“L’hanno chiamato ‘accordo di pace’ ma non
ricordo guerre tra Israele ed Emirati o Bahrein.
Il conflitto è tra israeliani e palestinesi”.
Saeb Erekat, segretario generale dell’Olp
La dichiarazione di Saeb Erekat spiega con semplice chiarezza il perché delle virgolette apposte alla locuzione “Trattati di pace” sin dal titolo di questo pezzo. In punta di diritto internazionale siamo infatti dinnanzi ad un’ufficializzazione di riconoscimento diplomatico e di relazioni diplomatiche tra paesi che prima non ne avevano – non ne avevano alla luce del sole, pur avendone da lungo tempo proficuamente stabilite di informali e di coperte. La differenza però non è solo giuridica e formale, ma è anche strategica e sostanziale nello stabilire le simmetrie tra vincitori e vinti e nel ridisegnare la mappa del potere nel Vicino Oriente.
Ad esclusione della Giordania (da sempre un protettorato angloamericano), le monarchie ufficialmente sunnite o a guida formalmente sunnita non hanno mai combattuto Israele se non nella retorica o nel finanziamento a gruppi combattenti – come ha fatto e continua a fare con Hamas un Qatar sempre però più isolato dal resto degli stati arabi del Golfo. Né hanno combattuto Israele i movimenti jihadisti ispirati al radicalismo sunnita come Al Qaeda o Daesh, i quali, germinati direttamente o indirettamente da operazioni (anche israeliane) di guerra coperta antisovietica e opposta ai governi arabi filosovietici, hanno avuto nel corso della loro storia altre priorità (che sarebbe impossibile e non necessario riassumere qui grazie alla presenza di una vasta letteratura). Una parziale sovrapposizione tra la lotta nazionale palestinese e la solidarietà militante sunnita si ebbe solo con i Fratelli Musulmani egiziani – e le loro filiazioni egiziane e palestinesi – specie a partire dal trattato di pace firmato da Sadat. Come ieri il vero nemico delle monarchie ufficialmente sunnite era l’URSS e i governi arabi da questa sostenuti – per la loro natura panaraba, antimonarchica e socialisteggiante – oggi il loro nemico è l’Iran repubblicano, sciita e avverso al grande protettore d’Oltreoceano: in entrambi i casi nemici esistenziali tanto dei regimi tribali petromonarchici che del progetto sionista. Perché dunque qui ed ora? Perché l’amministrazione Trump non ha solo ratificato una situazione di fatto mettendo sul tavolo il peso diplomatico statunitense: ha saputo costruire una esplicita coalizione antipersiana. I vincitori sono dunque presto elencati: le monarchie arabe rinsaldano i legami con gli USA e si garantiscono un sempre maggiore accesso alle tecnologie israeliane, mentre gli israeliani completano il processo di isolamento dei palestinesi dal resto del mondo arabo sunnita e si avvicinano alle prodigiose risorse finanziarie delle petromonarchie.
I grandi sconfitti sono chiaramente i palestinesi: che la loro causa sia per gran parte dei “fratelli arabi” nel migliore dei casi un tema secondario e nel peggiore dei casi un tema di nessun interesse è ormai un dato esplicito, al di fuori dei convenevoli diplomatici. Ad Abu Dhabi e a Manama (il che significa a Riyadh) nessuno ha voglia di morire per Gerusalemme, figurarsi per Ramallah: oggi non c’è nemmeno più timore a dirlo con chiarezza. Nulla portano a casa i palestinesi, se non promesse e buone intenzioni che non fermano la colonizzazione del loro territorio, annessione de facto che ormai da anni prepara quella de iure rendendola una mera formalità. Manama e Abu Dhabi hanno chiesto uno stato palestinese e l’esclusione dell’annessione: ma si sono precipitare a firmare prima di ottenerli. Da parte americana si invoca un ritorno palestinese al tavolo delle trattative: strano sarebbe il contrario, visto che mai come oggi, nella Lega Araba, la Palestina è sola, con indennizzi finanziari che le vengono promessi come risarcimento per un abbandono politico del tutto palese.
L’altro sconfitto è la Repubblica Islamica dell’Iran. Colpita dalle sanzioni economiche americane, con un’UE che non ha la minima forza di rilanciare qualsiasi dialogo economico, con il proprio grande alleato Hizbollah meno forte in Libano dopo la tragedia di Beirut e con una Siria in cui deve dividere la propria influenza con russi e turchi, la Repubblica Islamica è sempre più chiaramente sotto assedio. Può proporsi alla Ummah islamica come il vero paese della fermezza; ma il punto è a che pro. Un mondo islamico come unicum geopolitico non esiste. Nell’area indopacifica i più popolosi paesi islamici del pianeta si dividono tra quelli attratti nell’orbita cinese (il Pakistan) e quelli contesi oppure attratti nell’orbita americana (l’Indonesia, la Malesia). In quella centroasiatica sono Cina e Russia a compartecipare dell’amicizia di governanti eredi del laicismo sovietico e che non possiamo certo definire quindi come capi di governi “islamici”. I paesi arabi sunniti, escluso un Qatar con il quale non tutte le porte sono chiuse ma che pure ha finanziato e sostenuto movimenti jihadisti antisciiti, sono uniti dall’ostilità verso il persiano sciita e il turco. Nel Maghreb il Marocco ha espulso l’ambasciatore iraniano e Teheran sembra “non toccare palla”. Nemmeno nel mondo sciita la guida di Teheran è indiscussa. Come abbiamo notato, l’influenza su Damasco non certo è univoca come quella su Hizbollah o sugli Huti dello Yemen, ma la grande comunità sciita dell’Iraq è tutt’altro che monolitica e allineata con il proprio vicino. In che modo dunque proporsi dunque come paese guida di un “mondo Islamico” che non esiste sul piano geopolitico? Il punto è che la partita geopolitica e strategica del XXI secolo si sta spostando dal Vicino Oriente sempre più verso l’Indopacifico. Gli USA già dai tempi di Obama (altro punto di continuità tra le due amministrazioni Obama e Trump!) vogliono chiudere le partite nel “Greater Middle East” per concentrarsi sulla Cina (prova ne sono i negoziati di Doha coi Talebani afghani). Chi scrive non ha mai creduto che il Vicino Oriente perderà importanza in senso assoluto: è punto di collegamento tra tre continenti e due (tre) Oceani, e proprio il crollo del prezzo del petrolio non potrà che rendere meno convenienti nuove esplorazioni (si pensi a quelle artiche o a quelle da scisti) e più conveniente concentrarsi sui pozzi già disponibili e a relativo buon mercato. Tuttavia perderà importanza rispetto alla regione indopacifica – con la quale però comunica, e comunica anche grazie al passaggio iraniano. È a quell’area che Teheran deve guardare per contare, e le relazioni in fase di approfondimento con Pechino vanno in quella direzione – una scelta obbligata.
Questa partita lascia vincitori e vinti chiari, ma almeno un giocatore che pareggia: parliamo della Turchia, la quale manterrà le proprie (storiche) relazioni di intelligence e di diplomazia coperta con gli israeliani, ma salva la faccia di integerrimo vindice del mondo sunnita e della causa palestinese, al di là della concretezza. Erdogan è forte quando gli altri sono deboli, abile a mostrarsi come battitore libero della geopolitica mediterranea e vicinorientale, ma attento a non rompere mai del tutto con gli Stati Uniti; economicamente è tenuto in vita da un Qatar che a propria volta tiene in vita militarmente: la somma due debolezze può fare una forza? In teoria in politica è possibile, in pratica non vediamo come. Si dice che la Turchia sia influentissima in Kosovo e tra i musulmani balcanici: Ankara non può fare altro che incassare la decisione di Pristina, capitale fantoccio di Washington (ci si perdoni l’espressione poco asettica, ma qualsiasi altra definizione richiederebbe sforzi di fantasia ugualmente inadeguati ad un articolo di analisi) di aprire un’ambasciata a Gerusalemme.
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