I rapporti tra turchi e popolazioni arabo-berbere della Cirenaica e della Tripolitania risalgono alla prima metà del XVI secolo quando queste due regioni costiere del Maghreb furono annesse all’Impero Ottomano. Con alterne vicende esse rimasero sotto il dominio osmanide fino al 1911 allorché l’Italia giolittiana dichiarò guerra alla Sublime Porta accaparrandosi la Cirenaica e la Tripolitania. Nel 1934 venne proclamato dal governo italiano il Governatorato Generale della Libia con l’unione della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan.
Rimasta sotto il controllo italiano fino all’occupazione delle truppe Alleate nel 1943, la Libia divenne indipendente nel 1951 col nome di Regno Unito di Libia sul cui trono sedeva re Idris Senussi nipote di Muhammad ibn Alì al-Sanusi fondatore della confraternita islamica della Senusiyya che aveva la propria roccaforte nella Cirenaica.
Nel 1969 un gruppo di ufficiali guidati da Muammar Gheddafi depose re Idris. Il paese fu ribattezzato Repubblica Araba di Libia con a capo lo stesso Gheddafi. Da allora e per quasi un quarantennio i rapporti tra Ankara e Tripoli sono stati caratterizzati da continui alti e bassi che riflettevano gli umori alquanto instabili del colonnello libico.
Negli ultimi quattro anni i legami tra i due paesi hanno registrato un netto miglioramento come conseguenza del nuovo corso in politica estera del governo Erdoğan, che ambisce ad assegnare alla Turchia un ruolo di primo piano nel mondo arabo-islamico.
La dura presa di posizione turca contro la politica repressiva di Israele nei Territori Occupati ed in particolare nella Striscia di Gaza hanno attirato le simpatie delle masse e dei governi arabi, in particolare quello di Gheddafi. Non è un caso che le relazioni turco-libiche sono esplose nel 2009 in seguito all’operazione “Piombo Fuso” scatenata da Israele nella Striscia di Gaza e duramente condannata da Erdoğan. Ciò ha permesso alle aziende turche di aggiudicarsi contratti per un valore complessivo di quindici miliardi di dollari in particolare nel settore delle costruzioni. La Libia è così diventata il paese nord africano dove si concentrano i maggiori interessi economici di Ankara.
I due governi hanno eliminato i visti e firmato numerosi accordi. Massicci sono stati gli investimenti turchi anche nei settori dell’agricoltura e dei trasporti. Nel 2010 l’interscambio commerciale ha raggiunto i due miliardi e duecento milioni di dollari ed entrambi i paesi hanno dichiarato di voler raggiungere i dieci miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. A conferma di un 2010 straordinario per le relazioni turco-libiche, il primo ministro Erdoğan è stato insignito del premio Gheddafi (assegnato ogni anno alle persone che si sono distinte nel campo della tutela dei diritti umani) per le sue posizioni anti israeliane ed in favore delle popolazioni della Striscia di Gaza.
Le rivolte scoppiate nel Maghreb hanno colto di sorpresa non solo i governi arabi ma anche l’Occidente e la Turchia.
Mentre di fronte alle proteste popolari di Piazza Tahir la posizione del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan era stata chiara fin dall’inizio, invitando il presidente Hosni Mubarak a prestare ascolto alle richieste che venivano dal suo popolo, la sua posizione sugli eventi in Libia è stata di estrema prudenza tanto da attirarsi le critiche della stampa e dall’opposizione che gli hanno chiesto di adottare un atteggiamento altrettanto netto come quello che aveva assunto nei confronti di Mubarak. Il premier ha voluto ricordare che la prudenza del suo governo era motivata dalla necessità di tutelare gli oltre venticinquemila lavoratori turchi presenti in Libia e gli interessi economici delle numerose aziende turche sparse per il paese.
Il governo Erdoğan ha optato fin dal primo momento per un “decorso naturale” della rivoluzione in Libia, opponendosi a qualsiasi ingerenza esterna che potesse alterare gli eventi. La speranza che Gheddafi potesse riprendere in mano la situazione si spiega con gli enormi interessi economici di Ankara in Libia. Un eventuale cambio di regime costringerebbe la diplomazia turca a dover avviare con il nuovo governo trattative finalizzate al rispetto dei contratti stipulati. Ma questa posizione non interventista da parte di Ankara è anche conseguenza di una diversa sensibilità e percezione degli eventi in corso in Libia.
Per quasi quattrocento anni la Cirenaica e la Tripolitania sono state province dell’Impero Ottomano. La conoscenza della realtà libica fa si che Ankara dia una diversa interpretazione della rivolta libica rispetto ai suoi alleati occidentali.
Il governo Erdoğan teme che una guerra civile prolungata nel tempo possa compromettere non solo i propri interessi economici in Libia ma anche la nuova politica estera teorizzata dal ministro Davutoğlu che mira a ritagliare per la Turchia un ruolo di primo piano in quei paesi che un tempo furono dominio della Sublime Porta e tra cui figura la stessa Libia.
Ankara teme che la Libia, per la sua struttura tribale e la scarsa tenuta delle istituzioni, possa trasformarsi in una nuova Somalia posta sulle rive del Mediterraneo con tutto ciò che potrebbe conseguirne per la stabilità e la sicurezza del Maghreb, del mondo arabo e della stessa Europa.
Dagli inizi degli anni novanta, con la guerra civile in Algeria, le regioni più meridionali del Maghreb e l’ampia fascia desertica del Sahel (che dalla Mauritania si estende fino in Sudan) sono diventate una sorta di “terra di nessuno.” In questa vastissima e poverissima regione si sono stabiliti gruppi di terroristi (su tutti spicca Al Qaeda per il Maghreb), movimenti di opposizione che lottano contro i governi dell’area, contrabbandieri, trafficanti di droga e di esseri umani. Nel caso in cui lo Stato libico dovesse collassare, questo “vuoto geopolitico,” dall’Atlantico al Mar Rosso, troverebbe una via d’accesso verso il Mediterraneo e l’Europa. Queste considerazioni contribuiscono a spiegare l’opposizione della Turchia ad un intervento esterno che non farebbe altro che prolungare il conflitto, aumentando le probabilità di una disintegrazione dello Stato libico.
Visti i precedenti negativi in Iraq ed Afghanistan, Ankara non ritiene che l’intervento occidentale, una volta eliminato Gheddafi, possa pacificare e stabilizzare il paese gettando le premesse per la creazione di forti strutture statali.
Di fronte all’inaspettata tenacia del colonnello, Francia e Gran Bretagna, supportate dalla Lega Araba e da una poco convinta amministrazione Obama, hanno affrettato i tempi per l’approvazione di una risoluzione Onu che consentisse di andare in soccorso ai ribelli. Giovedì 17 marzo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha votato con dieci voti a favore e cinque astenuti (Brasile, Russia, India, Cina, il BRIC, più la Germania) la Risoluzione Onu 1973 che autorizzava l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia e la protezione dei civili con tutti i mezzi ad eccezione di una forza di occupazione terrestre. Sabato 19 marzo senza nemmeno attendere la chiusura del vertice di Parigi, la Francia dava inizio ai bombardamenti seguita da Gran Bretagna e Stati Uniti. Le operazioni prive di un comando unificato sono state portate avanti in maniera autonoma dai diversi paesi.
Molto è stato scritto sul perché la Francia sia così decisa a sostenere i ribelli. Alcuni analisti e commentatori hanno evidenziato le mire francesi sui ricchissimi giacimenti petroliferi libici, altri l’ambizione transalpina a recitare il ruolo di protagonista nel Maghreb che emergerà dalle rivolte. Ma è molto più probabile che l’interventismo di Parigi si spieghi con la volontà di farla finita una volta per tutte col colonnello da sempre nemico della “Françafrique.” Libia e Francia si sono combattute in Ciad tra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta.
Ankara in seguito all’approvazione della Risoluzione Onu 1973 ed al sostegno dato dalla stessa Lega Araba all’imposizione della no-fly zone ha mutato la sua posizione. Evidentemente ha inteso che un atteggiamento intransigente alla lunga si sarebbe rivelato controproducente per i propri interessi.
Ankara, con Roma e Washington, ha spinto affinché fosse la NATO ad assumere il comando ed il controllo delle operazioni militari in modo da porre un freno all’irruenza della Francia e della Gran Bretagna. Sei unità della marina militare (cinque navi ed un sottomarino) sono state inviate per garantire il rispetto dell’embargo navale.
I risultati del nuovo corso turco si sono subito avuti al vertice di Londra del 29 marzo dove si è formato un gruppo di contatto per le politiche da adottare nella crisi libica e si è delineato un indirizzo per il periodo post Gheddafi. Ankara è così riuscita a limitare il protagonismo di Parigi. Dalla mattina del 31 marzo, oltre a garantire la no-fly zone e l’embargo navale, la NATO ha assunto anche il comando delle operazioni militari.
Sia il premier Erdoğan che il ministro degli esteri Davutoğlu hanno sottolineato che “i soldati turchi non avrebbero mai sparato o lanciato bombe sulla popolazione libica.”
I militari di Ankara, per meglio coordinare gli aiuti umanitari, hanno assunto il controllo del porto e dell’aeroporto di Bengasi ed iniziato a trasferire i feriti più gravi in Turchia. Sono stati mantenuti l’ambasciatore a Tripoli ed il console a Bengasi in modo da intrattenere relazioni sia con Gheddafi che con il Consiglio Nazionale di Transizione proponendosi come mediatore tra le parti.
L’obiettivo è giungere ad una soluzione diplomatica del conflitto nel più breve tempo possibile poiché, con gli USA sempre più defilati, ad Ankara si continua a rimanere scettici sulle reali capacità francesi e britanniche di gestire una guerra prolungata nel tempo.
Accolta con favore a Tripoli, la mediazione turca, ha suscitato malumori a Bengasi. Alcuni membri del Consiglio Nazionale di Transizione hanno dichiarato che dietro la riluttanza della NATO ad intervenire più risolutamente in loro soccorso ci sia proprio Ankara.
Intanto a quasi un mese dall’inizio dei bombardamenti lo scenario che sta prendendo piede è proprio quello più temuto dal governo Erdoğan. I ribelli cirenaici, male armati e peggio addestrati, necessitano di mesi per eguagliare il livello di preparazione dei governativi peraltro non particolarmente eccelso.
Un conflitto prolungato nel tempo non potrà che acuire le fratture tribali e regionali emerse con la rivolta. Inoltre nel caso in cui i ribelli avessero la meglio, la stabilizzazione del paese potrebbe rivelarsi particolarmente ostica poiché essa passa mediante gli accordi tra il governo e le oltre centoquaranta tribù che compongono il mosaico libico. Quelle rimaste fedeli a Gheddafi sono state armate e non è da escludere che il colonnello abbia pensato di ricreare nel paese, nel caso di una sua uscita di scena, uno scenario simile all’Iraq post Saddam Hussein.
Per Ankara porre fine alla crisi libica nel più breve tempo possibile è fondamentale anche alla luce di quanto sta accadendo lungo i suoi confini meridionali. Presto la diplomazia turca potrebbe essere costretta a dover intervenire in Siria, dove la situazione si sta aggravando ed il regime di Bashar al-Assad inizia a mostrare i primi segni di cedimento.
La Siria riveste un’importanza strategica per gli assetti del Vicino Oriente. Il crollo degli Assad avrebbe risvolti negativi per la stabilità del Libano, nelle relazioni con Israele e per l’Iran che ha nella Siria il suo principale alleato. Gli Assad appartengono alla minoranza sciita degli Alawiti da decenni detentori del potere politico. La fine del regime porterebbe i Sunniti, sostenuti dall’Arabia Saudita, al potere, segnando l’ennesima tappa dello scontro che oppone i Sunniti capeggiati da Riyad e gli Sciiti guidati da Teheran.
La Siria rappresenta per la Turchia la porta d’accesso verso i mercati Mashrek e del Golfo. Da pochi mesi Ankara, Damasco, Beirut e Amman, hanno firmato un’unione doganale che prevede l’esenzione da dazi e l’abolizione dell’obbligo dei visti per le persone. Nel caso in cui la situazione in Siria dovesse precipitare l’unione doganale potrebbe essere compromessa.
Tornando alla Libia, premesso che rimane altamente improbabile che nel breve periodo si possa giungere alla cessazione delle ostilità e che nessun paese o organizzazione internazionale da solo sia in grado di risolvere la crisi, la Turchia potrebbe avviare un’iniziativa di pace con l’Unione Africana, la Lega Araba e l’ONU. L’obiettivo in questa prima fase dovrebbe concentrarsi sulla fine delle ostilità. Come paese emergente Ankara potrebbe spingere il BRIC ad un maggior coinvolgimento.
All’interno della NATO, insieme all’Italia, (entrambi i paesi hanno la stessa percezione degli eventi in corso in Libia) la sua azione dovrebbe indirizzarsi a convincere gli USA della necessità di un cessate il fuoco quale precondizione per avviare trattative tra le parti. Fintanto che Parigi e Londra, supportati da Washington, continueranno a chiedere l’uscita di scena di Gheddafi, difficilmente il Consiglio Nazionale di Transizione potrà essere ricondotto a più miti consigli.
Ankara, dovrebbe far comprendere ai suoi alleati euro-atlantici che un conflitto prolungato nel tempo oltre a compromettere l’integrità territoriale della Libia rischia di destabilizzare l’intero bacino del Mediterraneo.
L’iniziativa diplomatica turca nella crisi libica va proiettata lontana nel tempo. Se allo stato attuale è difficile prevedere come si evolveranno gli eventi nel breve-medio periodo, resta il fatto che il modello turco nel futuro potrà essere per la Libia un valido punto di riferimento per la sua capacità di coniugare Islam e democrazia, modernità e tradizione.
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