Le opere dell’uomo sono sempre state simboliche. Ma ancor più, spesso, sono valsi, per farle entrare nella storia, la loro preminenza immaginifica, il loro peso estetico, la loro monumentalità.
La ferrovia, come arteria dell’umano, spesso risale la corrente della modernità, richiama momenti poetici. Prima di Guccini c’era stato Stendhal. Ancora prima dello scrittore francese era stato Giosue Carducci a modanare una storia ferroviaria, dedicando al frutto dell’uomo una poesia delle Odi Barbare del 1887. La ferrovia è viaggio, trait d’union tra cose necessariamente diverse, e quest’opera umana, ottocentesca per elezione, arriva ad unire due imperi, due manifestazioni dell’essere politico.
I due imperi in questione sono quello guglielmino e quello ottomano. Il progetto della Berlino-Baghdad nasce da un preciso impegno strategico tedesco finalizzato a spezzare l’unità geopolitica dell’impero britannico e mietere dividendi dove fosse possibile nelle terre sciite del Vicino Oriente.
Questa convinzione, maturata nell’ambito militare prussiano, affonda le sue radici nelle opere del professor Karl Haushofer. L’insigne studioso tedesco aveva già individuato, negli anni Dieci del ‘900, il leit-motiv che avrebbe condotto il valzer geopolitico del suo futuro prossimo. Ripartendo da Halford Mackinder, Haushofer indicava chiaramente nel fronte composto da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna la controparte talassocratica che si sarebbe opposta alla massa tellurocratica eurasiatica. Prima di qualsiasi unità eurasiatica, contemporanea o futura, Haushofer ne auspicava l’unione, come naturale coagulo metastorico per opporsi validamente agli alfieri marittimi del sistema cosmopolita del libero mercato internazionale.
In questo senso la Berlino-Baghdad, iniziata nel 1903 e conclusasi nel 1940, è la prova della visionarietà propositiva dell’accademico tedesco. Prima ancora che un progetto eurasiatico essa è il tentativo dell’Impero Tedesco di delimitare una sua zona di influenza nel Vicino Oriente. Nel 1903, quando i lavori iniziano, l’Impero Ottomano è ancora sommamente integro, e anche se ormai la longa manus di francesi e inglesi aveva strappato alla Sublime Porta l’Egitto (De Facto 1882) e la Tunisia (1878-1881), l’influenza turca continuava a permeare, in quanto unica guida credibile, il mondo musulmano. Logico quindi che Guglielmo II dialogasse con Istanbul alla pari, senza interferenze negli affari interni. Dove infatti inglesi e francesi approfittavano della crisi endemica che attanagliava Istanbul, Berlino cercò sempre il dialogo come attore responsabile e rispettoso dell’interlocutore.
Né la Berlino-Baghdad fu un caso isolato, citando gli esempi del dialogo internazionale tra il mondo tedesco e l’Impero Ottomano. Come ricorda Bernard Lewis nel suo Le origini della rabbia musulmana, «un altro esempio, un po’ più tardo, è quello del prussiano Helmut Von Moltke, nome famoso nella storia militare del suo paese, che nel 1835, da giovane ufficiale, si recò in Turchia in visita privata e fu incaricato dal Sultano di aiutarlo a riorganizzare l’esercito ottomano»1. E ancora: «Un esempio più recente, di nuovo tedesco, è Liman Von Sanders, generale di cavalleria che durante la prima guerra mondiale comandò le forze tedesche e, per qualche tempo, anche una parte dell’esercito ottomano»2.
È quindi chiaro come il dialogo tra queste due potenze, condensatrici di forza nei rispettivi campi geopolitici, sia stato continuo e fruttuoso. Pure negli anni della contrapposizione tra Cristianità e Islam Azim Efendi, ambasciatore ottomano, poteva andare in visita a Berlino (1790). D’altronde i due imperi si sono sempre sentiti parte di una più alta missione morale. Sbagliato o giusto che sia, i tedeschi si sono sempre sentiti campioni incompresi dell’Europa storica e i turchi hanno sempre dipinto sé stessi come fautori dell’unico vero impero musulmano quale foriero di un Islam vincente.
In termini odierni, il progetto tedesco fu quanto di più lontano dalla nozione di “colonizzazione economica”. Gli oneri di pagamento furono accollati quasi tutti alla Germania, che ottenne in cambio contratti di allocazione su quelle tratte. Per la Turchia il progetto costituì una grossa innovazione, che permise all’Impero Ottomano prima e alla Turchia kemalista poi, di catalizzare quella proiezione di potenza che ancora restava a sua disposizione (attraverso questa linea furono mobilitati i soldati dell’Emirato del Jebel Shammar). Fu anche attraverso questa opera monumentale che si diffuse ampiamente tra la cultura ottomana e postottomana l’influenza alto-culturale tedesca. Come ricorda ancora Lewis, «la filosofia tedesca, in particolare quella pedagogica, diventò di gran moda tra gli arabi e altri intellettuali musulmani negli anni 30 e 40, e l’atteggiamento antiamericano era parte del messaggio»3. Parte della storia sono anche le immagini del Muftì di Gerusalemme che stringe la mano delle SS nell’ambito di un’alleanza antibritannica e alcune mobilitazioni filotedesche in Iraq e in Iran negli anni della Seconda Guerra Mondiale, a dimostrazione di una unità d’intenti tra il mondo musulmano e quello tedesco che forse travalicava la tattica delle alleanze.
È opportuno tornare a Karl Haushofer che dimostra chiaramente di aver individuato, già a suo tempo, la sostanza reale alla base della comunanza tra “Ottomani” (in senso lato) e Tedeschi. Entrambi questi popoli, fautori nei secoli delle più disparate e caratteristiche forme statuali e storiche, si trovano su due linee di frattura dell’unità continentale. Dove queste faglie si scontrano con la massa africana e mediterranea sorge Istanbul. Dove l’Eurasia incontra la massa occidentale e pienamente anglosassone, sorge Berlino.
Note
1. B. Lewis, Le origini della rabbia musulmana, Mondadori, Milano, 2009 (©2004), p. 175.
2. Ibidem.
3. Ibidem, p. 309.
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