L’articolo di Amedeo Maddaluno, Un pivot mediterraneo per l’Italia, pubblicato di recente sul sito di “Eurasia”, ha certamente il merito di esaminare la questione della sovranità nazionale del nostro Paese in un’ottica “realistica”, ossia tenendo conto dei reali rapporti di forza tra i vari Paesi occidentali. D’altra parte, senza sovranità nazionale sono dei centri di potere stranieri a “decidere” le sorti di un Paese e le istituzioni politiche nazionali hanno solo lo scopo di adeguare la struttura sociale ed economica alle esigenze di tali centri di potere, che com’è ovvio difendono soprattutto i propri interessi anziché quelli del Paese di cui detengono il controllo. Di conseguenza, senza sovranità nazionale non ha nemmeno più senso parlare di democrazia rappresentativa, poiché, se non è possibile “decidere” in funzione dell’interesse della collettività che si dovrebbe rappresentare, non vi può essere neppure alcuna forma di “sovranità popolare” (tutt’al più gli elettori possono scegliere “chi” deve rappresentare gli interessi dei potentati stranieri).Va da sé che proprio questa è la situazione in cui si trova oggi l’Italia, in un’Europa egemonizzata, sotto il profilo economico, dalla Germania e, sotto il profilo geopolitico, dagli Stati Uniti. Ragion per cui non sorprende che da più parti si sostenga che il nostro Paese, per evitare di diventare una sorta di “Protettorato euro-atlantista”, dovrebbe uscire sia dalla NATO che dall’Eurozona o addirittura dalla stessa UE.
Tuttavia, come giustamente osserva Maddaluno, è indubbio che attualmente non vi siano le condizioni perché ciò possa davvero realizzarsi. La NATO in un certo senso è come la prima lega delio-attica, in cui si poteva entrare ma da cui non si poteva uscire senza venire massacrati da Atene. Per di più, i rapporti di forza in Europa sono tali che un’uscita dell’Italia dall’Eurozona significherebbe scatenare una guerra economica contro il nostro Paese che non potrebbe che concludersi con una disastrosa sconfitta dell’Italia. Al riguardo, si deve tener presente non solo che l’Italia è un Paese povero di materie prime, privo di indipendenza sul piano energetico (un “punto debole” già rivelatosi di importanza decisiva nelle due guerre mondiali) e senza la potenza militare necessaria per “imporre” agli altri Paesi la propria politica, ma soprattutto che perfino i cosiddetti “mercati” agiscono come attori geopolitici.
È questo l’aspetto essenziale del capitalismo, che viene invece pressoché del tutto ignorato in una concezione meramente economicistica del capitalismo che ancora è quella predominante. La presenza del “mercato” (in cui vale grosso modo la legge della domanda e dell’offerta) di per sé, infatti, non significa che si sia in presenza di capitalismo, altrimenti si dovrebbero definire capitalistiche anche le società antiche in cui la ricerca del profitto e lo stesso “mercato” non erano affatto sconosciuti (tanto che nella stessa società micenea, secondo studi recenti, era presente una forma di “mercato”, chiaramente di tipo non capitalistico). In altri termini, una formazione sociale capitalistica, che segna l’inizio della Modernità, si caratterizza per l’alleanza dei potentati economici e finanziari con i vertici del potere pubblico di uno Stato predominante (in specie l’Olanda, poi la Gran Bretagna e, a partire dal secolo scorso, gli Stati Uniti). E, com’è noto, si tratta di un’alleanza che, anche grazie alla rivoluzione industriale, si contraddistingue per la progressiva colonizzazione di ogni mondo vitale da parte del mercato capitalistico (cioè “dominato” economicamente e politicamente dal grande capitale).
In pratica, se in epoca precapitalistica chi controllava i mezzi di coercizione (il “Palazzo”) e/o i mezzi di persuasione (il “Tempio”) controllava anche i mezzi di produzione, in una società capitalistica questo rapporto è “rovesciato”. Adesso chi controlla questi ultimi viene a disporre pure del controllo (diretto o indiretto) dei principali mezzi di coercizione e di persuasione. Un controllo che è diventato sempre maggiore e determinante con il consolidarsi degli Stati Uniti come potenza capitalistica egemone. Ma quel che rileva è il fatto che comunque si tratta di un controllo che ha come scopo fondamentale non tanto la ricerca del massimo profitto quanto piuttosto la conquista del potere o (una volta conquistato il potere) il consolidamento e il rafforzamento della potenza capitalistica predominante. In ogni caso, i potentati economici e finanziari (che non raramente lottano pure tra di loro, anche se non necessariamente secondo la “ferrea legge del mercato”) devono cercare di agire “in sinergia” con gli apparati dello Stato (vertici militari, servizi, burocrazia, etc.). La supremazia dell’Economico quindi designa sì l’essenza del capitalismo, ma soprattutto denota l’“essenza politica” del capitalismo, poiché lo stesso concetto di “supremazia” è (e non può non essere) un concetto “eminentemente” politico. In sostanza, la supremazia dell’Economico è un Politico “mistificato” in quanto denota la funzione politico-strategica dello stesso Economico. Ne segue la drastica riduzione della importanza delle istituzioni politiche (in specie del Parlamento) rispetto non solo al grande capitale ma anche ai vertici dell’apparato burocratico e militare dello Stato capitalistico egemone (e quindi pure dei suoi “Stati vassalli” ovvero delle varie élites “sub-dominanti”).
Alla luce di queste (estremamente sintetiche) considerazioni sulla “natura politica” del capitalismo è evidente che se il nostro Paese volesse sbattere la porta in faccia ai suoi “alleati” occidentali verrebbe considerato non più come uno “Stato amico” (o se si preferisce come uno “Stato vassallo” benché di “basso livello”) ma immediatamente come un “Paese nemico” e di conseguenza verrebbe trattato come tale non solo dalle potenze occidentali bensì dagli stessi “mercati”. Peraltro, la competizione tra potenze occidentali da quando è scomparsa l’Unione Sovietica non è più subordinata alla necessità di far fronte comune contro il “pericolo rosso”, cosicché si potrebbe ritenere che il declino e perfino la destabilizzazione del nostro Paese non costituiscano più un problema per le altre potenze occidentali e in particolare per i Paesi dell’Europa del Nord. Ciononostante, sarebbe sbagliato trarre conclusioni eccessivamente pessimistiche sul “potenziale geopolitico” dell’Italia.
Invero, con la crisi dell’egemonia degli Stati Uniti (emersa chiaramente anche con la vittoria di Trump contro la Clinton alle ultime elezioni presidenziali americane, con tutte le polemiche e le fortissime “tensioni” ai vertici politici degli Stati Uniti che ne sono derivate e che tendono perfino ad aumentare) e la formazione di nuovi centri antiegemonici, a livello sia globale che regionale, ovverosia con l’inizio di una “fase storica” di tipo multipolare, si aprono pure nuovi “spazi politici” e si delineano nuove “corsie geoeconomiche”, che mutando la “carta geopolitica” mondiale non possono non incidere anche sugli equilibri politici del continente europeo. La stessa Brexit (che chi ha a cuore l’indipendenza dell’Europa dovrebbe considerare un vera “fortuna”) e la crescita di vari movimenti euroscettici e/o populisti potrebbero essere interpretati in questo senso, benché euroscetticismo e atlantismo non si escludano affatto a vicenda (basta pensare alla particolare situazione politica della Polonia per rendersene conto).
Ma soprattutto è indubbio che l’area mediterranea all’inizio del nuovo millennio sia tornata ad essere un’area geopolitica di primaria importanza, al punto che una destabilizzazione di quest’area non può non avere (perlomeno a medio-lungo termine) conseguenze disastrose per la stessa area del Baltico. È insomma del tutto “ingenuo” ritenere che l’Europa settentrionale possa assistere con indifferenza a quanto accade nel Mediterraneo e considerare l’Europa meridionale solo in funzione dei propri interessi economici. Una politica di questo genere, che in effetti pare essere quella che attualmente preferisce Berlino, rischia di imbattersi nei “propri limiti” (che sono essenzialmente di “natura geopolitica” prima che economici, come non dovrebbe sfuggire a chi conosce la storia del Novecento) con l’effetto di destabilizzare l’intero continente europeo.
In questo contesto, la posizione geografica del nostro Paese, collocato com’è al centro del Mediterraneo, sarebbe già di per sé un eccezionale “asset geostrategico”, che una classe politica capace potrebbe sfruttare secondo una prospettiva geopolitica ben diversa da quella che contraddistingue il polo atlantico. Certo, il nostro Paese ha perso moltissimo negli ultimi anni (nel settore dell’informatica, in quello chimico, ecc.) ma vi sono ancora aziende strategiche di altissimo livello che potrebbero offrire molteplici opportunità di espansione economica nonché la possibilità di una forte “crescita politica”, se si sapesse “fare leva” sulla collaborazione con i Paesi emergenti e, in generale, con il “mondo euroasiatico”.
D’altronde, nemmeno alla Germania conviene che aumenti la “tensione” con la Russia. Non meraviglia perciò che pure in Germania vi sia chi si rende perfettamente conto che sarebbe necessaria una nuova Ostpolitik, ossia un rapporto di collaborazione e reciproca fiducia tra la Germania e la Russia (che fin dai tempi di Bismarck è l’unica possibile soluzione della “questione tedesca”). Ma la “strada” che collega Berlino con Mosca non può passare per l’Europa orientale, dove la NATO ha saldamente messo le tende, non solo in funzione antirussa ma anche allo scopo di costituire una “barriera geopolitica” (e pure militare!) tra Berlino e Mosca. Tuttavia, si tratta di un ostacolo che si potrebbe “aggirare” passando attraverso il Mediterraneo. In quest’ottica, il ruolo dell’Italia sarebbe quello non di una grande potenza (che l’Italia non è mai stata) ma quello appunto di una potenza “in mezzo alle terre” ovverosia davvero “medi-terranea”, mentre la Francia dovrebbe svolgere il ruolo delicatissimo ed essenziale di “ago della bilancia” (in specie tra l’area baltica e l’aerea mediterranea), senza correre più il rischio di essere relegata in una posizione subalterna rispetto alla Germania. D’altro canto, agli stessi Paesi dell’area danubiana si offrirebbe così la possibilità di non essere “schiacciati” dalla potenza economica tedesca.
In pratica, neanche la questione della NATO e quella della moneta unica europea sarebbero ostacoli insormontabili se si cercasse di “aggirarli” anziché illudersi di poterli “scavalcare”. Difatti, qualora si facesse strada la convinzione che il destino dell’Europa si gioca ormai nel Mediterraneo, sarebbe inevitabile adoperarsi per dar vita ad una difesa europea nettamente distinta da quella della NATO e quindi imperniata sulla cooperazione tra i diversi Paesi dell’area mediterranea, anche al fine di contrastare seriamente il terrorismo islamista. Non è un mistero per nessuno che è proprio la politica di “pre-potenza” degli Stati Uniti e delle petromonarchie del Golfo che, da un lato, crea le condizioni perché il terrorismo islamista prosperi e si diffonda non solo in Asia e in Africa ma anche in Europa, e, dall’altro, favorisce una destabilizzazione dello stesso continente africano che in buona misura è responsabile di quel fenomeno di migrazione di massa che non può non aggravare la situazione di Paesi già fortemente “provati” dalla crisi economica e dallo sfaldamento del proprio tessuto culturale e sociale. D’altra parte, anche il fenomeno della migrazione di massa verso il continente europeo è causa di una serie di problemi che non possono essere risolti senza una politica europea condivisa dai principali Paesi mediterranei e che consenta all’Africa di liberarsi definitivamente dalle politiche “di stampo” neocolonialista, che sotto certi aspetti sono addirittura peggiori del “vecchio” colonialismo europeo.
Ovviamente, la creazione di un “motore geopolitico” mediterraneo implicherebbe l’abbandono di un’ottusa politica economica dipendente da “vincoli di bilancio” che non permettono né di investire nei settori strategici né di potenziare o ammodernare le infrastrutture di un Paese per far fronte alle difficili sfide geopolitiche del nostro tempo. Pertanto, una volta che si fosse compreso che la politica di “pre-potenza” dei circoli euro-atlantisti rischia di condurre l’intero continente europeo in un vicolo cieco e perfino di portare ad un catastrofico conflitto con la Russia, non sarebbe neppure impossibile giungere ad una soluzione concordata della questione di Eurolandia, che anziché ridurre le diseguaglianze tra i vari Paesi europei, si è dimostrata un moltiplicatore di ogni genere di squilibri, tanto pericolosi quanto “non controllabili” in un’ottica meramente economicistica.
Posto allora che la politica sia l’arte del possibile, lo scenario geopolitico sopra delineato non è una chimera geopolitica. Anche i “limiti strutturali” con cui un Paese come l’Italia deve confrontarsi non escludono la possibilità di “smarcarsi” dall’euro-atlantismo, purché la questione della tutela della propria sovranità nazionale non escluda ma anzi implichi il riconoscimento della necessità di agire secondo la logica politica dei grandi spazi geopolitici e geoeconomici. Vale a dire che nell’attuale “fase storica” anche un Paese che non è una grande potenza può non venire “fagocitato” dai “mercati” o, meglio, da un polo egemonico. Ciò che conta veramente è la possibilità di agire “nei limiti e nelle forme” necessari per difendere gli interessi della comunità che si rappresenta. E sotto questo aspetto la questione della NATO e quella dell’euro passerebbero in secondo piano (nel senso che si risolverebbero, per così dire, mediante un “approccio indiretto”), giacché queste “forme” e questi “limiti” dovrebbero permettere a due “motori geopolitici” (uno baltico e l’altro mediterraneo) di “alimentare” lo sviluppo e la crescita del continente europeo.
Nondimeno, si deve prendere atto che vi sono pure altri “ostacoli” che impediscono di affrontare i problemi geopolitici del Vecchio Continente con la lucidità e la determinazione che sarebbero necessarie in questa “fase storica”. Ben difficilmente, infatti, si può sostenere che i Paesi europei, compresi quelli dell’area baltica, attualmente si distinguano per “acume politico-strategico”, pur non trovandosi nella situazione in cui si trova l’Italia, la cui classe dirigente da qualche decennio sacrifica l’interesse della collettività pur di tutelare i propri privilegi nonché quelli di ceti sociali parassitari e “subalterni” (politicamente e culturalmente) alle logiche di potere del polo atlantico. Nondimeno, è incontestabile che anche gli altri Paesi europei siano “Stati vassalli” in cui l’euro-atlantismo ha messo da tempo radici profonde. E questo è logico se si considera il ruolo essenziale della formazione politica egemone per quanto concerne la difesa degli interessi delle élites “sub-dominanti” occidentali. In Europa però vi sono anche forze produttive che avrebbero tutto da perdere se prevalesse l’ottusa politica della “grassa bottegaia” secondo cui è meglio che “altri” si occupino di geopolitica purché si possa continuare a fare i propri affari. La necessità di un nuovo “corso politico” è quindi questione di vita o di morte anche per non poche forze produttive europee, in particolare per quelle che sono più interessate a liberarsi dai “vincoli geopolitici” imposti dal polo atlantico (che peraltro “sta perdendo posizioni” ovunque, tranne nel Vecchio Continente) ma che sono pure consapevoli che le “tentazioni” nazional-capitalistiche nonché le rivalità che ancora dividono i Paesi europei, se dovessero prendere il sopravvento, non potrebbero che portare nuovamente l’Europa allo sfacelo.
Si può, pertanto, ritenere che, mentre l’europeismo è prima di tutto una “necessità geopolitica”, l’euro-atlantismo sia solo un’ideologia funzionale agli interessi di élites “sub-dominanti”, che nel migliore dei casi si accontentano di avere una certa libertà d’azione in campo economico “sotto l’ala egemonica” degli Stati Uniti. Ma prima o poi perfino la Germania (che è una potenza economica ma un “nano geopolitico”) dovrà “fare i conti” con la questione della lotta per l’egemonia tra i principali attori geopolitici o, se si preferisce, con i reali rapporti di forza (economici, politici e militari) che di fatto “regolano” le relazioni internazionali. Lo scontro con la Russia, il terrorismo islamista, il diffondersi dell’euroscetticismo, la presidenza Trump, i nuovi venti di crisi in Medio Oriente e via dicendo non lasciano quindi spazio a concezioni tecnocratiche o economicistiche, più o meno deliranti, ma esigerebbero che si giungesse al più presto ad una rifondazione politica della “comunità europea”.
Naturalmente, un tale cambiamento l’Unione Europea né lo vuole né lo può fare. Nulla però vieta ai singoli Paesi europei di cercare di mutare l’architettura (geo)politica e perfino (geo)economica dell’Europa. Perciò non è esagerato affermare che l’Italia, in quanto rappresenta la “chiave geo-strategica” del Mediterraneo, potrebbe dare un contributo decisivo alla nascita di una Confederazione europea, rispettosa delle “differenti identità” che caratterizzano l’Europa e capace di promuovere il dialogo e la cooperazione tra le diverse genti che abitano le terre di tre continenti. Per questo però non basta la geopolitica, ci vogliono un ideale per “mobilitare” le masse e una élite che lo “incarni”. Il primo oggi non può essere che la liberazione del continente europeo dall’ideologia euro-atlantista e dal dominio dei “mercati”, mentre l’élite che lo potrebbe “incarnare” certamente è ancora di là da venire.
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