Il quadro politico uscito dalle elezioni appena svoltesi presenta una Turchia più frammentata e instabile. L’AKP – perdendo circa il 9 % dei voti rispetto alla precedente tornata elettorale del 2011 – segna il passo anche se – è bene ricordarlo – un riflusso dopo tre consecutive travolgenti vittorie (2002: 34, 4 %; 2007: 46,6 %; 2011: 49,8 %) è un fenomeno abbastanza fisiologico e in un certo senso prevedibile.
Non ne approfitta il kemalista CHP, mentre sono in crescita il nazionalista MHP e soprattutto l’HDP, partito originariamente identitario curdo ma di fatto aperto all’intera realtà dell’opposizione turca e che in questo ruolo si è posto come alternativa al CHP. L’HDP supera molto bene la soglia del 10 % riuscendo pertanto a entrare in Parlamento.
Le previsioni circa la formazione della nuova compagine governativa spaziano dalla costituzione di un governo di
minoranza AKP a una possibile alleanza AKP-MHP fino a una ripetizione delle elezioni, nel caso entro 45 giorni non si riuscisse a dar vita al nuovo esecutivo.
Al di là delle consuete questioni dibattute a oltranza sulla stampa occidentale (l’”autoritarismo” e la perenne contrapposizione fra islamici e laici, questi ultimi ritenuti meritevoli di ogni elogio) quanto ha contato nel voto elettorale il ruolo internazionale svolto dalla Turchia negli ultimi quattro anni ? Abbastanza in riferimento alla disastrosa gestione della crisi siriana, in quanto l’attiva collaborazione prestata dal governo di Ankara alla deflagrazione dello Stato siriano ha avuto e ha pesantissime ripercussioni sulle popolazioni del sudest, ossia proprio quelle da cui l’HDP ha raccolto un voto di protesta plebiscitario; una sensazione di malessere diffuso per la tragica situazione in corso nel sudest – la cui evoluzione è sempre più preoccupante e incerta – è del resto ben avvertibile in tutto il Paese.
Meno hanno senz’altro pesato altri aspetti del nuovo – rispetto al 2011 – corso geopolitico di Ankara (come i peggiorati e quantomeno problematici rapporti con la Russia, l’Iran e lo stesso Iraq), le cui conseguenze pratiche sono ancora lontane dal verificarsi e dall’essere avvertite.
L’instabilità turca – che rientra del resto in quella prospettiva di generale indebolimento e di “balcanizzazione” del Vicino Oriente favorita, consapevolmente o no, dal mondo occidentale- comprende anche atteggiamenti in controtendenza rispetto alla deficitaria e sconsiderata politica sulla Siria perseguita dal governo Davutoglu: così in aprile l’incontro fra Erdogan e Rohani a Teheran ha rappresentato un punto di attenzione e reciproca considerazione fra Turchia e Iran e forse un’intesa di collaborazione per risolvere la grave emergenza nello Yemen e i bombardamenti sauditi contro i “ribelli” sciiti.
In questo contesto particolarmente interessante si presenta la possibilità di un’intesa turco-iraniana nella fornitura di gas al Vecchio Continente:
http://it.sputniknews.com/economia/20150603/489277.html
Intanto il ministro della Difesa Yılmaz ha preannunciato la possibile adozione di uno scudo antimissilistico indipendente e non integrato alla NATO, alla cui predisposizione partecipa attivamente la Cina; la compagnia cinese suscettibile di essere prescelta è inserita nella “lista nera” statunitense e soggetta a sanzioni da parte di Washington. Tutto ciò acquisterà un senso preciso solo se la Turchia saprà rivestire un ruolo più forte e autonomo nei confronti delle continue pressioni subite da NATO e superpotenza atlantica.
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