Intervista al generale Maurizio Boni a cura di Federico Dal Cortivo
Nato a Vicenza nel 1960, il generale Maurizio Boni è stato il vicecomandante dell’Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell’Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l’Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell’Esercito a Civitavecchia e il Reggimento Artiglieria a cavallo a Milano; è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell’Esercito e vicecapo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma.
Generale Boni, quale è l’attuale situazione del conflitto russo-ucraino alla luce delle ultime offensive delle forze di Mosca?
Per rendersi conto della situazione basta dare un’occhiata alle abbondanti mappe, disponibili sul web sia da parte russa che ucraina, che descrivono la stessa situazione lungo i circa 1.250 di estensione del fronte. I Russi sono molto vicini al conseguimento degli obiettivi strategico-operativi dell’Operazione militare speciale consistenti nella conquista delle regioni del Donetsk (già in mano russa per il 75/80 per cento), Lugansk (oramai sotto controllo russo come la Crimea), Kherson e Zaporizhia. Inoltre, visti gli sviluppi favorevoli alle forze di Mosca in questi ultimi due settori, si stanno creando le premesse per proseguire le operazioni verso Mykolaiv e Odessa. Infine, le forze russe hanno registrato progressi anche a nord nelle regioni di Kharkiv e Sumy, creando le condizioni per allungare la fascia di sicurezza che Mosca vuole istituire in territorio ucraino a protezione del proprio confine. Ma è anche nella “guerra non a contatto” che Mosca tiene saldamente l’iniziativa, infliggendo danni ingentissimi a tutto ciò che può sostenere logisticamente lo sforzo bellico di Kiev: infrastrutture militari, industriali, energetiche e ferroviarie situate nell’entroterra dell’Ucraina. Dalle aree che si trovano a ridosso della linea del fronte fino a centinaia di chilometri di distanza. Nel contesto appena delineato, il logoramento imposto alle forze armate di Kiev e alla sua produzione industriale, il pressoché esausto supporto occidentale, nonché la drammatica situazione dei reclutamenti e delle diserzioni hanno fatto sì che gli ucraini non abbiano più forze sufficienti, in termini di risorse umane e materiali, sia per avvicendare le loro unità che per costituire riserve. Gli stessi comandanti e soldati ucraini parlano, sui rispettivi blog e canali Telegram, di situazione oramai militarmente insostenibile.
Quale impatto stanno avendo le armi ipersoniche messe in campo dai Russi, che in questo settore sono all’avanguardia? I famosi missili Tomahawk di fabbricazione statunitense, di cui tanto si parla, arriveranno?
L’impatto più evidente è sull’applicazione del concetto di deterrenza militare, intesa quale risultato di un’equazione che mette in relazione tre fattori. Innanzitutto, la capacità di uno strumento operativo in tutte le sue dimensioni (terrestre, aerea, navale, cibernetica e spaziale – convenzionale e nucleare). In secondo luogo, la volontà e la determinazione nell’impiegare questo strumento a sostegno degli obiettivi politico militari che s’intendono perseguire. Infine, un’efficace comunicazione strategica, accompagnata da atti dimostrativi, che renda ben visibili e percettibili, a decisori e opinione pubblica, i primi due elementi. Nell’equazione della deterrenza, tutti questi fattori sono elementi di un prodotto (e non di una semplice somma). Ciò significa che, in generale, valori bassi dei singoli fattori generano un prodotto modesto e se uno solo dei fattori è pari a zero, il risultato finale è nullo. In altri termini, la deterrenza semplicemente non esiste o non è credibile. Ebbene, in questo momento i Russi, a differenza di qualunque Paese della NATO (Stati Uniti compresi) o dell’Unione Europea, esprimono il massimo valore possibile di questa equazione. Infatti, il solo fatto che le armi ipersoniche, con possibile carico bellico nucleare, non siano praticamente intercettabili eleva moltissimo il valore della deterrenza. Inoltre, vale la pena sottolineare che nella sua nuova dottrina nucleare Mosca ha introdotto un elemento di “ambiguità strategica” che pone qualunque possibile aggressore di fronte a un dilemma cruciale: quello di valutare quale forma o entità di un attacco, convenzionale o non convenzionale, al territorio o alle forze russe potrebbe provocare la risposta nucleare del Cremlino. I Russi non hanno indicato alcuna soglia o possibile linea rossa, elevando il rischio decisionale e i costi di una possibile decisione, e non passa giorno che qualche comunicato ufficiale russo non ribadisca l’idea. Quando un anno fa la regione russa di Kursk, oggetto dell’effimera incursione ucraina, è stata colpita da 12 missili Storm Shadow inglesi (così riportava il “Guardian”), Putin ha replicato lanciando nella regione di Nipro il missile intercontinentale a medio raggio di nuova generazione Oreshnik praticamente non intercettabile dal 90% dei sistemi di difesa aerea della NATO. Una chiara dimostrazione (il terzo fattore dell’equazione) di quello che potrebbe accadere se si tira troppo la corda.
Il tema dei Tomahawk s’innesta esattamente nel contesto che abbiamo delineato. Questo missile, piuttosto datato ma ancora abbastanza efficace, ha una gittata di 2.500 km e oltre, nelle versioni più aggiornate, e appartiene alla categoria delle armi “strategiche”. E proprio per questo, a prescindere dal numero di vettori che possano essere forniti all’Ucraina (non potrebbero essere un’arma risolutiva del conflitto) hanno il potenziale simbolico necessario per superare la soglia della sopportabilità di Mosca. Per questo gli Stati Uniti hanno comunicato ai russi con ogni possibile mezzo, social e stampa mainstream inclusi, di star valutando questa ipotesi. I russi non hanno chiesto un incontro con gli americani, ma hanno fatto presente che la fornitura di queste armi a Kiev non solo non capovolgerebbe le sorti della guerra, ma potrebbe infliggere un colpo colossale alle relazioni tra Russia e USA. E certamente qualcuno dal Pentagono avrà spiegato a Trump il significato reale di questa affermazione. La deterrenza, al momento, funziona.
In quali proporzioni le forze della NATO sono schierate (o infiltrate) a fianco dell’Ucraina?
È difficile pensare alla presenza di forze di combattimento regolari NATO/UE schierate apertamente sul territorio ucraino, in quanto Mosca non tollererebbe la presenza di truppe occidentali ai confini con la Russia. Al momento, la politica ufficiale delle capitali è evitare questa opzione per non espandere il conflitto, anche se Francia e Gran Bretagna sono le capofila dell’ipotesi interventista. Ciò che invece è accertato è la presenza di personale per l’assistenza logistica, la formazione e l’addestramento sui sistemi d’arma occidentali, e di consulenti/istruttori per gli staff. Completano il quadro le forze speciali di alcuni Paesi, i contractors e personale dell’intelligence.
Il presidente Trump ha fatto capire a più riprese che gli Stati Uniti vogliono disimpegnarsi dal conflitto ucraino, essendo la NATO un’“Alleanza” di cui il perno e comando sono gli USA. Come giudica il futuro della NATO, sia che ci sia un ritiro anche parziale degli Stati Uniti, sia alla fine del conflitto a oriente?
La NATO è condannata a sostenere la prospettiva di un confronto senza fine con la Russia, poiché è questa l’unica ragione per la sua sopravvivenza. Dei tre compiti istituzionali che la contraddistinguono: deterrenza e difesa, prevenzione/gestione delle crisi e cooperazione nel campo della sicurezza per mezzo delle partnership globali, è sopravvissuto solo il primo (e originario) core task. Infatti, oggi non esiste regione al mondo dove l’Alleanza Atlantica possa essere percepita come attore credibile con funzione di stabilizzazione, specialmente dopo l’Afganistan. Fuori dall’Occidente, l’immagine della NATO come garante di stabilità è sempre più debole. Molti paesi del Sud globale vedono l’Alleanza come uno strumento di proiezione del potere occidentale, in particolare degli Stati Uniti, più che come un pilastro della sicurezza internazionale. Per quanto riguarda le partnership del terzo compito, che nel frattempo interessano più di quaranta Paesi, la NATO politica e globale ha voluto, e realizzato, un’Alleanza senza più confini o limiti di aree d’intervento. Ma, mentre pretende di avere mani libere nel mondo aprendo il confronto addirittura con la Cina, ha contemporaneamente inchiodato l’Alleanza Atlantica alla guerra in Ucraina preparandosi, a seguito della oramai inesorabile sconfitta di Kiev sul campo di battaglia, a una poco probabile invasione russa dell’Europa. Per questo sta emergendo, nelle ultime settimane, la narrativa della guerra perpetua, recentemente annunciata dal Segretario Generale della NATO Mark Rutte e dal suo collega protempore Fogh Rasmussen durante interviste o incontri pubblici. Guerra perpetua che dovrebbe essere sostenuta interamente dall’Europa con il folle intento di logorare il potenziale politico militare russo. A Washington questo fa comodo, perché continueranno ad esercitare il controllo sugli alleati a prescindere dal livello di impegno nel Vecchio Continente.
Si parla molto di riarmo europeo. Il famoso o fumoso Re Arm Europe (Readiness 2030), nome che l’UE ha coniato per finanziare con 800 miliardi di euro il riarmo della NATO. L’Italia ha aderito al Fondo SAFE (Support for Ammunition and Armaments Production Framework), che è il perno di Readiness 2030, strumento ideato da Bruxelles per contrarre prestiti per la difesa. Lei che ne pensa? Quale è lo stato attuale delle forze armate in Europa?
Rispondo citando il parere degli analisti dell’Istituto francese per le relazioni internazionali (IFRI), recentemente riportato dal quotidiano “Le Monde”, secondo i quali la Russia mantiene una significativa superiorità militare sui paesi dell’UE, mantenendo un vantaggio decisivo in termini di massa, potenza di fuoco e capacità di mobilitazione anche perché in tre anni e mezzo l’industria della difesa europea, sempre secondo gli analisti d’oltralpe, non ha completato i progetti pianificati, il che ha aggravato il divario tra l’UE e la Russia in campo militare. Il potenziale militare russo non solo è enorme, ma continua da espandersi soprattutto nei settori ad alta tecnologia, in particolare quello dei droni, dei missili e della guerra elettronica. E non è solo una questione di produzione industriale, ma di capacità d’impiego collaudate ogni giorno sul campo. Livelli di produzione e di capacità operative che l’Unione Europea non riuscirà ad eguagliare neanche tra vent’anni, ammesso di poter continuare a mantenere un impegno finanziario e degli oneri sociali così elevati. Infatti, sussistono problemi strutturali che oggi rendono politicamente impossibile ed economicamente insostenibile il massiccio riarmo dell’Europa. Modificare l’impostazione delle industrie europee per la Difesa verso le produzioni di massa di un’economia di guerra è un processo che richiede, oltre che a una ferrea volontà politica, forti investimenti (e non tutti necessariamente in Europa), diversi anni, migliaia di nuovi lavoratori specializzati non reperibili oggi sul mercato e, soprattutto, un agevole e conveniente accesso a materie prime ed energia. Condizioni inesistenti oggi in Europa per la rinuncia (suicida) alle fonti energetiche russe e per le logiche di produzione occidentali che, ovviamente, badano al profitto a differenza di quelle russe dove il comparto industriale della difesa produce, nell’economia di guerra, a prezzi di costo. Ma soldi e hardware non sono tutto e si trascura sempre l’elemento umano. Ammesso di poter realizzare anche la maggior parte dei progetti bisogna trovare gli uomini e le donne, nella qualità e nel numero adeguato, da addestrare per acquisire le nuove capacità (anche l’addestramento richiede molto tempo) e sostenere il ritmo delle eventuali operazioni, l’avvicendamento delle unità e le inevitabili perdite. le nostre società sarebbero capaci di sopportare lunghi periodi di sacrifici economici e umani? Ad oggi, a giudicare dai sondaggi effettuati in Paesi come La Germania, l’Italia, la Francia e persino la Polonia non mi pare ci sia un particolare entusiasmo nei giovani di armarsi e di morire in un confronto armato con Mosca. E poi, di quali capacità parliamo? Se il modello di riferimento è il conflitto russo ucraino, per prevalere militarmente nel prossimo futuro si dovrebbe disporre, a livello nazionale o di alleanza/coalizione, di una panoplia altamente diversificata di sistemi d’arma dal livello tattico a quello strategico, da impiegare nello scenario giusto al momento giusto. Semplicemente impensabile.
Secondo lei avrà un futuro l’Unione Europea, già traballante e in recessione economica? Un esercito europeo è pensabile allo stato attuale?
Non ho le competenze per esprimere un’opinione in merito al primo quesito, ma sul secondo credo di poter affermare che si tratta di un disegno irrealizzabile. Il tema della difesa comune e dell’istituzione di forze armate europee è nuovamente tornato in auge a seguito dei timori che gli Stati Uniti possano diminuire l’impegno nel conflitto ucraino (se non ad abbandonarlo del tutto) per volgere il proprio sguardo verso l’Indo-Pacifico, lasciando gli Europei ad affrontare da soli l’improbabile attacco russo al Vecchio continente. Si tratta evidentemente della conseguenza della narrativa del “dopo di noi tocca a voi”. Se noi Ucraini perdiamo la guerra e gli Stati Uniti ci mollano, il Vecchio continente subirà la stessa sorte. Da qui, appunto, la necessità per gli europei di riarmarsi (tanto) e di dotarsi di capacità autonome di difesa. In Italia, la costituzione di un esercito europeo è nuovamente comparsa nei programmi elettorali di molti partiti. Ma quanto possiamo essere strategicamente autonomi rispetto alla NATO, leggi “Stati Uniti”? Qui vale la pena ricordare una dichiarazione emblematica del Segretario Generale protempore della NATO Jens Stoltenberg pronunciata lo scorso anno parlando all’Atlantic Council ad Helsinki il 6 giugno. In quell’occasione, ha chiarito molto bene a noi Europei come dobbiamo considerare l’idea di sviluppare una nostra specifica capacità militare. “Accolgo con favore gli sforzi dell’UE nella difesa” aveva detto Stoltenberg, “ma devono essere complementari alla NATO, non una duplicazione. Questa azione “non deve indebolire la concezione della NATO. Ogni tentativo di indebolire il legame transatlantico indebolisce non solo la NATO ma anche l’Europa”. La responsabilità della NATO sull’Europa non può essere messa in dubbio”. I concetti di complementarità e di non duplicazione sono citati in tutti i concetti strategici dell’Alleanza del dopo guerra fredda. E non c’è vertice della NATO che non li ribadisca. In realtà i due termini non sono mai stati compiutamente declinati, anche se una duplicazione in una certa misura è già avvenuta in quanto la struttura militare dell’Unione Europea non è altro che il “copia e incolla”, al ribasso, di quella dell’Alleanza Atlantica. In ogni caso il messaggio di Stoltenberg è stato chiaro, in quanto ha detto esplicitamente agli Europei che gli Stati Uniti non potranno mai accettare un’Europa militarmente autonoma. Ma non c’è da stupirsi, perché è sempre stato così, sin dai primi anni dopo la fine del Secondo conflitto mondiale. La ricerca storica ci dice che il dibattito sulla Comunità Europea di Difesa (CED) dei primi anni ’50, primo tentativo di creare uno strumento militare europeo autonomo, non si svolse esclusivamente negli ambiti prettamente europei, ma trovò il suo fulcro decisionale negli organismi dell’Alleanza Atlantica, perché fu la NATO a legittimare e orientare il progetto dell’esercito europeo. E non a caso gli Stati Uniti pretesero che il comandante supremo della forza europea fosse un americano, nella persona del Generale Eisenhower. La CED, come noto, fallì per mano francese, ma gli Stati Uniti furono complici. L’atteggiamento americano verso la CED fu caratterizzato da una fondamentale ambiguità che contribuì al suo fallimento. Da un lato, Washington sosteneva pubblicamente l’iniziativa come esempio di integrazione europea (aveva bisogno dei soldati europei per combattere la battaglia d’Europa contro la minaccia sovietica). Dall’altro, gli americani non nascondevano la loro preferenza per un controllo diretto delle forze europee attraverso la NATO piuttosto che consentire strutture realmente autonome. Tutto ciò dimostra come l’Alleanza atlantica fosse già diventata, de facto, il principale forum decisionale per le questioni di difesa europea, superando per rilevanza strategica le stesse istituzioni continentali e configurandosi come il luogo imprescindibile dove Stati Uniti ed Europei avrebbero negoziato, da questo momento in poi, l’architettura della sicurezza occidentale, i cui limiti sarebbero stati sempre definiti, sino ai nostri giorni, da Washington.
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