Che la cosiddetta “primavera araba” si stia rivelando, come molti seri e disincantati analisti temevano, una pessima stagione per gli arabi (e non solo per loro), pare difficile negarlo, tanto che alcuni non esitano ormai a definirla un “inverno arabo”. In effetti, perfino in Tunisia ed in Egitto si sta delineando una situazione politica assai diversa da quella che, fino a pochi mesi fa, si poteva immaginare, tenendo conto dei motivi che avevano spinto gran parte della popolazione di questi Paesi a rivoltarsi contro due tra i più corrotti e inetti regimi del mondo arabo. D’altra parte, il ruolo di “sicari”, per conto degli Usa, svolto dal Qatar e dalla Arabia Saudita lascia ben pochi dubbi su che cosa ci si deve aspettare dalla rivolta contro il regime di Assad, in particolare dopo che la Nato, insieme con le milizie al soldo dell’emiro del Qatar, è riuscita a “liquidare” il regime di Gheddafi e a far regredire la Libia in quella condizione di debolezza e di sudditanza rispetto alle potenze occidentali, dalla quale, comunque la si pensi, il colonnello libico era riuscito a liberarla. Ed è indubbio che sia in Libia che in Siria – ove già negli anni Ottanta la Fratellanza musulmana si rese responsabile di una serie di attentati terroristici che culminarono in una insurrezione armata che venne duramente repressa dalle forze governative – sia stato facile per agenti stranieri attizzare il fuoco della rivolta.
In realtà, stiamo assistendo ad una complessa partita sullo scacchiere internazionale, in cui però la potenza predominante riesce ancora a mantenere saldamente l’iniziativa strategica. Certo, il fatto che gli Usa abbiano dovuto rinunciare ad un controllo diretto di aree di vitale importanza, sia sotto il profilo geoeconomico che sotto quello geopolitico, e decidersi per un “approccio indiretto”, basato sulla collaborazione di diversi attori sociali e politici, implica per la potenza d’Oltreoceano la cessione, per così dire, di non irrilevanti quote di potere ad alleati che potrebbero pure non essere più tali nel giro di breve tempo. Nondimeno, la posta in gioco è troppo alta perché gli Usa, preso atto con l’amministrazione Obama di non disporre di forze sufficienti per poter fare tutto da soli, lascino “campo libero” ad altri attori geostrategici e si rassegnino a perdere l’iniziativa. Perduta quest’ultima, infatti, il declino degli Stati Uniti non sarebbe più relativo, considerando il legame tra la potenza economica statunitense, il sistema finanziario imperniato sui petrodollari e la funzione di “gendarme” dell’oligarchia occidentale che gli Usa esercitano perlomeno a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, ovvero dopo il tramonto della talassocrazia britannica. Inoltre, si deve tener presente pure che gli Usa possono contare su una miriade di organizzazioni internazionali, in grado di agire come “quinte colonne”, e su potentati economici che, tramite la manipolazione dell’informazione, possono facilmente “orientare” l’opinione pubblica occidentale. Del tutto naturale quindi che in Europa non vi sia alcuna seria protesta contro il regime del Bahrein, che continua a reprimere con violenza una rivolta popolare pacifica, con il consenso e gli aiuti militari degli Stati Uniti, che da decenni usano il Bahrein come avamposto strategico per contenere l’Iran e fomentare l’odio tra sunniti e sciiti.
Comunque sia, tecniche di infiltrazione, di mistificazione e di disinformazione – anche se in funzione di una volontà politica che sa far leva sulle divisioni tribali, etniche o ideologiche presenti, sia pure in forma e misura diverse, in qualsiasi Stato, allo scopo di rovesciare un regime che sia (o sia considerato) ostile ai progetti di egemonia globale dei gruppi (sub)dominanti atlantisti – non possono evitare che si venga a creare una situazione internazionale estremamente fluida e in continua evoluzione. Vero che è proprio una tale situazione a rendere possibile quella geopolitica del caos – che è una interpretazione ed applicazione più sofisticata della strategia del divide et impera – che di fatto consente agli americani di impedire che si arrivi ad un reale equilibrio multipolare. Eppure, nulla esclude, ma anzi è assai probabile che, con il moltiplicarsi del numero dei giocatori e quello degli obiettivi che si perseguono, il gioco sfugga di mano a chiunque, americani inclusi. Vale a dire che non sarebbe affatto strano se si dovesse intendere la geopolitica del caos più come un genitivo soggettivo che come un genitivo oggettivo – che cioè fosse il caos stesso a diventare il “soggetto” geopolitico principale, indipendentemente dalla volontà dei diversi giocatori (secondo la nota tesi in base a cui, sotto certi aspetti, conta più il gioco che i giocatori).
Non a caso, George Friedman, il direttore di “Stratfor” (la nota “agenzia geopolitica” statunitense, che è ritenuta essere “vicina” ad ambienti della Cia), in un articolo che prende in esame la strategia della Russia, (1) esprime la preoccupazione (evidentemente non solo sua ma di diversi circoli atlantisti) che Washington perda di vista che anche in questa fase storica il nemico più pericoloso per gli Stati Uniti è sempre la Russia. E, secondo Friedman, la Russia avrebbe tutto l’interesse a “distrarre” gli Usa, lasciando che affondino nelle “sabbie mobili” della politica del Medio e Vicino Oriente, anche al fine di rafforzare i legami con la Germania, dato che questo grande Paese europeo potrebbe, a causa della crisi di Eurolandia e, in generale, della Unione Europea, essere tentato di dar vita ad una nuova e assai più incisiva Ostpolitik. Insomma, Friedman è ben consapevole dei rischi che corrono gli americani entrando nel labirinto geopolitico arabo, benché gli Stati Uniti possano avvalersi del “filo d’Arianna” che offrono loro sia i gruppi islamisti filo-occidentali sia l’attuale politica della Turchia, che sembra ancora essere (nonostante che, insieme con il Brasile, avesse firmato, nel maggio del 2010, un accordo sul nucleare iraniano – accordo ritenuto da alcuni osservatori il primo passo della Turchia per sganciarsi dalla politica atlantista) un pilastro fondamentale della Nato e (nonostante l’incidente della Freedom Flotilla) un alleato fidato di Israele.
D’altra parte, a giudizio di Friedman, una Siria filo-iraniania rappresenterebbe, per la Russia, un “interesse strategico” secondario, dato che il vero scopo della Russia consisterebbe nel guadagnare tempo, “deviando” la punta di lancia statunitense verso l’Iran, onde poter concentrarsi nel ridisegnare la mappa geostrategica dell’ex Unione Sovietica e prepararsi alle sfide geopolitiche del secolo appena cominciato. Si tratta però di una tesi, in verità, non del tutto convincente. Da un lato, è evidente che Friedman non può ammettere esplicitamente che sia le pressioni dei mercati su Eurolandia, sia la costruzione dello scudo antimissile in Europa orientale non sono affatto senza relazione con la politica di potenza americana nel Medio e Vicino Oriente; dall’altro, sebbene non si possa sottovalutare l’importanza che rivestono per la sicurezza della Russia i Paesi dell’ex Unione Sovietica (in specie l’Ucraina), i russi paiono consapevoli che la destabilizzazione in “chiave atlantista” dell’intera area mediterranea e del mondo musulmano non solo minaccia di vanificare gli sforzi di Mosca per continuare ad essere presente nel Mediterraneo (grazie alla base navale di Tartus in Siria), ma soprattutto prepara il terreno per “nuove” insurrezioni o rivoluzioni colorate in Iran e negli stessi Paesi dell’ex Unione Sovietica.
E’ in questa prospettiva, che, a nostro avviso, acquistano rilievo le considerazioni di Friedman sul fatto che il tratto distintivo della Russia (un Paese sfavorito, a parere del direttore di “Stratfor”, dalla mancanza di un sistema fluviale come quello nordamericano del Mississippi-Missouri-Ohio, e quindi troppo dipendente da un complesso e inefficiente sistema ferroviario per il trasporto delle merci) sia di essere sempre stata una (grande) potenza militare, pur senza essere mai stata una (grande) potenza economica, in virtù di un apparato centrale di sicurezza solido e potente. Indubbiamente è vero che sia stata la capacità strategica di saper combinare i diversi “fattori di potenza a permettere alla Russia di sconfiggere prima Napoleone e poi, nella Seconda guerra mondiale, le temibili armate tedesche. (Al riguardo, concesso che non si capisca il presente se non si conosce il passato, è opportuno ricordare che l’Unione Sovietica, riuscì a trasferire, nella seconda metà del 1941, sotto il fuoco nemico, oltre 1500 aziende strategiche nella zona degli Urali e a farle entrare subito in produzione. Sicché, l’economia sovietica fu in grado, pur essendo priva delle risorse e della materie prime dell’Ucraina dal 1941 al 1943, di superare in produttività quella tedesca per tutta la guerra, grazie ad una mobilitazione totale che fu possibile attuare per l’eccezionale sforzo dell’apparato di sicurezza e politico che, benché sovente rozzo e brutale, seppe “trasformare” il patriottismo dei russi – termine con cui si indicano significativamente tutti i popoli dell’Urss nella “grande guerra patriottica” – e le stesse caratteristiche del territorio dell’Unione Sovietica, in un formidabile “moltiplicatore di potenza”. (2) Quel che allora qui ci preme sottolineare è che, al contrario di quanto si tende a fare oggi, non si devono mai trascurare i fattori politico-culturali – che taluni definiscono come soft power – allorché si valutano i reali rapporti di forza. E ciò vale, naturalmente, per qualsiasi Paese e qualsiasi contesto geopolitico).
Non sorprende di conseguenza che – quando, negli anni Ottanta, la classe dirigente sovietica decise di aprirsi al “mercato globale” per far fronte alla grave crisi sociale ed economica, originatasi per il “peso eccessivo” delle spese per la difesa e a causa di una burocrazia elefantiaca, corrotta, ed incapace, anche per gravi limiti ideologici, di risolvere i problemi posti dalla formazione di “grossi” ceti medi – il collasso di questo apparato sia coinciso con la dissoluzione dello Stato sovietico e che alla “primavera” di Gorbaciov sia seguito il terribile “inverno russo” di Eltsin. Né sorprende che a guidare la ripresa della Russia, sia stato (e sia ancora) un uomo come Putin, un ex ufficiale del Kgb che sa benissimo che per la Russia la relazione tra potere militare e potere economico si fonda su una sicurezza geostrategica “ad ampio raggio”, di cui cioè non possono non essere parte integrante anche i rapporti con Paesi come la Siria e l’Iran, dacché da qui l’ “onda atlantista” si propagherebbe rapidamente nella stessa Russia – come confermato, in un certo senso, anche dalla guerra russo-georgiana del 2008 (che invece Friedman, per quell’inveterato pregiudizio antirusso che contraddistingue la cultura angloamericana, nonché per evidenti ragioni ideologiche, sostiene che è stata una guerra d’aggressione russa contro la Georgia). Perciò è lecito ritenere che, insieme con l’Iran e la Cina (che non pare avere alcuna intenzione di farsi accerchiare dagli Usa), la Russia, oltre a comprendere qual è il vero scopo dello scudo antimissile statunitense, si sia convinta che occorra tracciare una linea di resistenza invalicabile e mostrare alla comunità internazionale che non è disposta a tollerare un ulteriore intervento militare delle “forze occidentali” in un altro Stato sovrano, dopo l’aggressione contro la Serbia e quella contro la Libia.
Tuttavia, la fitta rete di relazioni economiche e politiche che vedono nuovamente protagonista la Russia di Putin – Brics, Sco e Unione Eurasiatica – non sembra ancora tale da poter dar vita ad un autentico “blocco di potenze antiatlantiste”, che impedisca la polverizzazione geopolitica e quel narcisismo identitario che, per quanto concerne il mondo musulmano, indubbiamente favorisce il fondamentalismo e l’estremismo degli islamisti, che sono ben lungi dal poter significare quel che, per i popoli arabi, poté significare, nel secolo scorso, il nasserismo o lo stesso ba’thismo e che solo la tracotanza, la malafede o l’analfabetismo politico-culturale dei giornalisti e degli intellettuali occidentali possono indurre a scambiarli per “pacifici combattenti” per la libertà, la democrazia e la giustizia sociale. In ogni caso, posto che la “primavera araba” la si debba interpretare alla luce di questo contesto geopolitico – un contesto di cui è difficile prevedere come si potrà evolvere – è già chiaro che ancora una volta l’Europa non solo non deciderà, ma si troverà ad avallare decisioni che saranno addirittura contro l’interesse dei popoli europei, ormai stretti tra la Scilla dei “mercati” e la Cariddi dell’impotenza politica e militare della Unione Europea, sempre più invece “portavoce” degli interessi di quei circoli atlantisti che hanno mutato la democrazia occidentale da democrazia liberale (ossia puramente formale) in un sistema politico il cui compito consiste nell’adeguare il sistema sociale ed economico alle esigenze dei “mercati”, ovvero agli interessi dell’oligarchia occidentale. E che tutto ciò renda assai più problematica, se non impossibile, la costruzione di una alternativa multipolare, che metta fine alla prepotenza atlantista o almeno possa effettivamente limitarla, non è certamente difficile comprenderlo, se si considera quale “motore” politico e culturale sarebbe un polo strategico europeo che fosse veramente “sovrano”. Rebus sic stantibus invece la debolezza politica europea si mostra essere il più forte “alleato” della talassocrazia nordamericana e il più pericoloso nemico della pace mondiale e delle genti dell’Eurasia, europei e arabi compresi.
Note:
1) http://www.stratfor.com/weekly/russias-strategy
2) Si vedano Richard Overy, Russia in guerra, Il Saggiatore, Milano, 2000 e del medesimo autore La strada della vittoria, Il Mulino, Bologna, 2002. Essenziale pure Walter S. Dunn Jr, Stalin’s keys to victory, Stackpole Mechanisburg, Pa, 2006.
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