Introduzione

Da molte parti lo smembramento su faglie etniche o religiose di stati dilaniati da conflitti civili è visto come unica via per la pace: urge dimostrare che il divide et impera non ha fondamenti strategicamente validi, non risolve automaticamente i conflitti e risponde troppo spesso ai soli interessi delle grandi potenze. I tre punti sono affrontati paragonando casi di entità statuali sottoposte a smembramento o federalizzazione negli ultimi tre decenni nell’ambito dell’area eurasiatica (area ex-comunista e Vicino Oriente) confrontati con Stati che non hanno subito divisioni o riorganizzazioni territoriali anche a seguito di conflitti civili. Le politiche coloniali e postcoloniali attuate dalla Gran Bretagna nel corso del XX° secolo e nel primo quindicennio del XXI° costituiscono un esempio aureo di appoggio interessato al separatismo, separatismo prodromico all’attuale caos nel Vicino Oriente.

 

I presupposti: smontare la narrativa dei “conflitti etnici”.

I conflitti sono economici, sociali e geopolitici e vengono infiammati dalla dimensione etnica e religiosa – la quale poi si radica nelle popolazioni – in via più o meno artificiale. È successo nei Balcani, accade nel Vicino Oriente. Focalizziamoci su alcuni esempi nell’area ex-sovietica e nell’area medio-orientale: Libano e Siria, Ucraina e Moldova, Jugoslavia. Il lungo conflitto civile che ha esasperato il Paese dei Cedri non ha avuto una natura puramente endogena: la situazione etnica del paese è stata alterata dal massiccio afflusso di profughi palestinesi, quella politica dalle pesanti intromissioni di Israele e Siria negli affari libanesi, intromissione giunta in entrambi i casi all’intervento militare. Non solo non fu puramente endogena ma nemmeno puramente etnica: i gruppi etnico/religiosi libanesi si identificavano con gruppi sociali, economici e politici. I cristiani maroniti non erano solo cristiani: erano e sono ricche classi colte ed urbanizzate, legate al passato coloniale francese e ad ideologie conservatrici quando non reazionarie affini al nazionalismo di marca europea (si pensi al movimento falangista). Gli sciiti non erano solo sciiti: erano poveri contadini inurbatisi nelle periferie e sensibili al richiamo di ideali egualitaristi. Se letta sotto la lente politica, sociale ed economica la questione etnica diventa dunque più sfumata. In Siria, la letteratura ha sottolineato come il fattore tribale influisca sulla partecipazione dei gruppi sociali al conflitto nei vari schieramenti quanto quello etnico o religioso. Il tribalismo è forte tra la popolazione sunnita, l’appartenenza a determinate tribù ha spesso determinato la vicinanza o l’avversione al governo, governo siriano a propria volta appoggiato non solo dagli Alawiti, arricchitisi grazie alla vicinanza all’ambito di potere degli Assad, ma anche dai Cristiani, da parte dei Drusi (assai più defilati) e, appunto, da parte dei Sunniti. Ipotizzare che un governo sostenuto dai soli alawiti ed avversato da tutti gli arabi sunniti del paese (più del 60% della popolazione pre-conflitto) avrebbe potuto dimostrare una tale resilienza e poi resistenza in cinque-sei anni di guerra civile è – eufemisticamente – molto faticoso. La rivolta antigovernativa ha interessato aree periferiche del paese, nelle campagne e nei centri urbani. Una parte dell’élite intellettuale cristiana ha scelto persino l’appoggio alle opposizioni, mentre i curdi (altri sunniti, a riprova di come lo schematismo religioso non spieghi il conflitto in corso) hanno scelto la terza via della semplice collaborazione tattica col governo e mai un aperto appoggio al medesimo. Vero: la guerriglia antigovernativa è sunnita (araba o turcomanna) nella sua totalità, ma lo schema originario da adottare per leggere la crisi siriana, considerando gli schieramenti e l’origine delle rivolte, è quello città/campagna e centro/periferia e non quello sciiti/sunniti. Vale anche per l’Egitto, paese puramente arabo e sunnita al 90%: l’appoggio ai fratelli musulmani trionfa nelle campagne come tra la piccola borghesia urbana. È sempre utile ricordare come le rivolte arabe siano esplose in Tunisia, paese etnicamente e religiosamente omogeneo. Le ingerenze straniere nel conflitto siriano o negli eventi siriani e libanesi dovrebbero essere oggetto di trattazioni separate, ma torna utile l’esempio dell’attacco di Daesh contro la Siria: a Deir-Ez-Zor, cittadina dell’est siriano da anni sotto assedio del sedicente califfato, resistono soldati siriani guidati da un ufficiale druso, con l’appoggio di milizie sciite e di locali milizie arabe sunnite. L’Ucraina e la Moldavia non hanno visto un semplice conflitto etnico tra Ucraini e Russi, tra romeno-moldavi e slavo-moldavi: si è trattato di storici conflitti tra le aree contadine (e quindi conservatrici e più arretrate) e quelle industrializzate dei due paesi. Quanto al conflitto jugoslavo, buona parte dei conflitti esistenti tra le repubbliche nei decenni ‘70 e ‘80 erano dovuti alle differenze di reddito ed ai percepiti squilibri nel trattamento economico ed amministrativo da parte del governo di Belgrado nei confronti di Croazia, Slovenia e Kosovo. Il risentimento si è saldato su vecchie tensioni etniche mai sopite e figlie dei secoli precedenti, ma è stata in buona parte la cinica strumentalizzazione del fattore etnico operata dalle classi dirigenti post-titoiste in cerca di una legittimazione post-comunista che ha reso appunto etnico lo sfogo delle tensioni economiche e politiche. Il continuo decentramento di competenze dal governo centrale alle singole entità federali affossò le capacità decisionali e di efficienza di Belgrado, creando una spirale negativa di delegittimazione delle medesime strutture federali. 

Il caso delle colonie britanniche è quindi paradigmatico di quanto accaduto nei paesi extraeuropei prima e dopo la fase coloniale.

Possiamo riconoscere in due distinti momenti storici un primo processo di “etnicizzazione” portato avanti dalla potenza imperiale (accentuazione artificiosa delle faglie etniche e politiche tra popolazioni omogenee o che pure avevano convissuto per secoli in un medesimo alveo geopolitico) e quindi nella seconda (specie dopo la fine del dominio coloniale) l’appoggio al separatismo. Nella fase coloniale il dominio imperiale britannico identificava una propria componente etnica di riferimento per la “messa a terra” del proprio controllo territoriale: specifiche etnie da cooptare nell’amministrazione, altre nelle forze armate coloniali, accentuando le divisioni tra diverse componenti antropiche (come nelle colonie africane e indiane o legandosi in Irlanda alla componente protestante). Nel corso della fase post-coloniale si procedeva invece a rendere strutturale il separatismo strumentale anche separando popolazioni affini. Intere statualità artificiali sono state create in punta di matita dopo la Prima Guerra Mondiale separando tra loro popolazioni arabo-sunnite e quindi volgendo la propria politica all’appoggio incondizionato ad una parte – già dai tempi della dichiarazione di Balfour.

Il caso del colonialismo britannico ci dona quindi l’opportunità di leggere in filigrana il separatismo sia come fonte di strutturale instabilità sia come prodotto di interessi esterni e contrapposti a quelli dei popoli che ne sono vittima, temi che svilupperemo nei prossimi due paragrafi.

 

Le conseguenze delle spartizioni: non pace e nemmeno stabilità

Lo smembramento della Jugoslavia ha prodotto almeno uno stato fallito (il Kosovo), uno “stato-mafia” (il Montenegro), un non-stato (la Bosnia) e uno stato altamente instabile (la Macedonia). Questi stati ribollono di continue tensioni interne e rivalità esterne, e costituiscono mercati troppo piccoli per condurre ad un armonico sviluppo della regione. Con tutte le difficoltà che pure ha dovuto affrontare, solo la Slovenia è un caso di successo di stato stabile emerso in modo relativamente indolore dalle macerie della federazione. Nel Vicino Oriente l’analisi del colonialismo britannico secondo lo schema “a due momenti” proposto nel paragrafo precedente è emblematica: dapprima la Gran Bretagna penetra nell’area valendosi dell’appoggio al dominatore turco contro le mire espansionistiche russe (nel XIX° secolo) e quindi erodendolo una volta che questi si rivolge al tedesco – dichiarazione di Balfour sulla necessità di uno stato ebraico in Palestina. Quindi si procede allo smembramento dello stato ottomano creando paesi artificiali come l’Iraq – che unisce popoli e fedi differenti non già nella forma califfale ottomana, congenita alla cultura locale, ma in quella aliena dello stato nazionale europeo pure quindi subito destituito del proprio fondamento – e separando invece gli arabi sunniti tra Iraq, Giordania, Kuwait e paesi del Golfo, tutti sotto tutela britannica. È legittimo ipotizzare che, ai giorni nostri, smembrare la Siria (“jugoslavizzarla” in stati diversi o “bosnizzarla” in una federazione – o pseudotale) creerà verosimilmente un jihadistan nella zona di Idlib, un Kurdistan a nord sempre sotto la minaccia turca e una “Siria di Assad” da Damasco alla costa sempre nel mirino di Israele. Mentre scriviamo (Giugno 2017) non è ancora dato sapere a chi andrà la punta Sud del paese e l’area attualmente occupata da Daesh. Ben oltre queste conseguenze immediate, saremo poi sicuri di non aver seminato i germi del prossimo conflitto? I “conflitti geopolitici a sfogo etnico” – è più corretto definirli così – andrebbero disinnescati garantendo in primis diritti democratici e di inclusione ai popoli oppressi (i Curdi, i Palestinesi…) ma anche elidendo le tensioni geopolitiche a monte e le ideologie settarie valle e non certo strumentalizzando lo sciovinismo o sancendo su trattati le faglie etniche. Il Libano è rimasto uno stato unitario che faticosamente sta provando ad includere tutti i propri gruppi etnico-religiosi nel gioco politico. Questo vale anche per il Ruanda dopo il genocidio dei Tutsi, mentre Sudan e Sud Sudan (altro stato fallito) rimangono sempre sull’orlo di un conflitto. La teoria dello “scontro di civiltà” continua ad essere ripetuta ora per superficialità ora per conformismo: le “civiltà” non sono monoblocchi immutabili e l’un contro l’altro armati, sono piuttosto entità in evoluzione che si compenetrano ed influenzano – soprattutto nell’isola-mondo Eurasia. Le identità etniche intese come aridi sciovinismi vengono prima create e quindi strumentalizzate dalle élites politiche ed economiche che necessitano di una ideologia di riferimento e di comodo.

 

Conclusioni: le strategie delle grandi potenze.

Leggere tutto quello che accade nel Vicino Oriente secondo lo schema del “conflitto tra sunniti e sciiti” è riduttivo e fuorviante. Più efficace la lettura delle rivalità tra Arabia Saudita, Iran e Turchia sul piano regionale e di quella tra Russia e Stati Uniti su quello globale. Ogni paese appoggia fazioni cui si sente contiguo sul piano etnico e religioso (e che crede quindi di poter meglio usare ma dalle quali è spesso usato) ma con una serie di sfumature: in Yemen le forze sunnite si combattono tra loro oltre che coi ribelli sciiti Houti, alleati dell’ex presidente Saleh che combattevano fino a poco tempo prima. In Siria lottano tra di loro ribelli sunniti islamisti di vari gruppi, la galassia sunnita è divisa tra l’obbedienza saudita, turca o a Daesh. Prima e durante il conflitto jugoslavo, l’Occidente non ha davvero cercato di mediare tra le parti: la Germania ed il Vaticano si sono affrettate a riconoscere Slovenia e Croazia come indipendenti (diritto negato ai serbi della Krajna croata) seguiti dagli Stati Uniti nell’appoggio a chiunque avversasse la parte serba. Il tutto per ottenere, invece di un potente stato centralizzato neutrale come la vecchia Jugoslavia, tanti piccoli stati ininfluenti e manipolabili. I governi filooccidentali in Ucraina non hanno mai mostrato interesse a compiere alcun passo per aprire un dialogo serio e fondato su pluralismo e riconoscimento dei diritti locali con le proprie regioni in rivolta: questo permette agli Stati Uniti ed alla Russia di polarizzare ancor più le parti in conflitto e di mantenere un piede nei due paesi. Stupisce come gli occidentali, solerti nel favorire la secessione del Kosovo e potenzialmente aperti ad una simile soluzione per Siria ed Iraq (come forse anche i russi?) non mostrino la minima apertura in tal senso su teatri differenti.

La Gran Bretagna agisce in coerenza con il proprio trascorso coloniale e neocoloniale: ha appoggiato tutte le secessioni balcaniche, diplomaticamente e militarmente, e ha fornito appoggio ai separatisti ceceni, pur combattendo il proprio separatismo in Irlanda del Nord e interpretandovi in modo assai disinvolto i principi di tutela dei “diritti umani”. Tutte le grandi e medie potenze soffrono di differenti forme di doppiopesismo – con la notevole eccezione cinese ferma nel sostenere due principi: quello di assoluta non ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano e quello di completa tutela dell’integrità delle frontiere.


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Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.