Nell’editoriale di apertura del numero I/2017 di “Eurasia”, Claudio Mutti ricordava come l’atto di nascita dell’isolazionismo statunitense (la cosiddetta “Dottrina Monroe” enunciata dall’eponimo presidente il 2 dicembre 1823) si configurasse anche come la prima formulazione programmatica dell’imperialismo nordamericano[1]. Ispirata dal tipico sentimento puritano di superiorità morale e da un nebuloso afflato messianico successivamente ben delineatosi attraverso il concetto di “destino manifesto”, la Dottrina Monroe mirava, come sottolineato dal giurista tedesco Carl Schmitt, a sradicare l’Europa “dalla sua collocazione storico-spirituale, rimuovendola dalla sua posizione di centro del mondo […] Il diritto internazionale cessava di avere il suo baricentro nella vecchia Europa. Il centro della civiltà scivolava a Ovest, verso l’America. La vecchia Europa, come pure l’Asia e l’Africa, diventava passato”[2].

Allo stesso tempo, il Direttore di Eurasia faceva notare come l’America, a discapito dell’elezione alla presidenza del candidato “anti-sistema” Trump, non solo non si sarebbe isolata nell’emisfero occidentale, ma avrebbe anche acuito ulteriormente il conflitto geostrategico innescato nel corso delle precedenti amministrazioni contro i paesi che hanno sfidato l’egemonia statunitense[3].

Di fatto, lungi dal rappresentare una “rivoluzione”, l’elezione di Donald Trump è un prodotto della crisi di quell’ordine unipolare stabilitosi nell’istante successivo al collasso del blocco socialista e messo in discussione dai recenti tentativi, di Russia e Cina in particolar modo, di conseguire la formazione di un sistema multipolare di relazioni internazionali che rifletta realmente la molteplicità di soggetti del mondo contemporaneo e la multiformità dei loro interessi. Paradossalmente, come afferma Leonid Savin, è stata l’azione unilaterale degli USA contro l’Iraq ad accelerare il processo di sviluppo di una nuova coscienza da parte degli attori internazionali che per ruolo economico e per forza militare avrebbero potuto competere con la potenza nordamericana[4].

Infatti, è del 2005 la Dichiarazione congiunta Russia – Cina sull’ordine mondiale nel XXI secolo che afferma: “La multiformità di cultura e civilizzazioni nel mondo deve divenire un fondamento per le loro reciproche relazioni e non per conflitti. Non lo scontro di civiltà, ma la necessità di una collaborazione a livello globale costituisce l’elemento determinante nel mondo contemporaneo”[5].

Ora, solo ad un osservatore estremamente disattento può sfuggire il fatto che la retorica dell’America first e del make America great again, sulla quale Steve Bannon ha impostato la propaganda elettorale trumpista, in realtà, non sia altro che un invito ad abbandonare il soft power e il lead from behind della precedente amministrazione democratica per riaffermare con forza la specifica identità nazionale statunitense ed il ruolo di guida mondiale che la Provvidenza avrebbe destinato al paese nordamericano. Questa non è altro che la riaffermazione dell’idea di destino manifesto che è stata oggetto di uno studio approfondito da parte di Anders Stephanson. Il ruolo profetico ed universale che gli Stati Uniti si sarebbero auto-attribuiti, secondo Stephanson, è il prodotto della già citata eredità puritana e della riproposizione della narrazione dell’Esodo e del tema giudaico dell’elezione divina attraverso il patto con Dio[6]. L’elezione divina implica la necessità di intervenire nel mondo secondo giustizia per cambiarlo e rigenerarlo. E solo attraverso la “Nuova Israele” la giustizia universale ritornerà nel mondo. Dunque, non è errato affermare che l’imperialismo nordamericano abbia una diretta discendenza dal messianismo giudaico. E se si considerano i continui riferimenti di Bannon ad una presunta cultura giudeo-cristiana a fondamento del mondo occidentale ed il carattere ultrasionista della piattaforma ideologica dell’Alternative Right, il sito Breitbart News (di cui lo stesso Bannon è stato direttore esecutivo e di cui ora, dopo la rottura con Trump, è presidente), risulta evidente come il pensiero dell’aspirante guida metapolitica della “rivoluzione nazional-populista mondiale” non proponga affatto niente di nuovo ma semplicemente cerchi di velare con una dialettica movimentista il tentativo nordamericano di riappropriarsi di quella egemonia globale messa a rischio dall’emergere di nuovi attori internazionali.

John Morgan, che del fenomeno a-culturale dell’Alternative Right si presenta come uno degli ideologi di riferimento, ha fatto notare, oltre alla non sorprendente incapacità del movimento di produrre materiale bibliografico, l’assenza di una precisa visione geopolitica[7].

In verità, questa assenza si può facilmente interpretare proprio col fatto che la visione geopolitica dell’Alternative Right sia la stessa che l’America ha portato avanti dal 1945 in poi. Di fatto, Bannon non fa altro che riproporre, volgarizzandoli ulteriormente ed adattandoli al ruolo centrale attribuito agli Stati Uniti, concetti e principi elaborati sia in ambienti europei che nordamericani.

L’obiettivo neanche troppo velato di Bannon è quello di preservare l’egemonia economico-culturale degli Stati Uniti nell’attuale panorama geopolitico di progressiva disgregazione del progetto europeista tecnocratico, unendo sotto la bandiera di una rinnovata forma di americanismo (da esportazione e imitazione) i gruppi politici che si oppongono alle istituzioni europee e che cercano di farsi espressione dell’inevitabile malcontento popolare di fronte alle nefaste politiche dell’Unione. Non è un caso dopotutto se il primo ministro dell’entità sionista Benjamin Netanyahu stia facendo la stessa identica cosa stringendo legami di amicizia con i leader politici di una certa “destra” europea in ascesa nei consensi; dal primo ministro ungherese Viktor Orbán al giovane cancelliere austriaco Sebastian Kurz.

Per fare ciò, Bannon ripresenta la retorica del clash of civilizations elaborata dal politologo Samuel Huntington e sfrutta alcuni concetti propri della visione etnopolitica del pensatore francese Guillaume Faye. L’idea di blocco euro-americano che deve guardarsi dai temibili avversari Iran, Turchia e Cina (estranei alla cultura giudeo-cristiana), dall’Islam in generale e dai flussi migratori incontrollati è la figurazione iniziale di quello che Enrico Galoppini ha definito come il processo di “israelizzazione della società”. “Una società nella quale si vive in perenne stato d’assedio, pieni di controlli e magari armati (contro un nemico invisibile quando quello vero finge di difenderci), allo scopo di farci sentire tutti sulla stessa barca dell’Occidente (opposto all’Oriente, cioè all’Islam, quindi pretestuosamente, alla Siria, all’Iran ecc.)”[8].

Ora, nessuno mette in dubbio che sia necessario porre un serio e decisivo freno al suddetto flusso migratorio. Tuttavia Bannon, orgoglioso artefice del Muslim Ban[9] e ben poco critico sul ruolo determinante dell’imperialismo predatorio nordamericano nella formazione dei processi migratori, molto probabilmente ignora volutamente che esistono, come sottolineato nel recente studio di Kelly M. Greenhill, delle migrazioni create ad arte: “movimenti di popolazioni trasfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di estorcere concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira”[10]. Vi sono stati casi nella storia in cui il fenomeno migratorio si è configurato come una vera e propria invasione. “L’immigrazione, talvolta, possiede l’efficacia di un’arma di distruzione di massa […] Si pensi all’immigrazione che ha praticamente cancellato dagli Stati Uniti d’America la presenza della popolazione autoctona o a quella che ha trasformato la Palestina nell’odierno Stato di Israele”[11].

L’invasione migratoria imposta all’Europa è l’arma di una “guerra asimmetrica” il cui obiettivo è rimodellare la composizione etnica europea sul modello nordamericano creando una enorme società civile cosmopolita e senza confini. Questo è l’ideale alla base degli “sforzi filantropici” del finanziere George Soros che, pur essendo sul fronte opposto e pur differendo nelle modalità di attuazione, combacia nell’obiettivo finale con la visione di Bannon: lo scontro con ogni forma di civiltà (e cultura) “altra” rispetto a quella occidentale e l’imposizione su scala globale del modello egemonico nordamericano.

Il populismo americanizzato di Bannon, pur opponendosi a taluni nefasti effetti del fenomeno migratorio, nega l’idea stessa che ogni popolo/ethnos possieda un proprio Dasein (Esser-ci) che determini il loro essere nel mondo. L’America da lui pensata come la guida dell’internazionale sovranista ha, ancora una volta, un carattere messianico. Essa rappresenta il modello da imitare ed al quale ricongiungersi.

L’idea di blocco euro-americano fondato sulla cultura giudeo-cristiana dell’Occidente è una mera finzione filosofico-politica imposta da quella religione olocaustica che ha impedito ogni forma di reale emancipazione dell’Europa e costituisce uno strumento utile a portare a compimento i suddetti interessi egemonici. A questo proposito sarà utile ricordare che la presunta ammirazione di Bannon per il pensiero evoliano è una palese contraddizione se si considera che il pensatore romano disprezzava con forza la natura plebea, semitica, ed antitradizionale del cristianesimo (almeno nei suoi primordi) e si è sempre opposto con altrettanta veemenza alla costruzione del mito delle radici giudeo-cristiane dell’Occidente. Appare dunque evidente che talune affermazioni di Steve Bannon non siano state altro che una semplice operazione pubblicitaria volta ad attirare verso le sue posizioni sprovveduti e principianti degli studi tradizionali.

Sarà altresì utile ricordare che tanto la tradizione rabbinica quanto quella patristica cristiana non hanno mai celato un certo disprezzo reciproco. Il Messia giudaico veniva assimilato dai padri della Chiesa all’Anticristo che avrebbe sovvertito l’ordine sociale edificato dal cristianesimo: “il suo avvento sarebbe coinciso con il trionfo di Israele e la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme”[12]. Una prospettiva paradossalmente sposata in pieno dal cosiddetto “sionismo cristiano” (assecondato nel XX secolo anche dal progressivo sdoganamento dell’ideologia e dell’operato dell’entità sionista in ambienti cattolici) che ha trovato un terreno fertile di coltura nello spazio geografico e culturale anglo-americano.

Dal canto suo, il messianismo giudaico non ha mai smesso di identificare la cristianità con Edom: la potenza malefica che sarà distrutta da Jahvè all’avvento dell’era messianica.

Ora, l’America si è fondata in opposizione alla tradizione culturale europea ed indoeuropea. “Essa è il paradiso dell’eterodossia, l’emanazione del mondo anglosassone e delle sue eresie escatologiche protestanti […] il meraviglioso paese dei criminali diventati giudici, il regno dei reietti trasformati in creatori di norme pubbliche”[13]. L’americanismo, tuttavia, come affermava Martin Heidegger è una variante del gigantismo, ed in quanto tale è un fenomeno che ha le sue origini nella modernità europea. Il gigantismo si fonda sulla supremazia della fisica rispetto alla metafisica e sulla profonda fiducia nel progresso illimitato della scienza meccanica e della civiltà della tecnica[14]. Questo, altro non è che la “grandiosità senz’anima” a cui faceva riferimento Julius Evola quando individuava nell’essenza dell’americanismo “la trasformazione dell’uomo in mezzo più che in scopo”[15]. Ed è di questa grandiosità che l’America cerca di riappropriarsi nella prospettiva ideologica di Steve Bannon.

La rinuncia moderna alla metafisica è l’esito inevitabile del trionfo dell’individualismo, della mentalità giudaica mercantile ed usuraia e del parassitismo sociale dei “fuori casta” che ha progressivamente distrutto i valori tradizionali indoeuropei ed il modello societario trifunzionale  (re/sacerdoti – guerrieri – lavoratori/contadini) alla loro base e perfettamente descritto dallo storico francese Georges Dumézil. Di fatto, ogni forma di pensiero individuale rappresenta già in sé una negazione dell’ordine metafisico.

Tanto a livello metafisico che religioso, l’eterodossia di una concezione, come affermava René Guénon, non è altro in fondo che la sua falsità risultante dal disaccordo con i principi fondamentali; e questa falsità è anche, nel caso più frequente, un’assurdità manifesta[16]. Le differenti vie tradizionali sono tutte (ognuna a suo modo) ortodosse e tutte rigettano apertamente l’eterodossia.

Non sorprendono dunque le evidenti affinità tra l’eterodossia nordamericana e quella saudo-wahhabita. Un distorto modello di Islam antitradizionale e anticulturale che, proprio per queste ragioni, non incontra il generale rigetto che l’ideologo Bannon nutre invece nei confronti delle forme islamiche tradizionali. L’Imam Khomeyni definiva proprio il wahhabismo come “l’Islam americano” e mai si stancava di esortare i musulmani, sunniti e sciiti, ad evitare ogni tipo di disputa. “Coloro che tentano di provocare dissidi tra i nostri fratelli sunniti e sciiti – affermava l’Imam – sono agenti provocatori delle grandi potenze e cospirano con i nemici dell’Islam e vogliono che essi trionfino sui musulmani”.

L’Iran viene attaccato da Bannon non solo per il suo strenuo ruolo antiegemonico (ruolo ulteriormente sancito dall’asse geopolitico Mosca-Teheran costruito a fondamento dell’ordine multipolare), ma anche e soprattutto perché si è reso portatore di una weltanschauung che, rifiutando l’involuzione del pensiero occidentale verso la totale de-sacralizzazione del mondo, si sforza per ristabilire il rapporto diretto tra ordine fisico e metafisico e per riappropriarsi della dimensione del sacro.

Lo stesso Khomeyni, a parziale dimostrazione dell’infondatezza della retorica dello scontro tra culture diverse, ha spesso evocato, anche in risposta agli atteggiamenti ambigui di alcuni alti rappresentanti della gerarchia ecclesiastica cattolica, il rapporto speciale che intercorre tra l’Islam e il cristianesimo ed ha spesso esortato anche i cristiani e seguire realmente gli insegnamenti del Cristo. “Il Santo Corano ha difeso Cristo e la Vergine Maria, smentendo tutte le calunnie che sono state lanciate su di lei (dai giudei). Il Santo Corano ha difeso i cristiani, le loro guide e i loro santi”[17].  L’Imam che recava il nome di Ruhollah (Spirito di Dio, epiteto che nel Corano è attribuito a Gesù) in virtù della sua profonda conoscenza dei testi sacri poteva di diritto rivolgersi ai cristiani esortandoli a seguire l’esempio del Cristo. Tuttavia, come sottolineato da Claudio Mutti, il Cristo di Khomeyni non corrisponde all’immagine dolciastra e moraleggiante imposta dalle perversione eterodossa protestante. Il Cristo evocato da Khomeyni è quello che esorta a vendere il mantello per comprare una spada (Luca 22, 36) e che si scaglia contro i profanatori del Tempio[18].

Non sorprende nemmeno che Bannon abbia inserito la Turchia, paese membro della NATO, nella lista dei nemici dichiarati del mondo euro-americano[19]. Già Huntington individuava nella Turchia una potenziale minaccia qualora avesse deciso consapevolmente di porsi a capo di una comunità di nazioni affini assumendo inoltre il ruolo di guida del mondo islamico sunnita. Le oscillazioni dell’attuale governo turco tra il ruolo di pivot geopolitico eurasiatico e le rimanenti tentazioni sub-imperialiste funzionali agli interessi nordatlantici nella regione del Vicino Oriente lasciano ancora il beneficio del dubbio sull’affermazione dell’ideologo nordamericano. Tuttavia è palese che Bannon, pur di sostenere la sua tesi, ignori un dato di fatto lapalissiano: la Turchia è Europa. Alla pari della Russia, la Turchia è Europa ed Asia allo stesso tempo. Fin dall’antichità storici e geografi segnavano i confini dell’Europa intorno al massiccio caucasico. Erodoto li individuava lungo il fiume Fasi nei pressi dell’odierno porto georgiano di Batumi[20].

L’Impero Ottomano era un’entità geopolitica perfettamente inserita in quel sistema di relazioni internazionali europee che in taluni casi, secondo il motto di Von Clausewitz, prevedeva anche la guerra come continuazione della politica con altri mezzi.

Il sultano venne riconosciuto dallo stesso Papa Pio II come “signore dei romei” e secondo il grande storico rumeno Nicolae Iorga l’Impero poteva essere considerato come l’ultima ipostasi di Roma: una nuova Bisanzio capace di rimpiazzare politicamente e sotto certi aspetti anche spiritualmente la vecchia Bisanzio[21]. Ed anche sotto l’aspetto etnico la componente autoctona indoeuropea si andò a fondere con l’elemento turanico, tanto che si può parlare dell’attuale popolazione della Turchia come di “europidi purissimi” passati col tempo all’uso di una lingua turca. Anche i sultani ottomani, col passare degli anni, furono sempre più “europei” visto che le loro madri erano greche, slave o veneziane. E la stessa burocrazia, così come il corpo militare scelto dei giannizzeri, era costituita in larga parte da europei[22].

Negare alla Turchia la sua essenza europea significa in primo luogo negare la storia stessa degli ultimi dieci secoli. Farlo utilizzando come discriminante la religione o le aspirazioni autoritarie di Erdogan è ancora più ridicolo se si considera che l’Islam è presente in Europa sin dall’VIII secolo d.C. e che Ungheria e Polonia hanno operato revisioni costituzionali di matrice autoritaria ben prima di quella turca dell’aprile 2017.

Potrebbe, a prima vista, sembrare inedito per un ideologo nordamericano il considerare la Russia come un alleato del blocco euro-americano al quale essa “appartiene naturalmente”. Ma, anche in questo caso, Bannon non sembra dimostrare una particolare originalità e si limita a riformulare il concetto di “Eurosiberia”, elaborato dal già citato Guillaume Faye, allargandolo all’America del Nord e ponendovi al centro come forza propulsiva e vitale non la Russia ma proprio gli Stati Uniti.

Il concetto geopolitico di “Eurosiberia” si oppone naturalmente alla prospettiva eurasiatica. L’idea di Faye nasce dalla constatazione dello stato di emergenza in cui versa il continente europeo sottoposto al tentativo di una presunta nuova conquista islamica. Solo l’unità della Russia con l’Europa peninsulare può porre un argine alla minaccia che avvolge il destino della razza bianca[23]. Qui lo scontro di civiltà di Huntington assume i contorni del confronto tra la razza bianca e le altre. L’Eurosiberia, secondo il teorico belga Robert Steuckers fondatore di Synergies Européennes, sarebbe una sorta di “gigantesco riccio” intoccabile che al contempo non tocca nessuno: un’entità imperiale etnicamente omogenea e perfettamente autarchica. Ovviamente, tale entità non dovrebbe essere né pro-americana né anti-americana. Tuttavia, Faye ammette che l’Eurosiberia dovrebbe guardare all’America come un alleato naturale in quanto aperta ad accogliere le istanze di tutte le persone di razza bianca che si oppongono al loro nemico principale: ancora una volta l’Islam. L’assenza di lucidità di Faye non si è limitata all’ambito geopolitico. In uno dei suoi scritti più famosi, Archeofuturismo, afferma: “Bisogna riconciliare Evola e Marinetti […] riprendere il pensiero organico di Friederich Nietzsche e Martin Heidegger; pensare insieme la tecno-scienza e la comunità immemorabile della tradizione […] Pensare l’uomo europeo come il più audace, il futurista e l’essere di lunga memoria”[24].

Ora, senza entrare nel merito del pensiero heideggeriano che si sviluppò in evidente contrasto con la civiltà della tecnica osannata da Faye, sulla necessità di riconciliare Evola e Marinetti basterà ricordare come proprio Evola riscontrasse nel futurismo l’essenza dell’americanismo: “Questo (il futurismo) esprime una tendenza verso il non umano che non sbocca nel superuomo nietzschiano ma nella macchina, nell’uomo meccanizzato, animalizzato ed americanizzato”[25].

Inoltre, sorvolando sul fatto che l’idea di un impero etnicamente omogeneo rappresenta una contraddizione in termini visto che l’impero è per sua natura multietnico e multireligioso, appare evidente che tanto Faye ed i suoi adepti quanto Bannon negano sia il ruolo geopolitico che la Russia sta svolgendo nel consolidamento dell’ordine multipolare sia lo specifico processo di evoluzione che ha portato allo sviluppo di quello che lo storico e antropologo sovietico Lev N. Gumilëv chiamava il superethnos russo. Un processo in cui sia l’Islam che l’influenza turanica hanno svolto un ruolo determinante e che trova un fondamentale riferimento ideologico nel precursore dell’eurasiatismo Konstantin Leont’ev, che già sul finire del XIX secolo indicava in una potenziale alleanza tra cristianità ortodossa ed Islam (due tradizioni che hanno legittimamente ereditato le forme essenziali dell’insieme delle tradizioni eurasiatiche) una barriera capace di arginare il fenomeno nichilistico e disgregatore proprio della mentalità occidentale. Scriveva Leont’ev: “Per noi russi è più conveniente una fusione con i popoli asiatici e di religione non cristiana per il semplice fatto che tra di essi non è ancora irrimediabilmente penetrato il moderno spirito europeo”[26].

Una prospettiva fatta propria ed attualizzata in tempi recenti da importanti personalità della cultura russa come il neoeurasiatista Aleksandr Dugin o il filosofo musulmano di origine azera Gejdar Dzemal’, deceduto nel 2016.

Riprendendo il discorso geopolitico e con particolare riferimento alla crisi siriana, si è spesso tentato di mettere in discussione il ruolo della Russia minimizzando la portata geopolitica del suo intervento al fianco dell’Asse della Resistenza e sottolineando, tramite una massiccia propaganda mediatica, una presunta comunione di intenti con l’entità sionista o quantomeno un’eccessiva mole di comunicazioni dirette tra Mosca e Tel Aviv, anche col preciso scopo di mettere in crisi l’alleanza con Teheran. A questo proposito è utile sottolineare che la Russia, riconoscendo l’interesse sionista alla sicurezza, semplicemente si pone come garante dell’ordine nel Vicino Oriente rifiutando ogni ulteriore destabilizzazione dell’area (anche da parte israeliana)[27] che potrebbe inevitabilmente compromettere i suoi interessi. Su tutti la realizzazione di un futuristico gasdotto che partendo dalla regione di Krasnojarsk convoglierà verso Ovest, coinvolgendo Iran, Turchia e Siria, oltre 60 miliardi di m³ di gas sulle coste orientali del Mediterraneo. Progetto in evidente contrasto con quello East-Med volto allo sfruttamento dei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale che rischia di sfociare nell’ennesimo casus belli tra Israele e Libano[28].

Russia e Israele, in Siria, rimangono sulle sponde opposte del fronte. E le dichiarazioni del diplomatico russo Leonid Frolov, riportate dal giornale sionista Times of Israel, su un presunto appoggio di Mosca ad Israele in caso di attacco iraniano[29], sono abbastanza eloquenti se si considera che l’Iran, dal 1979 ad oggi, al contrario proprio dell’entità sionista, non ha mai aggredito nessuno ma è stato spesso vittima di aggressioni. Dunque l’interesse alla sicurezza di Israele viene semplicemente subordinato al rispetto da parte di quest’ultimo degli interessi geopolitici russi nella regione.

Non resta che esaminare un’altra affermazione emblematica che Steve Bannon ha rilasciato alle platee europee variamente adulanti: l’idea che Pechino, Ankara e Teheran stiano rispettivamente aggredendo l’Occidente nel Mar della Cina, nel Golfo Persico e nel Mediterraneo. A prima vista, l’idea di una Cina che aggredisce l’Occidente nel Mar della Cina appare come un controsenso. Tuttavia, è la più evidente dimostrazione che Bannon non sta facendo altro che riproporre i classici schemi egemonici del pensiero geopolitico nordamericano.

Carl Schmitt ricordava come l’ordine mondiale imposto dalle moderne talassocrazie oceaniche si opponga al concetto di terra come madre del diritto. A differenza del diritto terraneo, fondato sull’unità di ordinamento e localizzazione, il diritto nel mare è associato ad una funzione: quella della sicurezza. “Il dominio sul mare si esercita attraverso il suo controllo. L’applicazione del principio di sicurezza renderà per sempre evanescente ogni limes. Per le talassocrazie moderne non esisteranno più confini, ma soltanto fasce di sicurezza o frontiere mobili da spostare conformemente alle necessità egemoniche”[30]. Di fatto, per una potenza talassocratica come gli Stati Uniti, le frontiere si trovano sulle sponde opposte: ovvero lungo il rimland eurasiatico e, assunto come un dato di fatto l’occupazione coloniale del suolo europeo peninsulare, ai confini occidentali della Russia. Dunque, non considerando i confini ma le fasce di sicurezza, è normale che ogni tentativo di violare il controllo talassocratico nordamericano sulla fascia costiera dell’Eurasia, venga percepito dagli USA come un’aggressione.

Non è un caso se tutta la brutalità della macchina da guerra occidentale, attraverso l’alleato saudita, si stia rovesciando sullo Yemen che di questa fascia costiera rappresenta uno snodo cruciale. E non è un caso se proprio Bannon abbia indicato l’ambasciatrice statunitense all’ONU (quella Nikki Haley che presentò un rottame ferroso come prova inconfutabile della fornitura iraniana di missili balistici ai ribelli Houthi) come la più promettente leader politica americana.

Preso atto della subalternità mentale e culturale con la quale i leader “sovranisti” europei si sono rapportati al nuovo americanismo propugnato da Bannon, non resta che assumere la prospettiva eurasiatica come visione speciale del mondo realmente alternativa ad un Occidente, egemonizzato dall’eterodossia nordamericana, che continua imperterrito a cercare di imporre le sue norme e i suoi criteri all’umanità intera.


NOTE

[1]C. Mutti, L’America non si isolerà, Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici, I/2017.

[2]C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, Edizioni Adelphi, Milano 1991, p. 381.

[3]L’America non si isolerà, ivi cit.

[4]L. Savin, Russia e multipolarità, su www.geopolitica.ru.

[5]Ibidem.

[6]A. Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’impero del bene, Feltrinelli, Milano 2004, p. 14.

[7]J. Morgan, Alt Right versus New Right, su www.counter-currents.com.

[8]E. Galoppini, Israelizzazione delle società europee e compattamento del fronte occidentale, su www.ildiscrimine.com.

[9]Provvedimento dell’amministrazione Trump che ha posto un blocco all’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana (Somalia, Sudan, Iran, Iraq, Siria, Yemen e Libia). Curiosamente non rientrano nelle lista Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti: paesi di origine di 16 dei 19 attentatori dell’11 settembre 2001.

[10]Kate M. Greenhill, Weapons of Mass Migration. Forced Displacement, Coercion and Foreign Policy, Cornell University Press, Ithaca 2010, p. 13.

[11]C. Mutti, Migrazioni o invasioni?, Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici, IV/ 2016.

[12]G. P. Mattogno, L’imperialismo ebraico nelle fonti della tradizione rabbinica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2009, p. 10.

[13]A. Dugin, L’isola del tramonto, in Russia Segreta, Edizioni all’insegna del Veltro – Collana Elettrolibri, Parma 2004.

[14]M. Heidegger, Holzwege – Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2014, p. 223.

[15]J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 425.

[16]R. Guénon, Ortodossia ed eterodossia, in Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Edizioni Adelphi, Milano 1989, p. 153.

[17]R. Khomeyni, Lettera al Papa, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1980, p. 11.

[18]C. Mutti, Le lettere dell’Imam Khomeyni a Wojtyla ed a Gorbaciov, su www.eurasia-rivista.com.

[19]Non è un caso se con l’esercitazione missilistica Artemis Strike, svoltasi a Creta nel novembre dello scorso anno e diretta contro un ipotetico nemico ad Oriente, la Turchia si sia trasformata in un potenziale avversario della NATO. Cosa confermata dalle successive esercitazioni in Norvegia (Operazione Trident Javelin) in cui Ataturk ed Erdogan venivano posti come bersaglio nelle prove di tiro dei militari.

[20]C. Mutti, Il lupo grigio al bivio, Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici, II/2013.

[21]Si veda a questo proposito N. Iorga, Bisanzio dopo Bisanzio, Argo Editrice, Lecce 2017.

[22]Il lupo grigio al bivio, ivi cit.

[23]G. Faye, The geopolitics of ethnopolitics: the new concept of Eurosiberia, testo presentato alla conferenza “Il futuro del mondo bianco”, Mosca 8-10 giugno 2006.

[24]G. Faye, Archeofuturismo, SEB, Cusano Milanino 2000, p 82.

[25]J. Evola, Simboli della degenerescenza moderna: il futurismo, in La Torre, numero VI 1930. Fonte www.rigenerazionevola.it.

[26]K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1987, p. 142.

[27]A dimostrazione di ciò si consideri il fatto che la Russia, attraverso l’interconnessione tecnica tra i sistemi di ricognizione aerea russi e siriani, ha messo in aperta discussione la superiorità aerea israeliana nella regione.

[28]Di fatto, Israele rivendica diritti esclusivi su  tutto il gas del Mediterraneo orientale attraverso il già sperimentato metodo di arrotondare per eccesso, con un abuso del concetto geopolitico di “fascia di sicurezza”, la delimitazione dei propri confini. Così giacimenti di gas nelle acque territoriali libanesi diventano oggetto di disputa mentre ai palestinesi è impedito lo sfruttamento dei giacimenti Gaza Marine 1 e 2 al largo delle coste della Striscia.

[29]Russian official: If Iran attacks Israel we will stand with you, intervista di Raphael Ahren su www.timesofisrael.com.

[30]Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del paese, su www.eurasia-rivista.com.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).