Dopo il sostanziale tradimento delle istanze antisistemiche nel corso del primo esperimento trumpista (l’amministrazione del tycoon newyorkese si è mossa in pressoché totale continuità con i suoi predecessori sul piano geopolitico e, sotto certo aspetti, ha preparato il terreno al suo successore), la macchina della propaganda si è vista costretta a fornire una nuova “verginità” al messaggio del candidato repubblicano. Questa volta, liberato dall’afflato pseudoreligioso “à la QAnon” (operazione psicologica comunque di indubbio successo, vista la presa avuta anche in ampi settori della destra e di parte della sinistra europee), il messaggio trumpista sembra essere indirizzato su binari decisamente più pragmatici, puntando ad una forma di tecno-mercantilismo postmoderno che affascina (non poco) le correnti prometeiche delle destre occidentali così come  certi esponenti dell’ultracapitalismo globalizzato.

 

In un articolo apparso sul suo sito informatico graymirror.substrack.com sotto l’emblematico titolo Gaza and the laws of war, l’ex programmatore informatico della Silicon Valley (ed oggi attivista politico-ideologico) Curtis Yarvin sostiene la necessità che Israele venga lasciato completamente libero di agire (come meglio crede) nella striscia di territorio palestinese. All’IDF dovrebbero essere attribuiti gli stessi poteri di cui godevano i Britannici sulla Palestina mandataria (compreso quello di trasferire in massa parti della sua popolazione). Questo, a suo parere, sarebbe l’unico modo per porre termine in tempi relativamente brevi ad un conflitto che pesa direttamente sulle spalle dei contribuenti americani[1]. In fin dei conti, il prezzo da pagare per il popolo palestinese sarebbe solo quello di qualche “passaggio di proprietà” a nuovi coloni sionisti. Così facendo, la “New Gaza” costruita dall’imprenditore ebreo-americano Jared Kushner (genero di Donald J. Trump) diventerebbe una sorta di “Los Angeles del Mediterraneo”: “una città che varrebbe sei trilioni di dollari” e che renderebbe milionari gli stessi palestinesi (sic!). Infatti, tutti quelli che accettano volontariamente di abbandonare le proprie case sul lungo mare (un “very valuable waterfront” proprio secondo Kushner) verrebbero ricompensati e potrebbero finalmente trasferirsi in massa a Dubai[2].

A questo scopo, Yarvin non si limita a dare una lettura del conflitto in termini puramente monetari, in termini di flusso di capitali prima di tutto (cosa, tra l’altro, non particolarmente originale da parte di un “pensatore” statunitense), ma si inoltra anche in questioni relative alla tattica militare, esprimendo il suo entusiasmo per la cosiddetta “dottrina Dahiya” dell’esercito israeliano. Questa, elaborata dal generale Gazi Eisenkot nei primi anni 2000, prevede la distruzione sistematica di tutte le infrastrutture civili (scuole, ospedali, centri ricreativi e così via) che in qualche modo si possano ricollegare ai gruppi della Resistenza (Hamas e Hezbollah in primo luogo). Tale “dottrina” è stata utilizzata, con scarso successo ad onor del vero, nel corso della “guerra dei 33 giorni” in Libano del 2006). Mirando direttamente alle infrastrutture civili, l’obiettivo sarebbe quello di porre il nemico sotto pressione e fare in modo che i civili superstiti si diano alla fuga per poter, successivamente, attaccare il medesimo obiettivo (e quelli militari vicini) con forza anche maggiore. Dunque, la “dottrina Dahiya” è intrinsecamente legata all’idea dell’uso “sproporzionato della forza” sul quale si fonda larga parte della strategia militare sionista odierna.

Le idee di Yarvin riecheggiano quelle presentate da J.D. Vance (il senatore dell’Ohio scelto da Donald J. Trump come suo vice nella corsa al suo secondo mandato presidenziale). Proprio Vance, infatti, lo scorso luglio ebbe modo di affermare che Israele dovrebbe porre fine rapidamente al conflitto nella Striscia di Gaza per potersi concentrare (insieme con le monarchie sunnite compartecipi dei cosiddetti “Accordi di Abramo”) contro la minaccia iraniana[3].

A questo proposito, appare curioso notare come tra i principali riferimenti ideologici dello stesso Vance faccia la sua comparsa il giornalista Sohrab Ahmari (già redattore del Wall Street Journal). Questi, figlio di iraniani secolarizzati ed anti-khomeinisti, immigrato negli Stati Uniti ancora adolescente, ebbe modo dapprima di aderire ad alcuni gruppi trotzkisti per poi passare armi e bagagli nel campo neoconservatore. (Dopo tutto, si tratta della stessa identica traiettoria del padre ideologico del neoconservatorismo, l’ebreo americano Irving Kristol, che da posizioni trotzkiste, nei primi anni ’60 del secolo scorso, iniziò ad elaborare le tesi neocon su alcune riviste legate alla comunità ebraica nordamericana. Sempre Ahmari, dopo aver votato per Hillary Clinton nel 2016, ha optato per un deciso cambio di rotta, individuando in Donald J. Trump l’unica speranza per salvare l’egemonia globale nordamericana[4].

Quindi, non sorprende che un altro dei riferimenti ideologici di J.D. Vance sia quel Patrick Deneen che ha teorizzato un “ordine globale americano postliberale”: ovvero, un ordine che non superi l’egemonia globale nordamericana (lo stesso Donald J. Trump ha sostenuto la necessità di imporre pesanti tariffe – come vere e proprie armi – contro coloro i quali non usano il dollaro come moneta di riferimento per gli scambi internazionali)[5] ma che semplicemente la reimposti su nuovi binari.

Sembra che Yarvin abbia avuto una notevole influenza sulla particolare “visione del mondo” di Vance. Dunque, il suo “pensiero” merita un breve approfondimento. Discendente da una famiglia di ebrei comunisti (per parte di padre), Yarvin ama definirsi “ebreo comunista”[6], nonostante venga considerato a “pieno diritto” come padre teorico delle correnti neoreazionarie e del cosiddetto “illuminismo oscuro”. Centrale nel pensiero di Yarvin è il concetto di “monarchia profonda” (deep monarchy) che si oppone direttamente a quello di “Stato profondo” (il celeberrimo “deep State”). Secondo l’ex programmatore informatico l’odierna democrazia liberale non ha più alcun senso, essendosi trasformata di fatto in una forma di oligarchia (e sin qui difficilmente si potrebbe dargli torto). Questo modello, a suo sentire, dovrebbe essere superato in primo luogo attraverso una forma di commissariamento da parte di un “amministratore delegato” (un “CEO”, Yarvin utilizza sempre termini “aziendali”) che svolga a tutti gli effetti il ruolo di “dittatore” e che faccia piazza pulita dei residui dello “Stato profondo” (questo dovrebbe essere il compito di Donald J. Trump, personalità dalle indubbie capacità imprenditoriali). In secondo luogo, il “dittatore-CEO” dovrebbe lasciare il posto o assumere egli stesso il ruolo di monarca e dare vita ad una monarchia postmoderna (priva di designazione divina) che si comporti come una “azienda/società dotata di sovranità”, fondata su una sorta di “cameratismo tecno-aziendale”, e volta a massimizzare i profitti e le proprie risorse.

Ora, pare opportuno sottolineare alcuni punti. In prima istanza, il successo che il pensiero di Yarvin riscuote nelle destre occidentali (e/o “occidentalizzate”) è in parte anche frutto di un inevitabile errore di traduzione che porta molti “sprovveduti” ad associare al termine inglese “corporations” il corporativismo di impronta europeo-medievale o, addirittura, quello fascista. In realtà Yarvin, per sua stessa ammissione, lo utilizza col semplice significato di società/azienda. E non ha nessun problema ad autodefinirsi come un “austro-mercantilista” seguace di Ludwig von Mises (legato, dunque, alle premesse teoriche di quella scuola austriaca che, con il suo individualismo metodologico, rappresenta – col contrattualismo, lo scetticismo e l’utilitarismo – una delle quattro correnti teoriche del liberalismo economico). Ne consegue che il suo “disegno monarchico”, al quale si collega l’idea di “illuminismo oscuro”, in realtà voglia semplicemente dare una struttura autocratica al suddetto liberalismo economico: una specie di “capitalismo assoluto” garantito dal “sovrano aziendale”. In secondo luogo, la sua visione monarchico-societario-finanziaria, sebbene priva di afflato religioso, non sembra affatto dissimile dal messianico “Regno di Israele”; un regno che la stessa dottrina rabbinica vuole come puramente terreno. Non a caso Yarvin, pur dichiarando di non credere in Dio ma solo nella fisica (qui si ritrova un’idea che Carl Schmitt aveva associato sia al liberalismo sia al marxismo-leninismo: ridurre il governo ad una forma di scienza esatta, affidata a specialisti selezionati altrettanto scientificamente), si riconosce nei precetti dell’ortodossia giudaica che impongono di “ascoltare e fare”. In essa, infatti, il punto focale non è credere in Dio, non è la fede, ma semplicemente l’esecuzione delle azioni richieste (anche se prevedono lo sterminio di gente inerme).

In terzo luogo, appare piuttosto complesso associare i concetti propri dell’individualismo metodologico della scuola austriaca a forme di “cameratismo” (sebbene declinato in termini aziendali), di corporativismo o di collettivismo, anche se Yarvin sostiene che “massimizzare i profitti e le risorse” della “monarchia/società” equivale a garantire il “bene comune”.

Infine, si rende necessario aprire una breve parentesi sul concetto di “illuminismo oscuro”, che richiama, in qualche modo, l’idea del “Sole Nero” delle himmleriane SS, per quanto privato totalmente del suo messaggio spirituale. Alla teoria astronomica del Sole Nero (ovvero, dell’esistenza di una stella rossobruna collassata e di piccole dimensioni che saltuariamente perturba il sistema solare) in alcuni circoli tedeschi venne associato un significato mistico-esoterico che la connetteva alla presenza/assenza di un Dio nascosto, deposto e detronizzato. Esempi simili si possono ritrovare in diverse civiltà tradizionali: l’Atum egiziano, il padre degli dèi dell’Antico Regno, divenuto sole del mondo sotterraneo per effetto dell’avvento di Ra (il “sole di mezzogiorno”); il titano Kronos/Saturno spodestato dal figlio Zeus/Giove; Apollo, che gli studi dell’SS Otto Rahn associavano all’Apollyon dell’Apocalisse di San Giovanni e, dunque, a Lucifero (l’Angelo Caduto, il Principe delle Tenebre)[7].

Già Mircea Eliade aveva sottolineato l’esistenza, nelle civiltà tradizionali dell’Eurasia, di una grande varietà di miti, riti e simboli che implicano più o meno chiaramente la coincidentia oppositorum, la presenza di due divinità opposte o, addirittura, la parentela tra il Dio supremo ed il suo rivale (il Diavolo). Questi venivano spesso presentati come coeterni, mentre in altri casi Dio appariva incapace di portare a termine la creazione senza l’aiuto del Diavolo[8].

In questo senso, il luciferismo andrebbe inteso come una sorta di sentimento di rivalsa di un Dio spodestato; un capovolgimento dei valori religiosi tradizionali in nome del ritorno al mito primigenio. È la rivincita del titanismo sugli dèi olimpici; la rivincita dell’Angelo Caduto sul Dio supremo. Non a caso, l’ideologa del movimento azovita ucraino Olena Semenyaka (movimento ideologico-militare che pur in qualità di “utile idiota” dell’atlantismo si richiama simbolicamente a vario modo all’esperienza delle SS), sulla base di un’interpretazione impropria del pensiero nietzschiano, ha spesso parlato di “volontà di potenza luciferina” come “sentimento metafisico di libertà assoluta” e come strumento ideologico di opposizione ai modelli valoriali dominanti nelle società occidentali odierne.

Il problema fondamentale di simili costruzioni ideologiche è determinato dal fatto che falliscono nel comprendere che il “luciferismo elitario” difficilmente può sconfiggere una costruzione societaria che già nelle sue fondamenta è “luciferina”. In altre parole, si tratta di una mera contraddizione in termini.

Di fatto, parafrasando ancora una volta Schmitt, la Modernità stessa si è costruita attorno ad un “cambio di paradigma”: il dominio centrale della società premoderna (la religione) è stato sostituito da un dominio periferico; quello della tecnica che si è rapidamente trasformato in religione. Una religione costruita sul presupposto che ogni problema verrà risolto dalla tecnica e dal progresso infinito. Dunque, appare quanto meno difficile auspicare una nuova affermazione del titanismo quando questa, in realtà, si è già verificata.

In questo senso, Yarvin ha il “merito” di non ricorrere al mito. Sa perfettamente che il Dio della Modernità è l’illuminismo nella sua versione/corrente tecnico-scientifica. Ad esso non oppone “l’inversione dei suoi valori” ma semplicemente una sua accelerazione assolutista. Il suo pensiero, di conseguenza, è (giustamente?) definito “neoreazionario”, nella misura in cui non è per nulla reazionario, ma assai “progressista”; così come i “neofascisti” o i “neonazisti” odierni non sono minimamente né “fascisti” né “nazisti”.

La sua “monarchia profonda”, come già accennato, si risolve semplicemente nell’affermazione utopica di un “Nuovo Regno di Israele” ultrameccanizzato e fondato sul dominio del tecnologicamente più avanzato sugli altri. Ancora una volta, niente di particolarmente originale nell’ambito del pensiero nordamericano.

Si è detto che esso non è reazionario ma assolutamente “progressista” anche perché Yarvin si è dichiarato a favore del diritto delle persone dello stesso sesso a contrarre matrimonio fra loro. Tra i finanziatori della sua “startup” informatica Tlon, infatti, c’è Peter Thiel, noto investitore nordamericano del settore, convinto cristiano-evangelico sebbene omosessuale dichiarato, nonché membro attivo del Gruppo Bilderberg, avanguardia atlantista fondata da CIA ed MI6. Lo stesso Yarvin avrebbe dichiarato ad un’altra personalità legata alla cosiddetta “destra alternativa”, l’attivista Milo Yiannopoulos (anch’egli omosessuale dichiarato, già noto per aver dichiarato che le avventure amorose tra adolescenti ed adulti possono essere un’esperienza reciprocamente vantaggiosa)[9], che Thiel, assertore della liberazione della tecnologia dai vincoli burocratico-governativi che la imbavagliano, sarebbe stato un suo discepolo. Va da sé che proprio Thiel è stato il principale finanziatore della campagna elettorale di J.D. Vance nel 2022.

A questo punto non resta che esaminare l’ambito squisitamente geopolitico. In questo campo, Yarvin lascia intendere più che affermare. In lui non si ritrovano i rimandi del primo trumpismo bannoniano allo “scontro tra civiltà”; al pericolo rappresentato per l’egemonia USA dall’alleanza islamico-confuciana e dall’unificazione dello spazio che dall’Europa centro-orientale arriva fino alla Cina. Tuttavia la sua interpretazione del conflitto in Ucraina è abbastanza interessante. Esso viene definito come un “conflitto cinetico”, nel senso che il suo esito finale dipende esclusivamente dall’azione umana e, in quanto tale, può terminare in modi diametralmente opposti[10]. Bene, Yarvin sostiene che dall’esito di tale conflitto si stabilirà il futuro dell’America; se essa persisterà nella sua parabola declinante (nella quale l’ha condotta il nazionalismo liberale democratico) o si trasformerà in “TurboAmerica”: una potenza capace di guidare il mondo su nuovi presupposti.

Qui entrano in gioco i presupposti “isolazionisti” classici di certo trumpismo. Secondo Yarvin, gli Stati Uniti dovrebbero comportarsi nei confronti dell’Europa nello stesso modo in cui la Gran Bretagna si comportò nei confronti delle Americhe nei primi decenni del XIX secolo. A suo modo di vedere, infatti, i Britannici furono i veri fautori della cosiddetta “dottrina Monroe”. Questa era del tutto funzionale agli interessi di Sua Maestà, perché, in un momento in cui Londra godeva ancora dell’egemonia talassocratica assoluta, sanciva l’impossibilità per la Corona di Spagna di riappropriarsi del suo “impero”. Allo stesso modo, una corretta sistemazione del conflitto in Ucraina (da intendersi nel senso di scaricarne le spese sull’Europa assicurandosi comunque che Putin venga reso incapace di nuocere agli interessi USA) potrebbe garantire agli Stati Uniti ancora un secolo (se non oltre) di dominio globale incontrastato.


NOTE

[1]Si veda Gaza and the laws of war, 3 aprile 2024, www.graymirror.substrack.com.

[2]Ibidem.

[3]Si veda Vance: Israel should finish war as quickly as possible, partner sunni states against Iran, 16 luglio 2024, www.timesofisrael.com.

[4]Si veda The seven thinkers and groups that have shaped JD Vance’s unusual worldview, 18 luglio 2024, www.politico.com.

[5]Si veda Trump wants huge tariff for dollar defectors, fewer US sanctions, 13 settembre 2024, www.bloomberg.com.

[6]Si veda Interview with Curtis Yarvin, 15 novembre 2023, www.maxraskin.com.

[7]M. Zagni, La svastica e la runa. Cultura ed esoterismo nella SS Ahnenerbe, Mursia, Milano 2011, p. 385.

[8]M. Eliade, Mefistofele e l’Androgine, Roma 1971, p. 77. 

[9]Si veda Yiannopoulos quits Breitbart, apologies for uproar year-old comment, 21 febbraio 2017, www.nbcnews.com.

[10]Si veda Ukraine, the tomb of liberal nationalism, 15 febbraio 2024, www.graymirror.substrack.com.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.


 

Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).