Nunzio Panzarella
Con l’avvicinarsi di Luglio sembra di nuovo apparire lo spettro della proroga, da parte dell’UE, delle sanzioni economiche ai danni della Federazione Russa.
Come si può leggere su “Milano Finanza” del 20 maggio 2016, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, prima del vertice di Varsavia in calendario per l’8 e 9 luglio, ipotizza una riunione preliminare coi paesi del Patto Atlantico per discutere se continuare con l’embargo ai danni di Mosca oppure optare per la revoca.
A questo punto è palese che la classe dirigente europea, ormai affidata alla Nato nell’attuazione della sua politica estera, dato che Lady Pesc è un semplice portavoce dei ministri degli esteri europei, vuole darsi la zappa sui piedi.
L’Italia, che per interscambio con Mosca è il secondo partner commerciale della Federazione Russa in Ue, è forse il paese che più di tutti ha risentito delle controsanzioni di Putin, che impediscono l’ingresso dell’agroalimentare europeo (e dunque soprattutto italiano) in Russia.
Uno studio di Confagricoltura, pubblicato sul sito della stessa associazione di categoria di Cuneo, parla chiaro: nel 2013, ultimo anno prima dell’embargo, il giro di affari si assestava sui 485 milioni di euro, ma già dopo i primi 12 mesi (agosto 2014-luglio 2015) il valore è sceso di quasi il 40% (295 milioni di euro). I valori si sono praticamente dimezzati: rispetto al totale delle esportazioni agroalimentari, si è passati da un 1,9% di incidenza dell’export verso la Russia nel 2013 a uno 0,9% stimato per il 2015. Tra i tanti settori pesantemente colpiti dalla normativa, a subire le maggiori flessioni dei valori esportati in Russia sono stati ortaggi (-98,9%), frutta (-94,5%), latte e derivati (92,5%).
Ad essere penalizzati però non sono stati solo i prodotti agroalimentari vietati; anche quelli permessi hanno subito flessioni pari allo 0,6%, causa probabilmente dell’evoluzione della crisi economica russa, ma anche della crescita dell’imitazione di specialità italiane da parte di produttori russi.
I dati più recenti (gennaio-ottobre 2015) indicano per l’Italia un ridimensionamento medio generale del 50% e un allarmante -67% per le categorie di prodotti soggetti all’embargo. Il risultato? La crescita delle esportazioni italiane verso la Russia, che fra il 2009 e il 2013 avevano segnato un ottimo +119% si è interrotta e l’Italia rischia di vedere ridurre sempre di più il valore delle proprie esportazioni, già inferiore a quelle di molti fra i principali paesi dell’Unione Europea.
Infatti, con un petrolio basso e con continui attacchi finanziari al rublo inflazionato, il consumatore russo che negli ultimi dieci anni godeva di un potere d’acquisto tra i più alti del vecchio continente, adesso, trova poco conveniente il prodotto made in Italy, perché troppo caro.
Come riporta un articolo del “Tempo” del 15 febbraio 2016, lo stesso Roberto Maroni, governatore della Regione Lombardia, una delle regioni più toccate dalle sanzioni assieme a Veneto ed Emilia Romagna, afferma: “Il fatturato delle imprese italiane delle scarpe in Russia è diminuito del 30 per cento. Per questi motivi i russi non vengono neanche più in Italia a comprare. Io ho chiesto e continuiamo a chiedere che l’Europa intervenga per cancellare le sanzioni. I benefici sono zero, i danni economici per l’industria italiana sono tantissimi”.
In un lungo intervento dell’On. Gabriella Giammanco, attualmente Segretario della Commissione Attività Produttive di Montecitorio, effettuato il 22 giugno 2015 alla Camera dei Deputati, la parlamentare illustra gli ingenti danni economici subiti dalle industrie italiane in seguito all’embargo russo, dichiarando così:
“Il combinato disposto di sanzioni e controsanzioni tra la Federazione russa e l’Europa, a causa della crisi ucraina, sta facendo pagare un prezzo altissimo alle nostre imprese. Secondo una recente inchiesta di sette giornali europei della Leading European Newspaper Alliance (LENA), che comprende anche il quotidiano italiano “La Repubblica”, in collaborazione con l’Istituto austriaco per la ricerca economica, per l’Italia nel breve periodo si stima un danno di oltre 4 miliardi di euro, con una perdita di 80 mila posti di lavoro, per lievitare poi nel lungo periodo a quasi 12 miliardi di euro e a 215 mila posti di lavoro persi. Lo ripeto, ci sono 215 mila posti di lavoro a rischio.
Ma se il conto delle sanzioni per le imprese italiane è salatissimo, il resto dell’Europa di certo non può sorridere. L’Unione europea, proprio per effetto delle sanzioni, nel peggiore degli scenari, rischia di perdere 2 milioni di occupati, con 100 miliardi di euro in meno di esportazioni tra beni e servizi.
Cifre disastrose, preoccupanti e nettamente superiori a quelle previste dal Ministro dello sviluppo economico Federica Guidi, che il 30 settembre del 2014, nel corso di un’informativa al Senato sull’impatto economico per le imprese nazionali delle sanzioni russe nei confronti dell’Unione europea, parlò di soli 100 milioni di euro.”
L’embargo inoltre ha spinto i Russi a produrre in loco quelle tipicità agroalimentari italiane che non possono più importare, dando vita di fatto a un nuovo concetto di Made in Italy, ossia il Made with Italy.
Ciò permette da un lato di rendersi indipendenti dalle forniture straniere e dall’altro permette l’approdo di investitori stranieri nelle regioni russe, per sviluppare insieme la produzione dei prodotti italiani come salumi e formaggi, attraverso la creazione di joint venture e società miste, nelle quali l’imprenditore italiano mette a disposizione il proprio know how al fine di realizzare, se non un prodotto originalissimo, quantomeno un prodotto che segua l’iter e il procedimento di lavorazione usato nel Bel Paese.
Senza dimenticarci che autoproducendo in Russia si ha accesso a un mercato molto vasto, di quasi 200 milioni di consumatori in forte espansione, in virtù degli abbattimenti di barriere doganali previste dall’Unione Economica Eurasiatica, costituita da Federazione Russa, Bielorussia, Armenia, Kazakistan e Kirghizistan.
Accanto all’impatto economico, altro tema che merita di essere considerato attentamente è quello della manipolazione in chiave antirussa dei media. Sono tanti, infatti, gli episodi taciuti. Uno fra tutti è quello del mancato riconoscimento del referendum tenutosi nel marzo del 2014 col quale la Crimea optava per l’uscita dall’Ucraina e il ricongiungimento alla Russia.
Ricordiamoci che la Crimea fino agli anni ’50 era parte della Russia; poi, sotto Nikita Kruscev, venne assegnata all’Ucraina, ma sempre all’interno di quella che era una cornice più vasta ed unitaria, strettamente dipendente da Mosca, quale l’Urss.
Si è contestata la validità del referendum per due motivi: uno, perché vi era la presenza di militari che potenzialmente intimorivano i votanti affinché esprimessero il proprio voto per l’adesione alla Federazione Russa; due, perché la carta costituzionale dell’Ucraina non prevede un referendum solo per una regione (la Crimea) e una città autonoma (Sebastopoli).
Sul primo punto va detto che in ogni paese civile, quando si vota, vi sono dei militari che si occupano di sorvegliare il seggio elettorale.
Sul secondo punto, va fatta una parentesi più larga, puntualizzando che, invece, il referendum col quale il Kosovo ottenne l’indipendenza dalla Serbia (il precedente che tiene maggiormente banco nella dialettica sulla crisi in Crimea), fu un referendum dove non si pronunciò l’intera popolazione serba (il Kosovo era infatti, tecnicamente, una regione autonoma della repubblica serba), ma solo la minoranza linguistica albanese, maggioranza nella regione kosovara. E quel risultato, benché non riconosciuto da Belgrado (e neppure da Putin), venne considerato legittimo da parte della Corte Internazionale di Giustizia, il massimo organo delle Nazioni Unite.
Il fatto che vi sia una deviazione dei canali di informazione classici, stampa e tv in primis, è rinvenibile anche nella politica di contenimento ai danni della Russia che l’Europa e gli Usa, attraverso la Nato, stanno conducendo. Con l’obiettivo di boicottare l’ingresso del gas russo e di favorire l’ingresso dello shale oil americano, si è detto di tutto e di più su Mosca e sul suo presidente, accusando Putin di calpestare i diritti civili e di voler portare l’Europa verso un rischio di deriva totalitaria attraverso partiti filo russi come FN in Francia e la Lega in Italia.
Sono, invece, quasi sempre taciute le mire espansionistiche che Washington e Bruxelles attuano tramite l’Alleanza Atlantica. Il caso più clamoroso al momento è quello del probabile ingresso del Montenegro nella Nato, che come riportato in un articolo del “Giornale” del 19 maggio, è un vero affronto per Mosca, poiché, anche essendo un paese piccolo e montagnoso, è segno tangibile di voler fare terra bruciata attorno alla Federazione Russa al fine di isolarla, privandola di alleati e confinandola sempre più fuori dal contesto europeo.
I 28 ministri degli esteri della NATO hanno firmato un protocollo di ammissione del Montenegro nell’Alleanza in qualità di osservatore.
Una volta che il processo di ratifica sarà completato, il Montenegro diventerà il 29° membro della NATO.
È un momento storico – ha commentato il primo ministro del Montenegro Milo Djukanovic durante una conferenza congiunta con il Segretario Generale Jens Stoltenberg – la decisione di oggi è un chiaro segnale della NATO e dei suoi membri per condividere e promuovere i nostri valori.
Il Segretario Generale ha poi rilevato che, a partire da oggi, il Montenegro parteciperà a tutte le riunioni della NATO in qualità di osservatore. Una volta che il processo di ratifica sarà completato, la nazione balcanica sarà invitata ad aderire al Trattato di Washington. In quel momento diventerà il 29° membro dell’Alleanza.
Il Montenegro – ha aggiunto Stoltenberg – contribuisce già alle operazioni della NATO, la sua adesione nell’Alleanza porterà stabilità e sicurezza nella regione, promuovendo la prosperità.
La strada che porta all’adesione nella NATO non è facile – ha concluso il Segretario generale dell’Alleanza – ma mi aspetto ventinove bandiere al vento davanti la nostra sede di Bruxelles, per quella che è l’Alleanza di maggior successo nella storia. I tentativi della NATO di cambiare il panorama politico in Europa toccano gli interessi della Russia e richiedono una risposta. Non si è fatta attendere il commento russo, nelle parole del portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova.
“Nel quadro della sua politica apertamente di deterrenza nei confronti della Russia, la NATO influenzerà inevitabilmente gli interessi della Russia che risponderà in proporzione. Quel protocollo conferma l’intenzione di Bruxelles di accelerare e rendere irreversibile il processo di annessione. Gli sforzi per trascinare Podgorica nell’Alleanza non tengono conto del volere della gente del paese e sorpassa le procedure democratiche della NATO. Se facessero un referendum, il no sarebbe scontato”.
Secondo Mosca l’annessione della nazione balcanica, bombardata dalla NATO sedici anni fa, starebbe avvenendo contro il parere dei montenegrini. Secondo le stime più ottimistiche, il Montenegro potrebbe diventare un membro della NATO a pieno titolo non prima della fine di quest’anno. Realisticamente, entro i primi sei mesi del prossimo anno.
Le forze armate in servizio attivo del Montenegro ammontano a duemila unità. Stoltenberg ha ribadito il contributo dei montenegrini alle missioni NATO in Kosovo ed in Afghanistan.
La NATO – ha sottolineato Stoltenberg – lascia la porta anche agli altri paesi. In lizza ci sono la Georgia, la Macedonia e la Bosnia.”
In conclusione, per comprendere quale piega vorrà prendere l’Europa nell’ottica di un possibile e plausibile riavvicinamento alla Federazione Russa, dovremo aspettare il 2017: proprio tra un anno, infatti i cittadini europei di una parte dell’UE saranno chiamati alle urne per decidere i destini dei loro stati. Una svolta positiva è ancora possibile e, stando ai sondaggi, checché ne pensino i vari Merkel, Hollande e Renzi, un risveglio delle identità nazionali è già in atto.
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