Una nuova crisi energetica potrebbe partire dall’Europa dell’est, per investire il settore centrale. Dopo la “guerra del gas” che ha visto contrapposte Ucraina e Russia nel 2006 e nel 2009, ora tocca alla Bielorussia fare i conti con Mosca: un contenzioso di cui l’Unione Europea percepisce solo gli effetti immediati e contingenti e di cui sottovaluta, forse, conseguenze e implicazioni future.
La nuova guerra energetica
La disputa si è accesa lo scorso mese di gennaio, quando, alla scadenza dei contratti di conduzione del 2009 e a seguito di annosi screzi sul prezzo del petrolio, Mosca ha chiesto per la prima volta a Minsk i diritti doganali sul petrolio che la Bielorussia importa dalla Russia: attraverso l’oleodotto “Druzhba” – che come il nome ricorda (“amicizia”) era destinato all’esportazione di petrolio nei Paesi fratelli dell’Est Europa – la Bielorussia rivende in Europa il greggio proveniente dalle riserve russe e kazakhe, rifornendo Germania e Polonia (attraverso la diramazione settentrionale dell’arteria), fino a giungere nei Balcani (attraverso il tronco meridionale). In questo modo viene soddisfatto per metà il fabbisogno energetico dell’Unione Europea. Mentre Transneft, la compagnia russa che gestisce gli oleodotti, insisteva affinché la Bielorussia pagasse un debito di quasi 5 milioni di dollari, la delegazione bielorussa, ritiratasi da Mosca, sosteneva che l’unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan – che sarebbe dovuta entrare in vigore il 1° gennaio 2010 – facesse venir meno l’obbligo di pagare il debito. Inoltre, in risposta alle pretese russe, il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko ha chiesto un aumento delle tariffe che Mosca paga per il transito di petrolio verso l’Europa.
Di fatto, nessuna delle due parti ha deciso di recedere dalla propria posizione, sicché l’unione doganale non è andata in porto e la controversia fra i due Stati è a tutt’oggi irrisolta, intrecciandosi con un nuovo contenzioso riguardante le forniture di gas: dopo l’annuncio di Gazprom di un taglio del 15% delle forniture di gas, i Bielorussi dallo scorso mese di giugno hanno iniziato a pagare, non senza riserve, i debiti maturati nei primi mesi dell’anno. Contemporaneamente, nell’ottica di quella che Lukashenko ha definito “cooperazione socialista”, Bielorussia e Ucraina hanno stretto degli accordi di cooperazione energetica con il Venezuela di Chavez: per tutto il mese di luglio petroliere piene di greggio sono sbarcate nel porto di Odessa, con lo scopo di aiutare i due Paesi a diminuire la loro dipendenza dalle risorse russe.
In realtà le controversie energetiche fra Russia e Bielorussia non sono di natura esclusivamente economica, ma riflettono un’ormai consolidata strategia della Russia del tandem Medvedev – Putin di ridefinire le relazioni di Mosca con i Paesi ex sovietici, modificando i rapporti di potere in Europa e riconfigurando le relazioni con l’intero blocco euro-atlantico. L’energia è il principale strumento di cui la Russia si avvale per cercare di ricostruire la propria influenza nello spazio che apparteneva all’Unione Sovietica.
Lo spazio ex sovietico
L’asse Russia – Bielorussia, consolidatosi dopo il dissolvimento dell’URSS, ha subito nel corso dell’ultimo biennio una battuta d’arresto. Il Cremlino, infatti, non deve aver visto di buon occhio le politiche sempre più “indipendentiste” del leader bielorusso Lukashenko: il mancato riconoscimento dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia al termine del conflitto russo-georgiano del 2008, la non esplicita condanna della Rivoluzione Arancione in Ucraina, la mancata adesione all’unione doganale, la concessione di asilo politico all’ex presidente del Kirghizistan, Bakiev. Mosca, soprattutto, non deve aver gradito il mancato sostegno bielorusso al summit del 2009 per la creazione di una nuova Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) – considerata un’alternativa alla NATO sotto l’egida della Russia rivolta ai Paesi ex sovietici – e il progressivo interessamento di Lukashenko sia alle politiche dell’Unione Europea miranti a consolidare una partnership strategica nell’Europa centrale e orientale, sia al Patto Atlantico. In realtà il boicottaggio di Minsk del summit sull’OTSC è da ascrivere soprattutto al rifiuto russo di concedere un prestito di 500 milioni promesso per il settore lattiero bielorusso.
Tuttavia, è vero che è proprio intorno al tema della sicurezza che la Russia tenta di dispiegare la sua nuova influenza su scala regionale – quella baltica e quella caucasica – e, conseguentemente, su quella globale.
Pur rinunciando a qualsiasi sogno di restaurazione imperiale, il Cremlino ha rilanciato negli ultimi anni una politica di potenza basata su una contrapposizione di fondo tra Russia e Occidente. In quest’ottica, infatti, si inserisce l’opposizione di Mosca nei confronti delle politiche di Washington di espansione della NATO ad Est (al summit di Bucarest del 2008 fu propugnata la partecipazione di Georgia e Ucraina al programma di pre-adesione “Membership Action Plan”) e, anche se in forma moderata, nei confronti di Bruxelles: l’Unione Europea ha ormai esteso i suoi confini fino agli Urali, ha accelerato e concluderà con successo il processo di stabilizzazione di quei Paesi balcanici da sempre sensibili alle politiche russe e, soprattutto, ha avviato una Politica di Vicinato (PEV) con le repubbliche del Caucaso meridionale dell’Azerbaigian, dell’Armenia e – dopo la “Rivoluzione delle Rose” del 2003 – della Georgia. Dal punto di vista di Mosca, sarebbe dunque in atto la costruzione di una coalizione di Stati confinanti ostili, guidati da regimi arrivati al potere sull’onda delle “rivoluzioni colorate” con il sostegno esterno dell’Occidente.
La sicurezza eurasiatica
A pesare sui rapporti con l’Occidente e, conseguentemente, a definire i rapporti bilaterali con le repubbliche ex sovietiche, è il progetto americano sul sistema di difesa antimissile volto a proteggere l’Europa dall’Iran e da altre potenze ostili dell’area mediorientale. A seguito del Piano Bush del 2007, rinnovato e concluso lo scorso mese di luglio dall’amministrazione Obama, l’Alleanza Atlantica installerà in Polonia basi destinate ad intercettare missili di breve e media gittata, sta finanziando la ristrutturazione e il potenziamento di sette basi aeree e delle due stazioni navali polacche nel Mar Baltico (Gdynia e Swinoujscie); inoltre, nella Pomerania è operativo dal 2005 uno dei principali centri di addestramento in Europa dei reparti di Forza di reazione rapida della NATO.
La Russia, dunque, considera il nemico ormai alle porte della Bielorussia e ha risposto al piano occidentale rafforzando le sue basi navali di Kaliningrad e Kronstadt, posizionando missili tattici nella sua enclave nel territorio polacco, rinnovando la cooperazione economica e militare con l’Ucraina nella penisola di Crimea, ma, soprattutto, proponendo nell’agosto del 2009 un nuovo Trattato sulla Sicurezza in Europa: un nuovo Trattato stipulato nell’ambito dell’OCSE, sancendo il rispetto della sovranità e il principio dell’indivisibilità della sicurezza, salvaguarderebbe il Cremlino da un allargamento senza limiti della NATO. La militarizzazione della regione baltica, inoltre, è speculare al tentativo russo di riaffermare la propria egemonia nel Caucaso – come gli eventi tragici della Cecenia, il conflitto con la Georgia e le tensioni con il Kirghizistan hanno recentemente dimostrato – realizzando un collegamento diretto con quella regione mediorientale (Iran in primis) che è attualmente il principale motore della geopolitica internazionale.
Alla base della concezione russa vi è, pertanto, il rifiuto dell’assetto emerso dopo la fine della Guerra Fredda e delle istituzioni euro-atlantiche come uniche strutture con cui negoziare la sicurezza comune dall’Atlantico agli Urali. Tra l’altro, la nuova architettura della sicurezza pan-europea proposta da Mosca si baserebbe su un dialogo Russia-USA e rischierebbe di relegare l’Unione Europea ad una semplice “potenza civile” separata dalla NATO e incapace di fornire una risposta adeguata alle tensioni che caratterizzano le attuali relazioni internazionali.
Il ruolo dell’Unione Europea e le prospettive future
Ancora una volta, dunque, l’Unione Europea sottovaluta le implicazioni che sottendono alle politiche energetiche della Russia con i Paesi vicini, limitandosi a consolidare una fondamentale partnership di tipo economico (il “Partnership and Cooperation Agreement” del 1994, rinnovato nel 2008). Bruxelles, infatti, continua a sostenere che le dispute energetiche tra Russia e Bielorussia, così come nel caso dell’Ucraina, sono controversie bilaterali.
Nonostante la militarizzazione del Mar Baltico e del Mar Nero e le divergenze in materia di scudo spaziale lascino presagire un nuovo scontro fra Est ed Ovest, l’Unione Europea non farà probabilmente pressioni sulla Russia o sulla Bielorussia per risolvere il loro contenzioso energetico: la Russia è, infatti, il terzo partner commerciale dell’UE, non solo di energia, ma anche di prodotti e servizi. Al tempo stesso, anche la Russia ha bisogno dell’Unione Europea per modernizzare e diversificare la propria economia. Oltretutto, il Cremlino, pur potendo godere del sostegno della Comunità degli Stati Indipendenti (CIS), non opererà un intervento diretto in Bielorussia: Minsk non solo non è politicamente e militarmente debole come le repubbliche del Caucaso, ma finché l’“ultimo dittatore d’Europa” Lukashenko rimarrà alla guida del Paese, la Bielorussia difficilmente entrerà nella NATO o presenterà domanda di adesione allo spazio comunitario. D’altra parte la difficile situazione economica bielorussa, che, come nel caso dell’Ucraina, potrebbe richiedere un nuovo intervento del Fondo Monetario Internazionale, dissuaderà Lukashenko ad inimicarsi ulteriormente Putin e Medvedev e finirà, probabilmente, per sanare le divergenze fra i due Paesi.
In ragione di ciò, più probabilmente, il Cremlino intensificherà i suoi rapporti con l’Europa solo sul piano di rapporti bilaterali con i singoli Stati – come le relazioni diplomatiche con la Germania e i progetti economici con l’Italia dimostrano – piuttosto che sul piano di una politica comunitaria. Inoltre, qualora Lukashenko dovesse risultare nuovamente vincitore nelle prossime elezioni politiche bielorusse, Putin e Medvedev faranno di tutto – soprattutto attraverso aiuti economici – per ricostruire l’antica alleanza e per rilanciare la fallita unione doganale che potrebbe preludere ad una vera e propria alleanza militare.
Sul versante opposto, invece, la crisi georgiana e ucraina, nonché le attuali vicende del Kirghizistan, sono lezioni che l’UE non dovrebbe dimenticare e che dovrebbero spingerla, da un lato, a costruire una reale politica energetica comune e a completare il mercato dell’energia grazie anche ad una diversificazione delle fonti e delle linee di conduzione (come il progetto “Nabucco”, che, in alternativa al “North Stream” e al “South Stream” trasporterà il gas del Caspio in Europa, attraverso la Turchia); dall’altro, date le novità apportate dal Trattato di Lisbona in materia di azioni esterne (la creazione dello “European External Action Service” e dell’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza), Bruxelles ha l’opportunità di lanciare un’effettiva politica di sicurezza regionale e globale, anche attraverso il potenziamento del Comitato Politica e Sicurezza del Consiglio Europeo (CPS). In questo senso l’UE potrebbe potenziare la politica di vicinato con il Caucaso meridionale, consolidare i rapporti con la Turchia e con i Paesi appartenenti all’ex Jugoslavia, in modo da ottenere la sicurezza dell’approvvigionamento energetico.
Un ruolo importante in questo momento potrebbe essere giocato dalla Polonia: essa è una pedina strategica sia per l’Unione Europea che per la Russia, ma può essere anche politicamente influente grazie al suo inserimento nelle dinamiche europee e al recente riavvicinamento a Mosca dopo la morte di Kaczynski. Nel 2011, tra l’altro, Varsavia si appresterà a detenere la sua prima presidenza dell’Unione Europea e il baricentro delle politiche comunitarie si concentrerà ancora di più, evidentemente, sui rapporti con il Cremlino.
L’ennesima disputa energetica che si svolge ai confini dell’Europa e l’incertezza dell’architettura della sicurezza pan-europea dimostrano dunque che siamo ben lontani dal raggiungimento di quella “casa comune europea dall’Atlantico agli Urali” che i Padri fondatori dell’Unione Europea avevano sognato.
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice, e potrebbero differire da quelle di “Eurasia”.
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