Sullo sfondo della questione nucleare iraniana c’è una contesa strategica.
Da un lato c’è l’elaborazione da parte di Teheran di un programma energetico e di sviluppo che si lega ad un ridisegnamento della propria prospettiva geopolitica, dall’altro c’è l’intenzione di Washington -oltre che di Tel Aviv- di tracciare una direttrice, di circoscrivere il futuro modus operandi di un importante attore regionale come l’Iran, verso cui muove le proprie attenzioni nelle vesti di prima potenza globale cui, in quanto tale, spetterebbe la facoltà di indirizzo, azione e controllo.
Naturalmente, l’intera contesa ha una gerarchia di obiettivi e priorità, così come una gerarchia di attori geopolitici che in vario grado sono protagonisti, sia per peso ed influenza storico-politica nelle relazioni internazionali, sia per il ruolo che ricoprono a livello regionale medio-orientale.
Il percorso storico
Le origini nucleari dell’Iran risalgono al periodo della reggenza monarchica di Reza Pahlavi, quando correvano buone relazioni con l’amministrazione americana e nella visione kissingeriana l’Iran era una pedina spendibile in chiave antisovietica.
Nel ’76 il presidente Ford autorizzava lo Scià all’acquisto e all’utilizzo di tecniche innovative ai fini dell’estrazione e della lavorazione del plutonio, mentre nel ’78 si formulava l’accordo Washington-Teheran sull’energia nucleare e per la cooperazione nella ricerca dei giacimenti di uranio, con General Electric e Westinghouse in gara per la vendita e la costruzione dei reattori. L’iniziativa delle compagnie americane (ma contratti furono stipulati anche con francesi e tedeschi) era affiancata da quella del Pentagono per la vendita di armi ed equipaggiamenti per esercito e polizia iraniane in cambio di forniture di petrolio.
L’avvento del khomeinismo mutò anche in questo campo il quadro delle relazioni.
Teheran provò a giocare una carta di riavvicinamento con partners occidentali per la costruzione di nuovi reattori alla fine del conflitto con l’Iraq, trovando però spazio solo sull’altro fronte, quello russo.
Nel corso degli ultimi anni è maturata tanto un’accelerazione iraniana sul programma nucleare, quanto una radicalizzazione americana nella considerazione strategica mediante l’elaborazione nel 2002 dell’asse del Male Iran-Iraq-Corea del Nord, anno in cui i russi cominciano la collaborazione per il sito nucleare di Bushehr sul suolo iraniano.
Seguirà, come si verifica tutt’oggi, un continuo incrocio di dichiarazioni d’intenti, minacce, controlli, trattative e rimandi tra Teheran, l’Aiea e in primis USA, Francia e Gran Bretagna.
La fase più tormentata si sviluppa a partire dal 2005, quando il presidente Bush, dopo la vittoria di Ahmadinejad, ricorda che di fronte ad una minaccia nucleare “nessuna opzione è esclusa, compresa quella della forza”, mentre Washington Post e The Nation sostengono che il piano d’attacco all’Iran elaborato dallo Strategic Command prevede l’uso di armi convenzionali e nucleari su oltre 400 obiettivi.
Di rimando, il presidente Ahmadinejad, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, proclama che l’Iran non rinuncerà a produrre energia nucleare per scopi civili usando uranio arricchito, prerogativa riconosciuta dal Tnp firmato nel 1974, che permette ai paesi membri di costruire sotto tutela internazionale impianti che comprendano tutte le fasi del ciclo del combustibile nucleare, compreso l’arricchimento. Teheran vuol mostrare anche una garanzia “interna”, ovvero il divieto sancito per il proprio governo di intraprendere attività nucleari nel settore militare.
Attualmente, gli impianti dispiegati sul territorio sono quello di Natanz per l’arricchimento dell’uranio, di Esfahan per la riconversione e la purificazione dell’uranio naturale, di Arak per la produzione di acqua pesante per un reattore di ricerca, di Anarak per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi, e quello di Bushehr di costruzione russa, ancora da ultimare.
Tali impianti – non tutti completati o a pieno regime – sono stati dichiarati all’Aiea, ma le rilevazioni di intelligence israelo-americane mirano ad avvalorare l’ipotesi di impianti clandestini atti a supportare un progetto di tipo militare. E siffatte rilevazioni costituiscono un’arma di pressione mediatica ancor prima che diplomatica.
Ad oggi la risultante dell’operato del 5+1 racchiuso nella formula carrot and stick consiste nel tris di risoluzioni 1737 e 1734 del 2006 e 2007 più la 1803 del 2008, in seno al Consiglio di Sicurezza Onu (nei dettagli qui http://www.exportstrategico.org/iran.htm).
Il nodo politico-giuridico
Un fattore cruciale al centro dell’odierno dibattito è il rapporto che intercorre tra lo sviluppo nucleare di tipo civile e la possibile conseguente opzione di tipo militare da parte di Teheran, parallelamente alla volontà degli altri Paesi interessati di acconsentire o meno ad un programma nucleare tout court.
Uno sviluppo pacifico, come in linea di diritto è sancito, dovrebbe essere accettato purchè adeguatamente circoscritto e monitorato onde impedirne sbocchi militari ai sensi del Trattato di non proliferazione. Tuttavia, in termini più concreti e realistici, – esulando dalle questioni strettamente di diritto e considerando l’uso che di esso si fa nell’azione politica internazionale ove contano le maggiori posizioni di forza – l’uso civile stesso del nucleare da parte di Teheran, prodromo ad una svolta energetica più autonomista, è già di per sé motivo di attenzione e di scelte da operare, sulla base della considerazione che esso costituirebbe un volano per un più importante sviluppo dell’Iran sul piano economico con conseguenti risvolti sul piano politico.
Di qui, il focus sulla prospettiva dell’uso militare, per quanto non immotivato o secondario, non è nel breve termine il principale motivo del contendere, ma semmai un elemento nel dibattito strategico di medio-lungo periodo non solo dell’Iran stesso, ma anche delle altre potenze.
Al centro non c’è l’intenzione di scoprire quanto manca alla bomba, ma di registrare a che punto sia il programma di elaborazione nucleare.
Allo stato attuale delle cose, Stati Uniti ed alcuni Paesi europei sono diplomaticamente attivi nell’impedire che questo prosegua, sulla scorta di considerazioni sia politiche che strategiche, mentre l’Iran è deciso a portarlo avanti poichè esso rispecchia un suo legittimo diritto.
Ecco dunque che – per quanto il tutto oscilli tra risoluzioni, norme e fattori di ordine squisitamente politico – il dato che si registra evidenzia che se da una parte si assiste alla messa in opera del processo necessario per l’utilizzo dell’uranio da parte degli Iraniani, dall’altra si sospetta si stiano conducendo delle “attività segrete” per scopi militari, alla luce anche dell’ultimo rapporto dell’Aiea.
Di qui, appare ai più evidente che l’attuale fase diplomatica stia scavalcando la distinzione tra uso civile e uso militare per focalizzarsi essenzialmente su un Si o su un No al programma nucleare. Il responso, nella sua essenza, maturerà a prescindere da valutazioni tecnico-scientifiche e verterà su orientamenti prettamente politici, rispetto a cui trattati o risoluzioni fungeranno da corollario.
Il tutto, al vaglio di un approccio scevro da ideologismi e forzature distorsive, evidenzia in fin dei conti che il fattore bomba è irrilevante a fronte di quello che in realtà è il vero fattore imprescindibile: il ruolo geopolitico di Teheran.
Il Tnp (Trattato di non proliferazione nucleare) -nei suoi capisaldi di disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare e nel riconoscimento dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) quale organo di monitoraggio delle attività e dei trasferimenti di tecnologie- è ciò a cui fa riferimento il 5+1 (Usa, GB, Francia, Russia, Cina + Germania) nel condurre le trattative e ciò attraverso cui l’Iran deve muoversi per legittimare il suo programma, in stretta collaborazione con l’Aiea.
Ma il Tnp si presta ad una serie di considerazioni sia tecniche che politiche tali da non renderlo, da solo, risolutivo della disputa sul nucleare iraniano, sia per una serie di buchi e inadempienze rispetto a determinate norme, sia per le scelte dei vari Paesi che rientrano nelle loro specifiche strategie politiche.
Di fatti, alcuni punti sono oggetto di argomentazioni critiche, specie da parte di Paesi non nucleari ma, si badi bene, in particolar modo da parte dei due rivali dichiarati, Iran e Israele:
- gli Statunitensi e i Cinesi non hanno ancora provveduto alla ratifica del Ctbt (Comprehensive Test Ban Treaty) per la messa al bando degli esperimenti atomici, a differenza di Gb, Francia e Russia;
- l’art. 6 Tnp prevede che le nazioni in possesso di armi nucleari si adoperino contro la corsa agli armamenti e per un processo di smantellamento totale degli armamenti. Ciò non sembra trovare effettiva applicazione, anche in considerazione degli accordi USA-Russia, i quali vertono su di una riduzione significativa ma non ne intaccano la dotazione in misure considerevoli;
- il valore simbolico e l’assenza di implicazioni giuridiche delle c.d. “garanzie negative relative alla sicurezza”, cioè l’impegno formale delle nazioni nucleari firmatarie di non ricorrere all’utilizzo di ordigni atomici tra di loro e nei confronti delle altre confirmatarie che non ne sono in possesso. Qui, vi è discrepanza tra le dichiarazioni formalizzate e i contenuti delle attuali dottrine militari;
- lo scarso impegno delle potenze atomiche per l’estensione generalizzata del regime di non proliferazione. Tre Stati nucleari quali India, Pakistan e Israele stesso sono tutt’ora fuori dal Tnp e i presupposti perché ci entrino sono ad oggi assenti.
Sulla base di tali rilievi – nello squilibrio esistente tra Paesi legibus soluti, extra legem e contra legem -, quanto legittima risulta la posizione impeditiva e sanzionatoria nei confronti del programma nucleare di Teheran?
Risulta, invece, quanto il Trattato sia incongruente e obsoleto alla luce delle mutate relazioni internazionali. Esso fu elaborato nell’ottica di una concezione verticale secondo la quale le potenze nucleari dovevano rimanere tali mentre quelle che non lo erano dovevano rinunciare a divenirlo, in cambio semmai di un’opzione di tipo civile-pacifico sotto rigido monitoraggio internazionale. Di non poco conto, poi, la liberà volontà tanto di aderirvi che di recedervi.
Relativamente al Vicino Oriente, la scelta nucleare della Repubblica Islamica rischia di rompere uno schema che sino ad oggi le grandi potenze hanno creduto di poter mantenere: i Paesi detentori di petrolio non necessitano di energia atomica, quelli che non ne hanno mancano però pure dei mezzi atti all’implementazione delle centrali e del ciclo produttivo. Sotto il profilo militare poi, il diniego ad armi atomiche si baratta con le forniture di armi convenzionali. Dunque, il nucleare per nessuno salvo che per Israele, per il quale vige uno status di eccezionalità in virtù delle note posizioni occidentali.
Se gli Iraniani dovessero raggiungere il traguardo, un effetto domino metterebbe in discussione gli equilibri regionali con ripercussioni anche nelle strutture economiche e nei rapporti di cooperazione tra gli Stati, tanto più che la materia del nucleare, data la sua valenza strategica, esula dalla logica del libero mercato e costituisce uno strumento politico-statuale, con il ruolo preminente dei gruppi del settore e i loro relativi schemi di penetrazione e influenza.
Il presidente americano Obama sembra sia intenzionato ad un riassetto del Tnp, il che presupporrebbe un riposizionamento che non potrebbe non considerare a questo punto, nella regione mediorientale, la relazione che intercorre tra l’Iran stesso e Israele. Va da sé che la nebulosa atomica di Tel Aviv rimane una discriminante, a meno di non volerle continuare a riconoscere i caratteri di “legittima eccezionalità”, nonostante ad esempio la risoluzione 487 del Consiglio di Sicurezza delle N.U.
Gli oppositori del nucleare iraniano agitano il sospetto che Teheran –che non ha sottoscritto un protocollo ad hoc aggiuntivo al Tnp- possa condurre il proprio programma ai sensi del Trattato, per poi uscirne una volta conseguiti mezzi e know-how e così perseguire autonomamente fini militari.
Gli iraniani potrebbero avallare la legittimità delle loro scelte in entrambe le direzioni esse si volessero compiere. Il progetto a scopo pacifico – diritto riconosciuto – troverebbe fondamento giuridico e attuazione tecnica nel solco del quadro normativo internazionale (Tnp e affini). Ma, a fronte di un persistente squilibrio internazionale -connesso ad autonome strategie nazionali- nella fabbricazione e detenzione di ordigni atomici, essi potrebbero trovare politicamente fondato (magari uscendo dal Tnp stesso) un progetto a scopi militari tale da porli fuori da un effettivo stato di subordinazione rispetto ai contendenti geopolitici, Israele innanzitutto.
In linea generale, un rilancio del Tnp o una sua più coerente riproposizione indurrebbero ad un gioco ”a carte scoperte”. Ma gli israeliani non hanno alcuna intenzione di rinunciare ad un elemento fondamentale della loro strategia difensivo-espansionistica quale appunto l’esclusiva sulla deterrenza nucleare, punta di diamante per un ruolo egemone nell’area.
Siamo praticamente alla teoria dei giochi ma a partire da una situazione di non parità.
La partita nucleare, può dirsi, consta di due fasi.
La prima è quella attuale, vale a dire quella della transizione verso l’energia o l’arma, a seconda dei punti di analisi. I partners occidentali vorrebbero vincere già qui.
La seconda è quella dell’effettivo raggiungimento o possesso del nucleare.
Volendo prestarsi all’ipotesi della detenzione dell’arma come scenario plausibile, se da un lato risulterebbe concreto ciò che ora non è, cioè il rischio di un conflitto atomico, dall’altro verrebbe a formarsi un equilibrio della deterrenza reciproca, il che esorcizzerebbe prese di posizioni estreme degli attori, anche perché in campo nucleare le dichiarazioni ideologiche sono depotenziate dinanzi alla teoria del first strike, cioè del primo colpo capace di essere devastante al punto da rendere impossibile una reazione/rappresaglia.
In questo scenario “del terrore”, la deterrenza manterrebbe eventuali conflitti ancora sul binario convenzionale o comunque asimmetrico.
Le pressioni israeliane e statunitensi (corroborate da quelle europee), nonostante l’evidenza delle rilevazioni ufficiali non delinei un quadro allarmistico e di acclarate violazioni, stanno mirando alla creazione di un’emergenza internazionale nei confronti della Repubblica Islamica mediante il ricorso a:
- scrupolosa gestione mediatica degli eventi interni ed esterni
- abile inserimento nelle vicende di potere
- supporto in varie forme ai contrasti sociali
- fervente attività di intelligence
- pressioni economico-finanziarie, sia quelle estemporanee e dirette come le sanzioni, sia quelle più ampie e complesse che potrebbero definirsi “sistemiche”, in quanto direttamente legate al peso e all’influenza nelle dinamiche internazionali
- pressioni di ordine politico-diplomatico su Paesi, organismi ed istituzioni.
Questa linea di condotta naturalmente –lo si accennava prima- sottende implicazioni prettamente politiche che travalicano gli aspetti negoziali sul nucleare.
Dunque, l’impasse, nell’altalenante stop and go circa le attività di arricchimento, risente di oggettive difficoltà dovute a:
- la non netta individuazione della natura nonchè precaria definizione dell’oggetto stesso del negoziato
- un quadro normativo intricato e incongruente (come nel caso del rapporto tra Tnp e Safeguards Agreement)
- ambiguità a lungo termine delle proposte della comunità internazionale sulle ipotesi di programma, e rifiuto nel breve di quelle avanzate da parte iraniana
- reciproche diffidenze
- incertezza circa la collocazione di Teheran sullo scacchiere internazionale.
Aspetti economici e sanzioni
L’Iran è tra i massimi detentori ed esportatori mondiali di riserve di petrolio e gas, ma registra una scarsa capacità di raffinazione che comporta un’alta percentuale di importazione di benzina rispetto al 70% delle proprie esportazioni che riguardano appunto il petrolio. Sopporta un notevole costo di produzione e un forte deficit di energia elettrica tali da motivare la scelta del nucleare. Sulla tenuta economica del Paese gravano diverse difficoltà interne che sono nelle mire stesse del regime sanzionatorio applicato.
Ma al centro di un nuovo pacchetto di sanzioni potrebbe esserci il traballante sistema creditizio con un peso di ben 48 miliardi di dollari di prestiti non onorati, circa il 25% del totale dei prestiti emessi, che rappresentano circa il 20% del totale delle disponibilità bancarie. Il basso costo del denaro, fortemente voluto dal governo, è un motivo di attrito con la banca centrale. Il tasso d’interesse nominale è al 12%, il tasso d’inflazione sfiora il 30%, scarso è l’incentivo al risparmio, mentre si tenta di stimolare le rendite finanziarie con la possibilità di giocare tra il tasso praticato dalle banche e quello dei mercati non ufficiali.
La liquidità facile ha reso possibile bolle speculative nel settore immobiliare in Iran come a Dubai –dove gli iraniani esercitano cospicue attività- e sembrerebbe che l’intervento di Abu Dhabi nei confronti di quest’ultimo sia stato influenzato da Washington in direzione contraria agli interessi di Teheran.
Secondo indiscrezioni, la bozza elaborata nell’ultimo giro di consultazioni chiederebbe una vigilanza rafforzata sulle transazioni legate alla banca centrale e di imporre restrizioni a nuove banche iraniane all’estero, una misura che potrebbe ostacolare un eventuale tentativo di Teheran di superare la stretta sulle transazioni con le istituzioni finanziarie iraniane creandone di nuove.
Finora Russia e Cina hanno continuato un prolifica collaborazione con l’Iran, di cui sono fondamentali fornitori di armi e partners commerciali, e non hanno mostrato cedimenti sostanziali di fronte alle pressioni americane, ribadendo la priorità della via diplomatica e bocciando la discriminante di un inasprimento delle sanzioni. L’asse non vacilla, sembrerebbe.
E’ una fase in cui il cosiddetto dialogo serve a studiare le mosse e a prender tempo.
Ma proprio la variabile tempo potrebbe giocare a favore degli Statunitensi: la crisi economica, il deficit energetico, le turbolenze interne al’apparato di potere e ad una parte della società iraniana, le manovre esterne, ancor prima di eventuali nuove sanzioni, potrebbero costringere Teheran ad un logorio tale da inchiodarla all’impasse sul programma nucleare, inducendola, quindi, a cedimenti. Washington, a quel punto, da una maggiore posizione di forza, potrebbe stringere la morsa.
* Alfredo Musto, dottore in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università La Sapienza di Roma), collabora con “Eurasia” e “Africana”
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