiro senza combattere”, e il filosofo Aleksandr Dugin, in una misteriosa dichiarazione poi cancellata, dopo aver definito il ritiro da Cherson “l’ultima linea rossa accettabile” avrebbe affermato che al sovrano che non protegge i suoi sudditi “spetta il destino del Re delle piogge”, ossia la lapidazione. Una velata minaccia a Putin? Ad essere nell’occhio del ciclone, al momento, sono soprattutto la passata gestione dell’invasione, nel complesso misurata, e le residue componenti filoccidentali della politica e della popolazione russa; ma, in una guerra di faglia come quella in corso, l’accusa peggiore è il tradimento, e qualora ci dovessero essere sconfitte di rilievo lo Zar potrebbe essere oggetto di teorie del complotto affini alla Dolchstoßlegende nella Germania di Weimar che potrebbero sul lungo andare minarne la credibilità.

D’altro canto, però, la decisione di ritirarsi dalla riva occidentale del fiume Dnepr è stata accolta molto favorevolmente proprio da quei “falchi” che a suo tempo avevano fortemente criticato la gestione dell’operazione speciale, la ritrosia a convocare la mobilitazione almeno parziale e l’assenza di una campagna sistematica di bombardamenti alle infrastrutture strategiche sul modello, ad esempio, dello shock and awe applicato dagli USA in Iraq. Per Evgenij Prigožin, fondatore del Gruppo Wagner, quella di lasciare Cherson è stata “una decisione difficile, che però mostra la disponibilità del comando ad assumersi la responsabilità della vita dei soldati”. Il ritiro delle truppe con perdite minime, aggiunge Prigožin, “non onora le armi russe, ma sottolinea le qualità del comandante, che ha agito come un uomo che non ha paura della responsabilità”. La dichiarazione è stata seguita a stretto giro da quella di Kadyrov, che ha sottolineato la difficoltà di far pervenire approvvigionamenti nell’area di Cherson e il fatto che sia molto più facile organizzare la difesa sulla sponda sinistra del Boristene. Dichiarazioni che dimostrano il capitale politico del Generale Armageddon, che dopo aver impresso una decisa sterzata all’andamento dell’operazione speciale bombardando in maniera chirurgica le infrastrutture energetiche ucraine ha potuto permettersi di prendere una decisione impopolare, ma nel complesso utile al raggiungimento degli obiettivi strategici russi.

È poi possibile che il ritiro da Cherson sia parte di un accordo non scritto tra Russia e Stati Uniti, come ha affermato l’analista geopolitico brasiliano Pepe Escobar. Questi, in un comunicato su Telegram del 10 novembre, ha parlato di un accordo tra il Consigliere per la Sicurezza statunitense Jake Sullivan e la sua controparte russa Nikolaj Patrušev, in base al quale il Dnepr diventerà il nuovo confine tra Russia e Ucraina. L’accordo, fatto nel corso delle numerose telefonate tra i due – l’ultima risalente a soli tre giorni dall’annuncio del ritiro –, sarebbe stato presentato da Sullivan a Kiev nel corso della sua ultima visita, e l’Ucraina, ormai completamente dipendente dagli aiuti militari occidentali, non dovrà che firmarlo. Certamente nel Donbass si continua a combattere, ma sul Dnepr i giochi potrebbero essere fatti; e, qualora quest’ipotesi si dovesse rivelare vera, il Boristene tornerà a svolgere quel ruolo di limes tra la Russia e l’Occidente cattolico e protestante che ha svolto nell’oltre un secolo intercorso tra la Tregua di Andrusovo del 1667 e la Partizione della Polonia del 1793. Se non de jure, quantomeno de facto.

Le prove a sostegno della tesi del ritiro negoziato sono varie. A differenza di Francia e Ucraina, che all’annuncio del ritiro russo hanno temuto una trappola, negli USA la notizia è stata accolta senza grande sorpresa: la CNN ha definito il ritiro “umiliante, ma non sorprendente”[3], e la stessa amministrazione sembrava essere in qualche modo al corrente di quanto stesse accadendo. Già dagli inizi di ottobre si è molto parlato di trattative segrete tra Washington e Mosca, mediate da un Paese arabo che molto probabilmente è l’Arabia Saudita. Le telefonate tra il consigliere per la sicurezza nazionale russo Nikolaj Patrušev e la sua controparte statunitense Jake Sullivan, dal contenuto non rivelato, sono state numerose negli ultimi tempi, l’ultima è avvenuta a soli tre giorni dall’annuncio del ritiro[4], e secondo il “Wall Street Journal” quest’ultimo avrebbe invitato Zelenskij ad adottare una posizione negoziale “realistica” nelle trattative con Putin[5]. All’indomani dell’annuncio del ritiro russo, inoltre, il Capo dello Stato Maggiore Congiunto statunitense Mark Milley ha affermato che uno stallo militare invernale apre una “finestra di opportunità” per delle trattative di pace tra Russia e Ucraina, sottolineando come sia ora prioritario per l’Ucraina cementare i guadagni ottenuti, auspicando in ogni caso che le parti in conflitto accettino il principio che non possono raggiungere i loro obiettivi manu militari[6]. E, a seguito del recente Incidente di Przewodów, la Russia ha lodato la “misurata” risposta statunitense per bocca del portavoce di Putin Dmitrij Peskov[7].

Segnali di de-escalation, quelli da parte statunitense, determinati da vari fattori. Il principale è l’impossibilità di sostenere l’Ucraina ai ritmi dei mesi scorsi “finché sarà necessario”, per menzionare uno slogan che abbiamo sentito troppo spesso nei mesi scorsi. Le scorte di armamenti dell’Occidente si vanno esaurendo, come sostiene anche un’analisi di Bloomberg[8], e secondo l’analista geopolitico Andrea Gaspardo il picco delle forniture occidentali è stato già raggiunto tra giugno e luglio, per poi iniziare un calo lento ma costante. Il tutto mentre il potenziale russo inespresso è ancora enorme[9]. Il secondo è di tipo geostrategico: il vero nemico degli USA, in questo momento, non è Mosca ma Pechino, e proseguire ad oltranza il conflitto in Ucraina significa privare di armi Taipei, molto più importante di Kiev per gli Stati Uniti. Non a caso Milley, che in Ucraina è una colomba, sul Mar Cinese diventa un falco e di recente ha avvertito il fu Celeste Impero di “prendere lezioni dall’Ucraina” qualora cercasse di invadere l’ex Cina Nazionale[10]. Il terzo, infine, è la tenuta del fronte europeo, dove è in aumento il malcontento dell’opinione pubblica contro una guerra che causa un forte aumento dell’inflazione e gravi problemi di approvvigionamento di materie prime, e in parte del fronte interno, dove in linea di massima si sostiene l’Ucraina ma la maggioranza non è contraria a concessioni alla Russia. La guerra, come ricordiamo, è anche il prodotto della volontà anglosassone di ridimensionare un importante concorrente e di ridurre l’autonomia strategica europea, con particolare riferimento ai rifornimenti di idrocarburi; ma, in un contesto come quello attuale, tirare troppo la corda significa creare un effetto boomerang.

Il tutto ha creato non pochi attriti con l’Ucraina, come spesso accade nelle guerre di faglia tra i partecipanti di primo e di secondo livello (quelli direttamente coinvolti nel conflitto e quelli che vi partecipano, direttamente o indirettamente, a sostegno di qualcun altro). Inizialmente sotterranee, legate al rifiuto statunitense di creare una no-fly zone sull’Ucraina e di mandarle armi a lungo raggio come il lanciamissili ATACMS, le tensioni sono emerse in maniera sempre più chiara a seguito di attentati come l’omicidio di Dar’ja Dugina a Mosca e l’autobomba sul Ponte di Crimea, che gli stessi servizi segreti statunitensi, tramite soffiate al “New York Times”, hanno attribuito a quelli ucraini, confermando così la versione di Mosca. Le tensioni sono di recente sfociate in un aperto contrasto tra Biden e Zelenskij, ad esempio quando quest’ultimo ha smentito la versione ufficiale dell’incidente di Przewodów insistendo che il missile in questione fosse russo e non ucraino, mentre vari esponenti del Partito Repubblicano e personalità come il popolare opinionista Tucker Carlson si interrogano apertamente sull’opportunità di sostenere quello che ormai è diventato un alleato problematico, in stile Noriega o come l’ultimo Presidente del Vietnam del Sud Nguyễn Văn Thiệu.

Anche qua, però, le ragioni militari sono diverse da quelle politiche, e non tutti sono d’accordo con Milley nello Stato che più di ogni altro ha il potere di far finire la guerra. Pur non smentendo direttamente il Capo di Stato maggiore, infatti, personalità quali Biden, Blinken e lo stesso Sullivan hanno dichiarato che non faranno pressioni sull’Ucraina affinché si giunga ad una soluzione diplomatica, sottolineando che “spetta all’Ucraina decidere quando andare alle trattative”[11]. Le pressioni per continuare la guerra sono ancora troppo forti: la mozione con cui il caucus progressista del Partito Democratico ha invitato l’amministrazione Biden ad aprirsi alla prospettiva di una soluzione negoziata del conflitto e di creazione di una nuova architettura per la sicurezza europea è stata prontamente ritirata, e il mancato trionfo alle ultime elezioni di medio termine di un Partito Repubblicano ormai fortemente trumpiano non è certo di aiuto. Lo stesso invito a Zelenskij a mostrare una maggiore flessibilità nelle trattative va visto in una prospettiva in cui gli USA puntano a mantenere intatto il fronte occidentale, specialmente in un Europa dove non tutti vogliono rischiare una guerra senza fine.

Non va inoltre dimenticato che il fine ultimo della politica statunitense in Ucraina, oggi come nel 2014, è “dare una lezione” alla Russia, che la costringa ad accettare quel ruolo di potenza regionale che Obama le aveva di fatto assegnato all’indomani della crisi della Crimea e che funga da monito a tutte quelle potenze che possono sfidare il primato statunitense, Cina in primis. A tutto ciò si aggiunga un altro obiettivo strategico: rompere il potenziale asse strategico tra la Russia e l’Unione Europea, basato sulla complementarità tra le risorse naturali della prima e l’industria della seconda. Obiettivo strategico condiviso peraltro dal Regno Unito, che a seguito della Brexit ha aumentato le sue distanze da Francia e Germania e ha visto nei Paesi della cosiddetta “Europa di Mezzo” (in particolare Polonia, Paesi Baltici, Finlandia e Romania) una preziosa opportunità per creare un cuneo tra Russia e Germania, indebolendo entrambe, e ritagliarsi una sfera di influenza all’interno dell’Unione Europea. Il Regno Unito, in questo frangente, è ancora più radicale degli States, avendo in gioco interessi strategici diretti, e nello scorso aprile fu proprio l’allora Primo Ministro Boris Johnson a far fallire l’ormai imminente incontro tra Putin e Zelenskij, preludio alla stipula di un accordo di pace[12]. La spirale stagflazionista in cui è entrato il Regno Unito, almeno in parte legata alla guerra, potrebbero spingerlo a ridurre gli aiuti all’Ucraina, già oggi nettamente inferiori a quelli statunitensi[13], e forse anche a ridurre le spese militari, ma almeno una parte dell’amministrazione e degli apparati USA ha interesse a continuare la guerra, e lo stesso invito a Zelenskij a mostrare maggiore flessibilità nelle trattative va visto anche in quest’ottica. Il Presidente ucraino deve mostrarsi aperto al dialogo anche per rendere più accettabili le forniture di armi all’Ucraina agli occhi dell’opinione pubblica, soprattutto in Paesi come Italia, Francia e Germania.

Di conseguenza, è piuttosto difficile che il ritiro da Cherson sia la diretta conseguenza di trattative sotterranee. La presenza di contatti ad alto livello tra Russi e Statunitensi, ormai non più così segreti, è un dato di fatto, e non è improbabile che questi ultimi fossero al corrente della decisione russa. Ma i fattori militari che hanno influenzato la decisione russa hanno un peso non marginale, mentre al momento un eventuale accordo sotto traccia sui nuovi confini dell’Ucraina verrebbe al momento visto come un tradimento tanto a Washington quanto a Mosca. Ciò, tuttavia, non nega il fatto che la pace in Ucraina sarà quasi certamente il risultato di trattative dirette tra Russia e Stati Uniti, magari con l’intermediazione di una Turchia che pur essendo un membro NATO è in buoni rapporti con Mosca, e probabilmente implicherà un intero riassetto dell’Europa orientale, con riferimento ad almeno una parte degli altri conflitti congelati che coinvolgono la regione. E, in un contesto in cui la vittoria totale di una delle parti è al momento improbabile, le decisioni emotivamente difficili sono inevitabili: come scrisse Huntington nello Scontro di Civiltà, dopo tutto, “in una guerra di faglia il tradimento della propria razza è il prezzo da pagare per raggiungere la pace”[14]. Negli Accordi di Minsk la Russia ha dovuto tenere a freno l’irredentismo delle Repubbliche Popolari di Doneck e Lugansk, che hanno dovuto accettare, in linea di principio, l’idea di un reintegro nello Stato ucraino e la rinuncia alle città riconquistate dagli Ucraini nel corso della guerra, come Slavjansk e Lisičansk. Adesso, molto probabilmente, gli agnelli sacrificali saranno la Transnistria – che verosimilmente tornerà alla Moldavia – e la componente filorussa della popolazione di Cherson. Sull’altro lato del fronte, lo slogan “nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina” si rivelerà al momento opportuno come un mero strumento retorico: nei conflitti di faglia la pace è il frutto di trattative tra i partecipanti di secondo e terzo livello, mentre i diretti interessati hanno un coinvolgimento limitato, e non di rado la pace viene di fatto imposta a dei contendenti ormai stremati, come dimostrano i casi di Bosnia e Irlanda del Nord. Il boccone amaro, molto probabilmente, sarà la rinuncia ai territori abitati da popolazioni filorusse, de facto se non de jure.

In linea di massima, la risoluzione del conflitto dovrebbe passare attraverso tre fasi: 1. La riduzione di intensità (o, in alternativa, una vittoria decisiva per una delle due parti); 2. La coreanizzazione del conflitto, con il cessate il fuoco e il congelamento delle posizioni al momento dello stesso; 3. Un accordo di pace.

Tuttavia, affinché si giunga a questo punto, sarebbe opportuno che tutte le parti arrivassero ad un punto in cui tutte le parti accettino un compromesso. “La divisione della Bosnia tra un 51% a Croati e Musulmani e un 49% ai Serbi”, scrisse sempre l’autore de Lo Scontro di Civiltà, “non era praticabile nel 1994, quando i Serbi controllavano il 70% del Paese, ma lo divenne allorché le offensive croate e musulmane ridussero il controllo serbo a meno della metà del territorio”[15]. Non molto diversa è la situazione ucraina attuale. Qualcosa di non molto diverso sta accadendo in Ucraina, e non c’è da stupirsi se il nodo principale non è l’adesione alla NATO (in linea di massima, le due parti si sono già accordate sul no dell’Ucraina alla NATO in cambio di garanzie di sicurezza occidentali), ma le questioni territoriali. La richiesta russa di riconoscere l’annessione della Crimea, delle Repubbliche del Donbass e delle oblasti di Zaporož’e e Cherson è al momento inaccettabile per l’Ucraina, che negli ultimi due mesi ha riguadagnato non poco terreno. Equamente inaccettabile, questa volta per la Russia, è la richiesta ucraina di un ritiro incondizionato dalle regioni contese come precondizione per l’avvio di trattative di pace, visto che il Paese, oltre a controllare ancora circa il 20% del territorio ucraino, nel prossimo futuro potrebbe vedere il vento cambiare a suo favore.

È probabile, pertanto, che una vera tregua si avrà soltanto se la paralisi della logistica ucraina determinerà una serie di sconfitte militari che portino l’Ucraina e i Paesi occidentali ad accettare l’idea che un compromesso è preferibile alla continuazione della guerra (l’altra opzione, ossia un collasso delle forze russe, è improbabile). Questo, molto probabilmente, avverrà non prima della prossima primavera, e anche allora il passaggio dalla tregua alla pace non sarà immediato. Nelle guerre di faglia, solitamente, le tregue sono essenzialmente uno strumento per leccarsi le ferite e riorganizzarsi, e gli Accordi di Minsk, che in pratica sono stati una tregua armata, non furono un’eccezione[16]. Una vera pace dovrebbe basarsi, oltre che su un generale riassetto dell’Europa centro-orientale, anche sulla ricostruzione dei rapporti russo-ucraini sulla base di nuovi principi e sul riconoscimento da entrambe le parti delle peculiari dinamiche interne all’Ucraina, sulla falsariga del preambolo di quegli Accordi del Venerdì Santo che misero fine al conflitto nordirlandese. Il riconoscimento da parte russa del fatto che, pur in un contesto di radici comuni, la maggior parte del popolo ucraino desidera una maggiore integrazione con l’Occidente, e il riconoscimento da parte ucraina che una sostanziale minoranza della popolazione del Paese desidera invece l’unione con la Russia o quanto meno relazioni strette con la Grande Madre, al momento rappresentano una sconfitta per entrambe le parti; ma, a meno di un collasso di una delle due parti, costituiscono il presupposto indispensabile per la costruzione di una pace più o meno permanente.


NOTE

[1] Il riferimento è a Ivan Gannibal, figlio di Abram (il “Negro di Pietro il Grande” dell’opera di Puškin, di cui era pronipote) e ufficiale dell’esercito zarista.

[2] Il riferimento è alle basi navali che l’Ucraina avrebbe voluto realizzare nel Mar Nero e nel Mar d’Azov, con l’ausilio britannico.

[3] https://edition.cnn.com/

[4] https://www.reuters.com/

[5] https://english.almayadeen.net/

[6] https://apnews.com/

[7] https://www.ndtv.com/

[8] https://www.bloomberg.com/

[9] https://www.youtube.com/

[10] https://www.scmp.com/

[11] https://edition.cnn.com/

[12] https://www.pravda.com.ua/

[13] https://www.ifw-kiel.de/

[14] S.P. Huntington, Lo Scontro di Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 1996, p. 445.

[15] Ibidem, p. 446.

[16] Petro Porošenko, Presidente dell’Ucraina all’epoca dell’accordo, avrebbe in seguito affermato che gli Accordi di Minsk servivano all’Ucraina per dare 4-5 anni di tempo per riorganizzare le forze secondo gli standard NATO. La Russia, dal canto suo, non ha mai abbandonato l’idea di riportare l’Ucraina sotto la sua influenza.


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Giuseppe Cappelluti, nato a Monopoli (Bari) nel 1989, vive e lavora in Turchia. Laureato magistrale in Lingue Moderne per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Bergamo, ha conseguito la laurea triennale in Scienze della Mediazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Bari. Dopo aver trascorso periodi di studio presso l’Università di Tartu (Estonia) e a Petrozavodsk (Russia), nel 2016 ha conseguito un Master in Relazioni Internazionali d’Impresa Italia-Russia presso l’Università di Bologna. Dal 2013 ha pubblicato numerosi articoli su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Suoi contributi sono apparsi anche su “Fond Gorčakova” (Russia), “Planet360.info” (Italia), “Geopolityka” (Polonia) e “IRIB” (oggi “Parstoday”, Iran).