Il Piano Yinon prende vita: la Siria nel mirino di Israele

La Siria sta attraversando una fase di estrema instabilità, con le province costiere di Latakia e Tartous al centro di un’insurrezione contro l’amministrazione di transizione guidata da Hay’at Tahrir al-Sham (HTS). La rivolta è condotta dal generale di brigata Ghiath Suleiman Dallah, ex ufficiale della 4ª Divisione dell’Esercito Arabo Siriano (SAA), figura vicina all’Iran e attuale capo del Consiglio Militare per la Liberazione della Siria. La sua opposizione all’autorità di HTS ha scatenato una violenta repressione da parte delle forze di sicurezza, che includono settari stranieri e mercenari provenienti da diversi paesi.

L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR) ha documentato almeno 340 alawiti giustiziati sommariamente nei distretti di Banyas, Latakia e Jableh, portando il bilancio complessivo delle vittime degli scontri a oltre 524 unità[1]. Gli attacchi hanno preso di mira non solo la popolazione alawita, ma anche cristiani e altre minoranze religiose, in un’operazione che sembra ispirata a una pulizia settaria su vasta scala[2]. Centinaia di civili sono stati costretti a fuggire, trovando rifugio nella base aerea russa di Hmeimim, mentre il governo di transizione continua a imporre una politica di terrore nei confronti dei dissidenti e delle minoranze.

La violenza scatenata da HTS si inserisce in un più ampio contesto di caos controllato, funzionale alla ridefinizione degli assetti geopolitici della Siria. La componente “gihadista” legata ad HTS, guidata da Ahmad Al Sharaa (Abu Mohammad al Julani), ha utilizzato il terrore come strumento di consolidamento del potere, attaccando deliberatamente le comunità alawite e qualsiasi elemento riconducibile all’ex governo di Assad.

Oltre agli omicidi mirati, le milizie di Al Sharaa hanno deportato centinaia di persone, incendiato abitazioni e saccheggiato interi quartieri, riproponendo dinamiche simili a quelle viste durante i primi anni della guerra civile. Secondo alcune testimonianze locali, gruppi stranieri, composti anche da combattenti caucasici e asiatici, sono stati coinvolti nelle operazioni, alimentando il sospetto che dietro questo crescendo di violenza vi siano attori esterni interessati a destabilizzare ulteriormente il paese[3]

Questa strategia del terrore non solo ha aumentato la frammentazione interna della Siria, ma ha anche creato le condizioni per l’ingresso di potenze straniere. Mentre il governo di transizione si dimostra sempre più incapace di garantire la sicurezza e la stabilità, emerge un attore pronto ad approfittare del vuoto di potere: Israele.

 

Israele e la strategia della Siria divisa

In questo scenario caotico, emerge un attore che trae un chiaro vantaggio dalla situazione: Israele. L’instabilità siriana ha consentito a Tel Aviv di rafforzare la propria influenza oltre il Golan occupato, con Benjamin Netanyahu che ha dichiarato di essere pronto a un intervento militare per proteggere i drusi siriani[4]. Il ministro della Difesa Israel Katz ha ribadito la posizione israeliana, definendo Abu Mohammad al-Julani, capo di HTS, «un terrorista jihadista della scuola di al-Qaeda» e accusandolo di crimini contro i civili[5]. Tuttavia, nonostante le dichiarazioni ufficiali, i drusi del Golan rifiutano categoricamente qualsiasi protezione israeliana.

Il giornalista Hassan Sham, di Majdal Shams, afferma: «Israele resta un paese nemico per i siriani, quindi anche per i drusi. Solo una percentuale minuscola di persone accetterebbe una sovranità israeliana, la maggior parte la rifiuta.»[6]

Lo Stato ebraico, tuttavia, continua a perseguire una strategia mirata a giustificare la sua crescente presenza militare in Siria meridionale. Netanyahu ha chiesto inizialmente la smilitarizzazione della regione meridionale siriana e successivamente ha preteso che l’esercito siriano non si schierasse lungo il confine. Infine, ha dichiarato che Tel Aviv è pronta a difendere i drusi a seguito di attacchi avvenuti nei pressi di Jaramana, sobborgo di Damasco⁴.

Questa posizione si inserisce in una più ampia strategia nota come “dottrina della periferia”, con cui Israele cerca di stabilire alleanze con minoranze etniche e religiose nei paesi arabi per minarne l’unità e indebolire i governi centrali⁵. L’obiettivo finale è quello di creare uno scenario di frammentazione permanente, in cui la Siria rimanga divisa in zone di influenza facilmente manipolabili.

Mentre Netanyahu spinge per una zona demilitarizzata nel sud della Siria, il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar, parlando a Bruxelles, ha dichiarato che «la stabilità della Siria potrà essere raggiunta solo attraverso un processo di federalizzazione e la creazione di regioni autonome»[7]. La proposta israeliana non è casuale: la divisione della Siria in entità separate garantirebbe a Israele una maggiore sicurezza lungo il confine settentrionale e impedirebbe la ricostruzione di un fronte unito contro Tel Aviv.

Nel frattempo, l’occupazione israeliana nel sud della Siria avanza senza sosta. Le forze israeliane si sono posizionate stabilmente in diverse aree strategiche, comprese Quneitra e Deraa, e pattugliamenti militari si spingono fino a venti chilometri all’interno del territorio siriano⁷. Alcune notizie indicano che Tel Aviv sta anche promuovendo iniziative economiche per stabilizzare la propria presenza, offrendo impieghi nei nuovi insediamenti ai siriani delle zone sotto controllo israeliano, una tattica simile a quella utilizzata in passato nel sud del Libano⁸.

Israele, dunque, non si limita a interventi militari mirati, ma persegue un progetto più ampio di ingegneria geopolitica, in cui la destabilizzazione della Siria e la sua trasformazione in uno Stato frammentato risultano funzionali alla sua strategia di sicurezza e dominio regionale.

 

Il Piano Yinon e la disgregazione della Siria

Questa strategia rientra perfettamente nelle linee guida del Piano Yinon, un progetto geopolitico israeliano pubblicato nel febbraio 1982 sulla rivista “Kivunim”, in un articolo intitolato Una strategia per Israele negli anni ‘80. Firmato da Oded Yinon, il documento analizzava la fragilità interna dei paesi arabi e delineava una strategia per istigare le divisioni religiose ed etniche, al fine di destabilizzare e frammentare gli Stati della regione in piccole entità settarie, in conflitto perpetuo tra loro. Yinon sosteneva che la sopravvivenza di Israele dipendesse dalla sua trasformazione in una potenza regionale imperiale e dalla dissoluzione degli Stati arabi esistenti attraverso la frammentazione su base etnica e confessionale. L’obiettivo strategico era che questi micro-stati diventassero satelliti di Israele, incapaci di minacciarlo militarmente o politicamente.

Questa visione non era nuova, ma rappresentava un’estensione delle strategie coloniali britanniche applicate in Vicino Oriente, ora adottate da Israele per garantire la propria superiorità geopolitica e militare. Il Piano Yinon si basa sul principio che il mondo arabo sia strutturalmente fragile, un “castello di carte” creato arbitrariamente da Francia e Gran Bretagna negli anni ‘20, senza tener conto delle divisioni interne. La sua frammentazione, secondo Yinon, avrebbe favorito gli interessi israeliani, eliminando le minacce provenienti da Stati arabi forti e uniti.

Nell’ottica di Yinon, l’Iraq rappresentava la minaccia più grande per Israele, persino più della Siria, ed era quindi il principale candidato alla balcanizzazione. Gli strateghi israeliani teorizzarono la sua divisione in tre Stati, separando le aree curde nel nord, le regioni sciite nel sud e le zone sunnite nel centro. Il primo passo verso questo obiettivo fu la guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), che il Piano Yinon descriveva come un’opportunità per destabilizzare il paese e accelerarne la disgregazione. L’invasione statunitense del 2003, con il conseguente smembramento dell’Iraq in entità autonome, ha poi di fatto realizzato quanto previsto da Yinon.

Ma non solo l’Iraq. Il Piano Yinon includeva anche la dissoluzione della Siria, del Libano, dell’Egitto e del Sudan. Nel caso siriano, il documento sosteneva che la sua frammentazione su base etnica e religiosa sarebbe stata l’obiettivo primario a lungo termine di Israele, mentre la distruzione del suo apparato militare sarebbe stata la priorità immediata.

Questa visione venne ripresa nel 2006 dall’ex colonnello dello spionaggio militare statunitense Ralph Peters, che pubblicò una serie di mappe geopolitiche ispirate alle linee guida del Piano Yinon[8]. Secondo queste proposte, il Vicino Oriente doveva essere ridisegnato su base etnica e confessionale, con la creazione di un Grande Libano, l’indipendenza del Kurdistan, la frantumazione dell’Iraq e dell’Arabia Saudita, oltre alla riduzione del territorio iraniano. L’obiettivo di fondo era quello di dividere il mondo arabo attraverso tagli geopolitici forzati, alimentando conflitti infiniti tra gruppi etnici e confessionali.

Gli sviluppi recenti in Siria sembrano seguire esattamente questa strategia. L’idea di frammentare la Siria in più entità autonome non è solo un’ipotesi teorica, ma una realtà che si sta concretizzando con la creazione di aree controllate da attori diversi. Il conflitto ha generato una situazione in cui il paese è diviso tra le forze governative di Damasco, le milizie curde sostenute dagli Stati Uniti, gruppi “gihadisti” salafiti e, nel sud, una crescente influenza israeliana.

Il ruolo di Israele nella destabilizzazione della Siria è evidente. Attraverso bombardamenti mirati, alleanze tattiche con gruppi armati e la creazione di una zona cuscinetto nel sud del paese, Tel Aviv sta contribuendo attivamente alla frammentazione della Siria. Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha esplicitamente dichiarato che la stabilità della Siria può essere garantita solo attraverso una federalizzazione del paese, riprendendo di fatto il concetto base del Piano Yinon.

Guardando alla situazione attuale, si può affermare che il Piano Yinon ha avuto un successo parziale, ma significativo. L’Iraq è stato frammentato, il Libano è costantemente destabilizzato e la Siria, dopo tredici anni di conflitto devastante, è ridotta a un paese in macerie, politicamente frantumato e socialmente esausto, privo di un’autorità centrale stabile e sempre più esposto alle ingerenze esterne. Anche l’Egitto e la Libia sono stati scossi da profonde crisi interne, mentre l’Arabia Saudita, pur restando intatta territorialmente, è coinvolta in guerre per procura come quella in Yemen.

Due elementi restano incompleti nel progetto originario: l’Iran e la Siria. L’Iran, troppo grande e con un forte apparato statale, non è stato ancora destabilizzato, nonostante le pressioni israeliane su Washington per colpire militarmente Teheran. La Siria, invece, ha visto fallire il tentativo di un sovvertimento politico totale per oltre un decennio, in parte per l’intervento russo e in parte per la mancata adesione in massa delle minoranze alawite e cristiane ai movimenti dell’estremismo settario sostenuti dall’estero. Fino all’8 dicembre 2024, la presenza di Bashar al-Assad al potere aveva rappresentato un ostacolo all’applicazione del Piano Yinon, poiché il regime, sebbene indebolito, manteneva ancora il controllo di gran parte del territorio e garantiva una relativa coesione nazionale, soprattutto nelle aree sotto la sua influenza.

Con la caduta di Assad e l’esplosione della violenza settaria, lo scenario è cambiato radicalmente. L’assenza di un’autorità centrale forte ha generato un vuoto di potere che ha favorito la frammentazione della Siria lungo linee etniche e confessionali, proprio come teorizzato nel Piano Yinon. Le rivalità tra gruppi sunniti, alawiti, curdi e drusi hanno trasformato il paese in un mosaico di entità politiche e militari in conflitto tra loro.

Le milizie dell’estremismo salafita hanno guadagnato terreno in molte zone, mentre le milizie curde, sostenute dagli Stati Uniti, hanno rafforzato la loro autonomia nel nord del paese. Nel sud, la crescente influenza israeliana e la creazione di una zona cuscinetto lungo il Golan indicano un tentativo diretto di influenzare l’assetto geopolitico siriano. L’instabilità post-Assad ha quindi aperto la strada all’applicazione pratica della strategia delineata da Oded Yinon, con una Siria sempre più divisa e vulnerabile all’ingerenza di attori esterni.

Questa dinamica non si limita alla sola Siria, ma si inserisce in un quadro più ampio di destabilizzazione regionale che, da decenni, favorisce gli interessi strategici di Israele. Dalla frammentazione dell’Iraq alla costante instabilità del Libano, passando per le tensioni in Iran e Yemen, il disegno geopolitico della balcanizzazione continua a modellare gli equilibri del Vicino Oriente secondo gli schemi delineati nel Piano Yinon. L’attuale frammentazione della Siria, le tensioni etniche e confessionali nei paesi arabi e l’indebolimento delle grandi potenze regionali indicano che il modello di balcanizzazione del Vicino Oriente è ancora in corso e continua a essere utilizzato come strumento per garantire la supremazia israeliana nella regione.

 

La Siria frammentata: un ingranaggio del dominio regionale

L’attuale crisi siriana e il caos crescente nelle province costiere non sono semplicemente il frutto di dinamiche interne, ma rispondono a un disegno più ampio, in cui attori esterni, primo fra tutti Israele, hanno un interesse diretto nella disintegrazione del paese. Dalla presunta protezione dei drusi alle dichiarazioni sulla federalizzazione della Siria, ogni mossa di Tel Aviv segue una logica ben precisa: ridisegnare il Vicino Oriente secondo i propri interessi strategici, eliminando ogni possibile minaccia e trasformando gli Stati arabi in entità deboli e frammentate. Questa visione ricalca in pieno il Piano Yinon, che da oltre quarant’anni guida l’azione geopolitica israeliana nella regione.

Con la caduta di Bashar al-Assad e la conseguente esplosione della violenza settaria, la Siria rischia di trasformarsi in un mosaico di zone di influenza, dove potenze regionali e internazionali si contendono il controllo di territori e risorse, alimentando instabilità permanente. Il paese è ormai un campo di battaglia per interessi esterni, in cui Stati Uniti, Israele, Iran, Turchia e Russia cercano di ritagliarsi spazi di potere, spesso attraverso il sostegno a fazioni armate locali. Questa frammentazione non solo impedisce la ricostruzione della Siria come Stato unitario, ma la rende sempre più vulnerabile a manipolazioni e ingerenze esterne, esattamente come previsto dalla strategia israeliana.

La Siria si avvia così ad essere “Stato fallito”, un vuoto geopolitico nel cuore del Levante, caratterizzato da assenza di una dirigenza centrale, proliferazione di milizie armate, ingerenze straniere e impossibilità di governare l’intero territorio nazionale. Il collasso dell’ordine statale genera una spirale di violenza senza fine, che non solo alimenta conflitti interni, ma si riflette sull’intero scacchiere regionale. La destabilizzazione siriana ha già avuto ripercussioni dirette sul Libano, che è entrato in una crisi economica e politica senza precedenti, e sull’Iraq, dove le tensioni settarie e le ingerenze esterne continuano a ostacolare la stabilizzazione del paese. Anche la Giordania e la Turchia, investite da massicci flussi di rifugiati e da una crescente instabilità ai propri confini, stanno affrontando pressioni crescenti che rischiano di compromettere il loro equilibrio interno.

Questa crisi prolungata non è un fenomeno isolato, ma parte di un più ampio processo di ristrutturazione del Vicino Oriente secondo schemi che favoriscono le grandi potenze globali e regionali, a discapito degli Stati arabi. L’indebolimento degli Stati-nazione della regione, il rafforzamento di entità autonome e settarie, l’espansione di zone d’influenza dirette da Israele, Stati Uniti e Turchia, rientrano in una strategia di controllo geopolitico che riduce al minimo la possibilità di opposizione coordinata alla supremazia israeliana e occidentale.

Se questo scenario continuerà a svilupparsi, il Vicino Oriente rischia di entrare in una nuova fase di conflitti endemici, con guerre per procura sempre più intense, il consolidamento di blocchi contrapposti e il prolungamento di una condizione di instabilità che impedirà per decenni qualsiasi reale pacificazione e ricostruzione. La Siria divisa e indebolita è la condizione ideale affinché Israele possa consolidare la sua posizione egemonica, garantendosi la sicurezza strategica e la possibilità di espandere la propria influenza senza incontrare opposizioni significative.

L’ultima frontiera di questo processo potrebbe essere l’Iran, ultimo grande avversario regionale di Israele e degli Stati Uniti. L’aumento delle pressioni militari ed economiche su Teheran e il tentativo di isolare internazionalmente l’Iran rientrano nella stessa logica applicata alla Siria e all’Iraq: creare instabilità, fomentare divisioni interne e rendere impossibile la nascita di un’alternativa politica e militare credibile alla dominazione occidentale e israeliana nel Vicino Oriente.

In questo contesto, la Siria non è solo una vittima del proprio conflitto interno, ma un tassello di una strategia più ampia, che punta a ridefinire l’intero equilibrio geopolitico della regione. E mentre il paese sprofonda sempre di più in una guerra che sembra non avere fine, il resto del Vicino Oriente si trova sull’orlo di una nuova era di conflitti e riassetti forzati, dove la sopravvivenza degli Stati e dei popoli sarà sempre più determinata dagli interessi delle potenze esterne.


NOTE

[1] M. Giorgio, La paura in Siria favorisce Israele, 9 marzo 2025, “Il Manifesto”.

[2] M. Giorgio, Strage di alawiti: la guerra civile è più vicina, 8 marzo 2025, “Il Manifesto”.

[3] M. Giorgio, Israele bombarda la Siria, la occupa e lavora per dividerla, 27 febbraio 2025, “Il Manifesto”.

[4] M. Giorgio, Dal Golan occupato Israele ora guarda alle porte di Damasco, 6 marzo 2025, “Il Manifesto”.

[5] M. Giorgio, La paura in Siria favorisce Israele, 9 marzo 2025, “Il Manifesto”.

[6] Ibid.

[7] Ibid.

[8] R. Peters, Blood Borders: How a Better Middle East Would Look, 2006, “Armed Forces Journal”.


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