Finita l’era di George W. Bush, agli Stati Uniti si imponeva un drastico ridimensionamento della propria politica di potenza. Ma rinunciare definitivamente a quel progetto di egemonia planetaria che caratterizza la politica dello Stato nordamericano perlomeno a partire dalla Seconda guerra mondiale, avrebbe imposto pure un ridimensionamento della potenza economica degli Stati Uniti, con conseguenze difficilmente prevedibili, ma certo tutt’altro che vantaggiose per la potenza capitalistica predominante e per i “centri di potere” subdominanti, i cui privilegi e interessi dipendono, direttamente o indirettamente, dalla potenza degli Usa. Del resto, non può meravigliare nessuno se, tenendo conto delle enormi spese militari degli Stati Uniti, si suole definire il grande Paese nordamericano come un Warfare State, ossia uno Stato che si basa su un gigantesco apparato bellico sia per garantire, mediante l’acquisto di sistemi d’arma sempre più costosi e sofisticati, il finanziamento necessario per lo sviluppo delle proprie imprese strategiche, sia per svolgere quel ruolo di gendarme della “comunità internazionale” che permette agli statunitensi di regolare non solo le controversie internazionali ma pure i conflitti sociali nella maggior parte dei singoli Paesi, al fine di tutelare appunto determinati “gruppi d’interesse”, che senza ombra di dubbio non possono essere identificati con i ceti sociali meno abbienti.
In altre parole, gli Stati Uniti svolgendo il ruolo di gendarme del grande capitale occidentale incrementano, al tempo stesso, la propria potenza militare ed economica, e tanto maggiore è quest’ultima tanto più si rende indispensabile un sistema internazionale imperniato sulla indiscussa egemonia degli Stati Uniti. Si può peraltro affermare che, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, nulla sembrava potesse far apparire un tale legame come una sorta di “circolo vizioso”. Secondo la maggior parte degli analisti, se di “circolo” si trattava, lo si sarebbe dovuto definire piuttosto come un “circolo virtuoso”. Nondimeno, già negli anni Ottanta era facile constatare non solo che la “distanza” tra gli Stati Uniti e altre “potenze emergenti” si andava riducendo, ma che la relazione tra la “base produttiva” e la potenza militare degli Stati Uniti non era affatto esente da gravi e numerosi “problemi”, a cominciare da una bilancia commerciale perennemente in passivo e dagli squilibri derivanti da un apparato militare sempre più “pesante”. Difficoltà però in un certo senso “mascherate” dal fallimento del crollo del Muro di Berlino, tanto che è proprio negli anni Novanta che la classe dirigente statunitense e i circoli “filo-atlantisti” si illusero di poter dar vita ad un sistema unipolare fondato sulla supremazia degli Stati Uniti e dei cosiddetti “mercati”. Di conseguenza, se Clinton giunse a liberalizzare del tutto il movimento dei capitali (ponendo le premesse per lo tsunami finanziario del 2008, che pure gli italiani, anche per l’insipienza e la codardia della classe politica del Bel Paese, stanno pagando con “lacrime e sangue”), l’amministrazione di George W. Bush, sfruttando l’indignazione e le preoccupazioni dell’opinione pubblica mondiale per l’attentato dell’11 settembre, ritenne addirittura che i tempi fossero maturi per la conquista del “cuore” dell’Eurasia.
Che fine abbia fatto la dissennata politica di George W. Bush lo sanno tutti e quindi non vale la pena di rammentarlo, ma quel che invece tuttora molti non riescono a comprendere è che in realtà con Obama gli Stati Uniti non hanno fatto alcun passo indietro, né sul piano economico e finanziario né sul piano politico-militare. Apparentemente tutto è mutato rispetto all’amministrazione di George W. Bush, ma in questo caso vale più che mai il noto detto secondo cui “plus ça change, plus c’est la même chose”. In particolare, anziché ad una radicale e quanto mai urgente (in specie dopo il 2008) riforma del sistema finanziario internazionale, si è assistito, da un lato, ad una limitazione della sovranità nazionale della maggior parte degli Stati occidentali e all’affermarsi del potere incontrastato dei “mercati” (ovvero di una decina di banche e gruppi finanziari, tutti statunitensi o comunque con “cuore e cervello”, per intendersi, made in Usa), dall’altro ad un tentativo di ridefinire, in funzione degli interessi statunitensi e dei gruppi subdominanti “filo-atlantisti”, la mappa geopolitica dell’area mediterranea, secondo una strategia imperniata sull’“approccio indiretto”. Preso atto cioè dell’impossibilità di realizzare un “equilibrio unipolare” e di poter “controllare” direttamente la variegata e complessa galassia musulmana, Obama ha sì voltato pagina, ma per conseguire lo stesso fine con altri mezzi.
In sostanza, si è trattato di lasciare più ampi “margini di manovra” ad altri attori geopolitici, in specie il Qatar e l’Arabia Saudita, sbarazzandosi di “vecchi” alleati ritenuti ormai troppo deboli, corrotti o inetti, onde evitare che gli Stati Uniti dovessero intervenire direttamente per difendere i propri interessi e quelli dei loro maggiori alleati nella regione mediterranea. E non si può negare che questa nuova strategia in un primo momento sembrava vantaggiosa per gli Stati Uniti: dal successo della rivolta “eterodiretta” contro Gheddafi al “recupero” di Erdogan, dopo il grave incidente della Mavi Marmara, pareva infatti che il Qatar fosse un attore geopolitico capace di assolvere perfettamente il proprio compito, potendo, tra l’altro, contare sul fatto che guerre e conflitti di ogni genere negli ultimi decenni hanno visto come protagonisti i musulmani (dall’Afghanistan alla Cecenia, dalla Bosnia al Kosovo, dall’Iraq a diversi Paesi africani), tanto che s’è venuta a creare una enorme massa di guerriglieri islamisti, pronti a combattere ovunque per la causa di un Islam che con il vero Islam ha poco a che fare, avendo invece molto in comune con “Mammona”. Era però ovvio che Obama rischiava di essere come l’apprendista stregone che evoca forze che non è in grado di controllare. Troppe le differenze, troppi i contrasti, troppe le divisioni perché Obama fosse il burattinaio e i musulmani (“dominanti” e “dominati”) fossero i burattini. D’altronde, non è facile destabilizzare e generare caos e disordine facendo in modo che i conflitti che ne derivano non possano prendere una piega imprevista, tanto più quando anche i “giocatori” che dovrebbero stare dalla stessa parte hanno interessi diversi e perfino opposti.
Non è affatto strano allora che nel giro di poco tempo la cosiddetta “primavera araba” si sia rivelata un “inverno terribile”: se in Libia la situazione è sfuggita di mano agli atlantisti (come provano, oltre all’uccisione del diplomatico statunitense Chris Stevens, i continui scontri a Bengasi e nel resto della Libia) e in Turchia Erdogan ha i suoi guai con una popolazione turca, sempre più insofferente verso la politica del governo, in Egitto i Fratelli Musulmani – gli stessi che hanno appoggiato i “bengasini” contro la Giamahiria (l’unico Stato africano con un Welfare degno di questo nome e in cui lavoravano centinaia di migliaia di “negri”, odiati proprio dalla “borghesia compradora” di Bengasi) e che in Siria combattono contro Assad – si sono mostrati incapaci di governare (al punto da inimicarsi buona parta della popolazione egiziana, che pure li aveva sostenuti contro Mubarak) e rendere così possibile un golpe militare. Sicché, anche se la situazione è ancora troppo incerta e fluida per fare previsioni, gli Stati Uniti sembrano rimasti “incastrati” tra il Qatar che appoggia i Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita che invece appoggia i militari egiziani, benché sia il Qatar che l’Arabia Saudita siano, com’è noto, “alleati di ferro” degli Usa e sostengano la bande islamiste che combattono contro Assad. Insomma, un vero “pasticciaccio” che vede Obama tra l’incudine dei Fratelli Musulmani e il martello dei militari egiziani e che pare ancora più complicato se si considerano i reali rapporti di forza tra l’Egitto (il cui esercito “dipende” dagli americani) e gli Usa, sempre che l’Egitto non possa (o non voglia) contare sull’appoggio di altre “potenze”.
Se dunque è comprensibile che gli Usa abbiano lasciato agli europei il ruolo, politicamente irrilevante, di condannare il regime egiziano mentre loro continuano a lavorare dietro le quinte (ma finora con scarso successo), è pure evidente che gli Stati Uniti, oltre ad essersi “impantanati” in Afghanistan e aver dovuto abbandonare l’Iraq (Paese in cui non passa quasi giorno senza che vi sia qualche strage o qualche attentato), si devono di necessità confrontare con un mutamento geopolitico su scala mondiale che rende loro sempre più difficile “recitare la parte” dei difensori della “comunità internazionale”. In quest’ottica, la vicende della Siria – impegnata da oltre due anni in una asperrima lotta contro bande di “mercenari” e terroristi islamisti che, con l’aiuto delle fasce più estremiste dell’opposizione siriana, cercano di rovesciare il regime di Assad – assumono un’importanza fondamentale, vuoi per la posizione geostrategica della Siria (“Paese cerniera” tra l’Iran ed Hezbollah e attore geopolitico di fondamentale importanza in tutta la regione), vuoi perché l’ostinata resistenza siriana ha fatto fallire il disegno di “Obama”, che pensava di ripetere in Siria quanto già accaduto nella Libia di Gheddafi, facendo affidamento sulla capacità degli “alleati” (il Qatar, l’Arabia Saudita e la stessa Turchia) di “chiudere” rapidamente la partita con Assad, di modo da evitare che potessero prendere il sopravvento gruppi islamisti non “graditi” a Washington.
Le premesse per un rapido successo degli “atlantisti” però c’erano o pareva ci fossero tutte. Una volta trasformate le prime manifestazioni pacifiche contro Assad (che pure si era mostrato disposto a fare importanti “aperture”, come la concessione della cittadinanza ai curdi e l’abolizione dello stato d’emergenza in vigore, a causa del conflitto con Israele, fin dagli anni Sessanta) in una rivolta armata, grazie all’infiltrazione in Siria di migliaia di guerriglieri islamisti che potevano contare sulla “collaborazione” dei Fratelli Musulmani siriani (“antichi nemici “ degli Assad), per l’esercito siriano si profilava il compito durissimo di aver ragione di decine di migliaia di guerriglieri ben armati e che avevano pure il vantaggio di disporre di finanziamenti pressoché illimitati e di basi logistiche situate oltre i confini della Siria, di modo che sarebbe stato impossibile per l’esercito siriano tagliare le loro linee di rifornimento. Inoltre, indipendentemente dal numero dei disertori (peraltro, del tutto normale, dato che l’esercito siriano è un esercito di leva), era ovvio che per Assad sarebbe stato ben difficile “sigillare” i confini con la Turchia, l’Iraq, il Libano e la Giordania e nel contempo disporre di forze sufficienti per sconfiggere un movimento di guerriglia così forte e numeroso (si badi che gli esperti militari ritengono che occorra una superiorità di circa dieci ad uno perché un esercito regolare possa debellare un forte movimento di guerriglia – è noto, ad esempio, che gli inglesi, dopo la Seconda guerra mondiale, per sconfiggere circa 12000 guerriglieri malesi dovettero mobilitare 350000 uomini). (1)
Nonostante ciò, l’esercito siriano – che è sempre stato un “osso duro” anche per Israele – ha saputo “ribattere colpo su colpo”, dando prova di notevole flessibilità tattica ed operativa, e allorquando i media mainstream davano Assad per spacciato ha sferrato una controffensiva che lo ha portato a riconquistare buona parte del territorio perduto, tra cui Qusair, una delle più importanti roccaforti dei “ribelli”. Ma Assad, ha pure potuto sfruttare le crescenti rivalità tra questi ultimi, dato che proprio il continuo affluire in Siria di gruppi islamisti tra i più fanatici e “settari” ha indebolito il fronte dei “ribelli”, accentuandone le rivalità e rendendo ai nordamericani e ai loro alleati pressoché impossibile “gestire” una situazione che diventa ogni giorno più complessa. Di fatto, anche qui, gli Stati Uniti sono finiti in un vicolo cieco, anche per il deciso sostegno alla Siria da parte della Russia, della Cina e naturalmente dell’Iran, che pare abbiano compreso che “cedere” sulla Siria equivarrebbe a dare la possibilità agli statunitensi di “giocare (nuovamente) la carta” dell’islamismo (sia chiaro, da non confondere con l’Islam) per destabilizzare l’intera Eurasia con “rivoluzioni colorate” e “quinte colonne”.
Ecco allora che proprio subito dopo che gli ispettori dell’Onu erano giunti a Damasco si è diffusa la notizia che Assad avrebbe usato il gas contro il “proprio popolo”. Un crimine contro l’umanità che richiederebbe un immediato intervento della “comunità internazionale”. Che cosa sia esattamente accaduto noi ovviamente non lo sappiamo (anche perché non possiamo basarci su testimonianze di inviati speciali in alberghi a cinque stelle, né ci fidiamo delle “gole profonde” di Washington), ma possiamo affermare che le immagini dei civili uccisi dal gas diffuse dai “ribelli”, secondo esperti seri e imparziali, escludono che si tratti di gas nervino (afferma, ad esempio, il generale Piero Laporta: «Non c’è un solo fotogramma, che sia uno, che mostri un morto ammazzato da gas nervino…La bugia diventa ancora più evidente osservando che manca la proporzione fra i morti e i sopravvissuti intossicati») (2). Inoltre, non solo Assad non ha usato armi chimiche quando era in difficoltà, ma le avrebbe usate adesso che l’esercito siriano sta riconquistando terreno, ordinando un attacco del tutto inutile sotto il profilo piano militare e perfino controproducente dal punto di vista politico. Comunque sia, Washington ha subito reagito senza nemmeno aspettare di conoscere la relazione degli ispettori dell’Onu, sostenendo che si tratta di un atto gravissimo e che Assad deve essere punito per questo, anche nel caso che non vi sia una risoluzione dell’Onu (invero assai improbabile dato che pare scontato il veto della Russia e della Cina, non affatto convinte delle “prove” fornite dai “ribelli”, già ritenuti responsabili di aver usato armi chimiche da Carla Del Ponte – ex procuratore del Tribunale penale internazionale e membro della Commissione d’inchiesta dell’Onu sulle violazioni di diritti umani in Siria).
Eppure risalgono solo a pochi giorni fa le dichiarazioni del generale Martin Dempsey, capo degli stati maggiori riuniti, secondo cui un intervento degli Usa non sarebbe decisivo sul piano militare dato che non eliminerebbe le tensioni religiose, tribali ed etniche che sono presenti in Siria. Vero che i nordamericani possono facilmente impiegare missili (lanciati da navi, sottomarini o aerei, anche a distanze tali che sarebbero oltre il raggio d’azione dell’apparato di difesa aerea e navale siriano, che in effetti è piuttosto obsoleto, anche se potrebbe mettere a segno qualche colpo) e aerei (droni inclusi). Non si capisce però come gli Usa potrebbero raggiungere il loro scopo politico. Infatti, per rovesciare il regime di Assad, nemmeno una no fly zone potrebbe essere sufficiente. Per piegare la resistenza di Assad. occorrerebbe un intervento di ingenti forze terrestri, ma ciò non è possibile per motivi evidenti a chiunque. Attaccando, gli Usa rischiano di “impantanarsi” in un altro conflitto e di moltiplicare pure il numero delle vittime civili (che ha già superato la spaventosa cifra di centomila morti, un dato che rafforza la convinzione di chi pensa che l’uso – vero o falso che sia – di armi chimiche serva a Washington solo come pretesto per intervenire), ma soprattutto rischiano di incendiare una polveriera, non solo per le ragioni evidenziate dallo stesso generale Dempsey, ma per la netta presa di posizione degli stessi alleati della Siria. Al riguardo non lasciano dubbi le intenzioni dell’Iran, che ha già minacciato ritorsioni contro Israele, (3) ma anche l’”orso russo” questa volta non pare affatto un “orso di cartone”. Del resto, sbaglia chi scrive che gli Usa finora si sono limitati a dare un appoggio politico e logistico ai “ribelli”, giacché l’aiuto di gran lunga più importante fornito dagli Usa ai “ribelli” concerne invece l’intelligence. Gli Usa controllano con i satelliti (e non solo) l’intero territorio della Siria, informando (tramite ufficiali di collegamento presenti in Giordania e Turchia, ove si trova un potentissimo apparato della Nato), i “ribelli” sui movimenti dell’esercito siriano (e probabilmente ne “intossicano” anche le comunicazioni). Perché allora gli Usa dovrebbero sferrare un attacco limitato contro la Siria se è palese che, per così dire, il “gioco non vale la candela”?
Posto che l’intervento per motivi umanitari è solo bolsa e melensa retorica (e lo è a maggior ragione se si tiene conto che gli Usa sono il Paese che ha usato le armi atomiche, il napalm, i defolianti, le bombe all’uranio impoverito ed al fosforo, che ha sterminato milioni di civili dopo la Seconda guerra mondiale – dalla Corea del Nord al Vietnam, dal Laos alla Cambogia, dall’Iraq all’Afghanistan – , che ha praticato la tortura nelle famigerate prigioni della Cia – e continua a farlo nel campo di concentramento di Guantanamo – , che finanzia e appoggia da decenni gli squadroni della morte nell’America Latina e che – last but not least – ha già mentito pubblicamente riguardo alle armi chimiche degli iracheni), non è difficile rispondere se si tiene presente quanto si è detto riguardo al fallimento della strategia statunitense. E’ la mancanza di una “vera” strategia che contrassegna ormai la politica dell’amministrazione Obama, che non può permettersi di tornare alla politica delle cannoniere, senza pagare un prezzo troppo alto per gli Stati Uniti, ma che non può nemmeno più lasciare che siano altri a fare la guerra per conto di Washington. Osserva, al riguardo, Stefano Vernole che «Obama si trova alle prese con un dilemma tutt’altro che facile: essere un nuovo Gorbaciov e traghettare in maniera pacifica l’inevitabile ridimensionamento statunitense o sognare di essere un nuovo Roosevelt, nell’illusione che una rinnovata “economia di guerra” possa rilanciare un paese ormai industrialmente destrutturato e finanziariamente fallito». (4) E’ proprio la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, per gli Usa di risolvere questo dilemma che pare all’origine dei dubbi e delle “oscillazioni” di Obama e spingerlo verso scelte che contribuiscono a rendere ancor più ingarbugliata la “matassa” che gli Usa dovrebbero sbrogliare.
Ma non si deve neppure dimenticare che la “macchina bellica” statunitense continua ad “arricchirsi” di nuove basi e installazioni nell’Europa meridionale e orientale, di modo che si rafforza viepiù il “vincolo di dipendenza” di Paesi come l’Italia da Washington (non ci si lasci neanche ingannare dalla presa di posizione della Bonino, che sa benissimo che vi è un contingente militare italiano in Libano – contingente che in caso di guerra verrebbe a trovarsi in una posizione tutt’altro che invidiabile – e che agli Usa non servono le basi italiane per sferrare una attacco contro la Siria, dato che quelle in Turchia, a Cipro e in Giordania sono più che sufficienti alla bisogna). Né il comportamento della Gran Bretagna e della Francia, che inseguono “sogni di gloria neocoloniale” illudendosi di essere ancora delle grandi potenze, aiuta a far sì che la “comunità internazionale” si opponga alla prepotenza degli Stati Uniti, incapaci di far coincidere obiettivi militari e scopi politici. Naturalmente non si può nemmeno contare su Israele, anche se, in verità, sulle vicende siriane Israele sembra diviso tra il desiderio di vedere cadere Assad e il timore che terroristi jihadisti prendano il sopravvento, tanto che non sono pochi gli analisti che ritengono che ad Israele, tutto sommato, non dispiaccia una “situazione di stallo”. E’ evidente però che una tale situazione, ove si verificasse, non potrebbe essere che temporanea.
In definitiva, si deve riconoscere che ai siriani è affidato «il difficile e gravoso compito di resistere, per consentire l’emergere definitivo del nuovo sistema multipolare non più a guida angloamericana e nel quale le controversie internazionali potrebbero non essere più risolte a colpi di cannoniere», (6) purché non si pensi che il “corso della storia” vada necessariamente in questa direzione né che la “geopolitica del caos” sia destinata a scomparire rapidamente. Proprio perché, come si è già sottolineato, gli Usa sono in primo luogo un Warfare State (e lo sono in quanto sono la potenza capitalistica predominante) non ci si deve aspettare che una alternativa multipolare, la si possa realizzare senza conflitti (non solo di natura bellica). Pertanto, sia che Obama decida di attaccare la Siria sia che si renda conto dell’assurdità e della pericolosità di una tale scelta, la questione veramente decisiva è quella di trovare il modo di “limitare” la volontà di potenza degli Usa, affinché sia possibile risolvere “positivamente” quel dilemma che gli Stati Uniti non possono risolvere senza che, in qualche modo, siano costretti a farlo. Per questo motivo difendere oggi la sovranità nazionale della Siria, nonostante si possano avere idee assai diverse sulla politica di Assad (che indubbiamente non è una “mammoletta”, ma dopo circa trenta mesi di guerra civile è da insipienti o da ipocriti pretendere di tracciare una linea che separi nettamente i “buoni” dai “cattivi”), significa prendere una posizione che equivale a fare una scelta a favore di un sistema policentrico, cioè un autentico sistema multipolare, che, se fondato su un equilibrato realismo geopolitico, potrebbe mettere fine all’aberrante politica di potenza degli Stati Uniti.
1.Vedi Noel Barber The war of the running dogs: how Malaya defeated the communist guerrillas, 1948-60, Collins, Londra, 1971.
2.http://www.pierolaporta.it/la-vittima-dei-nervini-la-verita/.
3.http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/130790 .
4.http://www.eurasia-rivista.org/siria-il-bluff-delloccidente-rischia-di-trascinare-il-mondo-nel-baratro/19971/ .
5.Oggi pare quasi impossibile che la Francia sia la nazione che diede i natali a De Gaulle, ossia un uomo politico che (sebbene non si debbano dimenticare i suoi “errori”) se fosse stato presente negli anni Novanta, con la scomparsa dell’Unione Sovietica e la riunificazione della Germania, probabilmente avrebbe impedito che il “Vecchio continente” diventasse una sorta di “appendice europea” degli Usa.
6. Vedi nota 4.
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