“Non chiedere al passero come vola l’aquila”.
(Proverbio cinese)
“È abbastanza facile smascherare il filoamericano che si camuffa da europeo. Egli fa uso ed abuso della parola ‘Occidente’”.
(Jean Thiriart)
Agli “occidentali”, afferma l’ex generale dell’aeronautica dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese Qiao Liang, piace vantarsi affermando che non ci sono guerre tra “democrazie”[1]. Tale convinzione, ad onor del vero, è assai riduttiva (per non dire piuttosto banale). Di fatto, come sosteneva già negli anni ’80 del secolo scorso il “geopolitico militante” Jean Thiriart, se è vero che il grande rivale militare degli USA è la Russia, è altrettanto vero che il grande rivale economico (quello che potenzialmente rappresenta la più seria minaccia alla sua egemonia globale) è l’Europa occidentale[2].
Sulle pagine di “Eurasia” si è spesso cercato di presentare le prove (evidenti) del fatto che gli Stati Uniti non sono in guerra solo contro la Russia, ma più in generale contro l’Europa nella sua totalità (in questo contesto potrebbero rientrare anche gli attacchi/sabotaggi del 27 settembre ai corridoi energetici Nord Stream 1 e 2 avvenuti in concomitanza con l’inaugurazione di un gasdotto che collega gli ormai usurati giacimenti della Norvegia con la Polonia attraverso il Mar Baltico)[3]. In occasione dell’aggressione NATO alla Serbia, l’inversione del tasso di cambio tra euro (appena nato) e dollaro passò da 1 a 1,07 a 1 a 0,82 con un calo di oltre il 30%. Allo stesso modo, all’inizio di febbraio, nel momento di maggiore pressione ucraina contro le repubbliche separatiste del Donbass e prima dell’inizio dell’Operazione Militare Speciale, l’euro valeva 1,14 sul dollaro. Oggi (nel momento in cui si scrive) viene scambiato a 0,96 (oltre tre punti sotto la parità).
Governata da una élite politica collaborazionista pronta a fare del Vecchio Continente per gli USA ciò che era l’India per l’Impero coloniale britannico, l’Europa sembra essere condannata a rimanere bloccata in una mentalità da guerra fredda e di contrapposizione tra blocchi nell’istante in cui l’accelerazione imposta alle dinamiche geopolitiche dagli eventi (crisi pandemica e intervento diretto russo nel conflitto ucraino) sta rapidamente trasformando il sistema globale in senso multipolare.
Se, da un lato, spingere la Russia verso oriente ha (momentaneamente) separato quelli che sono stati definiti come i “due giganti a metà”, dall’altro, ha realizzato uno degli “incubi geopolitici” di Washington: la costruzione di un blocco capace di escludere gli Stati Uniti dallo spazio eurasiatico attraverso la cooperazione strategica tra Russia, Cina e Iran. Ciò ha vanificato gli sforzi di quel Henry Kissinger che dai primi anni ’70 aveva cercato (non senza successo) di separare URSS e Repubblica Popolare Cinese attirando Pechino nell’orbita geoeconomica degli Stati Uniti (come esportatrice di beni a basso costo ed importatrice di titoli di debito USA) grazie alla cosiddetta open door policy (passaggio ulteriormente facilitato dall’amministrazione Clinton con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio a condizioni agevolate, salvo poi bombardare “erroneamente” l’ambasciata cinese a Belgrado per spingere il trasferimento di capitali da Hong Kong a Wall Street).
L’“idillio” sino-americano, nell’ottica neoliberista occidentale, avrebbe dovuto trasformare la Cina nello snodo manifatturiero globale, a condizione che il divario tecnologico e militare tra Washington e Pechino rimanesse inalterato e che la bilancia commerciale non pendesse troppo verso Oriente.
Al contrario, la crescita economica della Cina (che si è tradotta anche in maggiori spese militari), aumentandone il potere relativo (soprattutto in termini di proiezione di influenza), l’ha resa un rivale diretto degli Stati Uniti. Va da sé che, come ha dimostrato John J. Mearsheimer, tale rivalità non ha nulla a che fare con l’aspetto ideologico. Il politologo statunitense, infatti, nel sesto capitolo del suo fondamentale testo La tragedia delle grandi potenze (2001), riporta l’esempio dell’Italia nella prima metà del XX secolo dimostrando come i governi liberali prefascisti fossero non meno aggressivi di quello guidato da Benito Mussolini[4]. Di conseguenza, uno scontro con gli interessi francesi e britannici nell’area mediterranea o mediorientale sarebbe stato comunque inevitabile (l’Italia, ad esempio, già dalla metà degli anni ’20, nel momento in cui lo Stato non aveva ancora assunto un carattere totalitario, aveva già iniziato a fornire sostegno militare all’Imamato zaydita dello Yemen contro la penetrazione coloniale britannica ad Aden)[5].
Allo stesso modo, Unione Europea, Russia e Cina, che siano democratiche o autoritarie, liberali o stataliste in campo economico, poco conta. Rappresentano comunque una minaccia nel momento in cui la loro accresciuta potenza (militare o economica, o entrambe) mette a rischio il sistema globale fondato sull’egemonia nordamericana all’interno delle istituzioni internazionali (BM e FMI in primo luogo) e sul potere del dollaro come valuta di riferimento negli scambi commerciali.
Se l’Unione Europea, ostaggio della sua stessa classe dirigente e dell’Alleanza Atlantica, ha ridotte possibilità di manovra per sfuggire alla morsa “occidentale” (nonostante alcuni tentativi di “isolarla” dal resto dell’Eurasia come il TTIP siano andati falliti), Cina e Russia stanno costruendo le fondamenta per un nuovo ordine che renda inefficaci gli sforzi occidentali per il “contenimento” della loro espansione.
A questo proposito, non si può dimenticare che nel XIX secolo la Gran Bretagna combatté le cosiddette “guerre dell’oppio” proprio per tenere la Cina fuori dal commercio marittimo. Dunque, la volontà attuale del Partito Comunista Cinese, ben sintetizzata dal discorso del Presidente Xi Jinping all’incontro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (nota con l’acronimo inglese SCO) svoltosi a Samarcanda (14-16 settembre 2022), si pone anche come nuova espressione di risorgimento nazionale a fronte di quel periodo buio della storia cinese (a cavallo tra metà Ottocento e metà Novecento) che in Cina rimane conosciuto come “il secolo delle umiliazioni” e dei “Trattati ineguali”.
Nel suo discorso, Xi, oltre ai consueti riferimenti storici alla Via della Seta come fonte di ispirazione per l’interazione culturale e commerciale pacifica tra i Paesi che hanno abbracciato il progetto e la SCO, si è concentrato su alcuni punti cruciali per lo sviluppo dei programmi di integrazione eurasiatica. In primo luogo ha sottolineato la necessità per i membri della stessa Organizzazione di Shanghai di agire in comunità di intenti per vanificare i tentativi di ingerenza esterna nei loro affari interni. Il Presidente cinese, in questo senso, ha parlato espressamente dei tentativi di creare “rivoluzioni colorate” che minano la stabilità regionale[6].
Non c’è da stupirsi se, nel momento in cui Tehran ha aderito ufficialmente alla SCO, un’ondata di proteste (più o meno veementi, più o meno spontanee) si è diffusa nell’intero Paese con modalità che ricordano i processi di destabilizzazione sostenuti dall’Occidente in altri teatri (dai Paesi ex sovietici al Medio Oriente) ed anche nello stesso Iran (si pensi al cosiddetto “Movimento Verde” del 2009 nato dopo la rielezione di Mahmud Ahmadinejad), con la sostanziale differenza che la Repubblica Islamica (nonostante la crisi indotta dal regime sanzionatorio trumpista) sembra avere ancora gli anticorpi e le strutture per affrontare simili sfide (alle quali si aggiungono le spinte disgregatrici operate da alcuni gruppi apertamente appoggiati dai servizi spionistici nordamericani e israeliani soprattutto nel Kurdistan, nelle aree al confine con l’Azerbaigian e nel Belucistan, dove, già dai primi anni ’80, gruppi separatisti operavano sotto la supervisione dell’Iraq di Saddam Hussein in chiave sia antiraniana sia antipakistana).
Xi, inoltre, ha concentrato le sue attenzioni sull’Afghanistan (presente al vertice come Paese richiedente lo status di socio di dialogo della SCO). Kabul, infatti, agli occhi del Presidente cinese risulta centrale nel progetto di interconnessione continentale dopo il ritiro degli Stati Uniti. Tuttavia, è fondamentale che l’Afghanistan costruisca una struttura politica ampia ed inclusiva che possa rimuovere in ogni modo il terreno che alimenta il terrorismo e mette a rischio l’intera regione dell’Asia centrale[7]. La lotta dei Talebani contro il sedicente “Stato islamico” (ISIS-Khorasan) e lo sforzo per l’eradicazione della coltura del papavero da oppio (al quale, ad onor del vero, già il Mullah Omar a cavallo tra la fine degli anni ’90 ed il 2000 aveva cercato di porre rimedio per guadagnare consensi nella “comunità internazionale”), dopo il ventennio di occupazione occidentale in cui la produzione di droga non solo non è diminuita ma è aumentata in modo esponenziale (dai 70.000 ettari coltivati a papavero nel 2001 si è passati ai 300,000 del 2017)[8], rappresentano in questo senso un evidente segno della positiva volontà afghana verso la cooperazione con i Paesi vicini (indispensabile nel momento in cui gli Stati Uniti, nel silenzio generale, hanno congelato oltre 9 miliardi di dollari che i governi fantoccio filooccidentali avevano trasferito negli istituti di credito nordamericani).
Non meno rilevanti sono stati i riferimenti di Xi Jinping alla costruzione di un sistema di pagamenti internazionali nelle rispettive valute locali che acceleri il processo di dedollarizzazione delle economie eurasiatiche e favorisca la prossima creazione di una banca di sviluppo interna alla SCO.
Questo passaggio è estremamente importante, visto che l’Organizzazione di Shanghai coinvolge il 40% della popolazione mondiale, ¼ del PIL globale, si estende sulla più grande massa continentale al mondo ed al suo interno sono presenti ben quattro potenze nucleari (Cina, India, Pakistan e Russia). Numeri che aumentano ulteriormente se alla SCO si collega il sistema BRICS.
Paradossalmente, il regime sanzionatorio imposto alla Russia a seguito dell’Operazione Militare Speciale, lungi dal riaffermare l’unipolarismo (se si esclude il controllo nordamericano sull’Europa), ha accelerato il percorso multipolare. Di fatto, “l’impossibilità di avvalersi dei circuiti VISA e Mastercard, dovuto alle sanzioni ha indotto Mosca ad utilizzare i cinesi Huawei Pay e Union Pay, e restituito nuovo slancio al progetto messo in cantiere dai BRICS nel 2015, consistente nella creazione di un proprio sistema unico di pagamenti transnazionale (Brics Pay) che consente l’impiego delle rispettive monete nazionali come base diretta di scambio per i pagamenti esterni, evitando l’intermediazione del dollaro e quindi il necessario transito attraverso banche statunitensi”[9]. E ancora: “Interconnettendo i sistemi di pagamento (Elo brasiliano, Mir russo, RuPay indiano e Union Pay cinese; il Sud Africa non possiede una propria infrastruttura), Brics Pay si candida a soppiantare gradualmente i circuiti VISA e Mastercard nel quadrante asiatico (dove Union Pay ha superato VISA già dal 2015, in termini di operazioni complessive, ridimensionando drasticamente il potere di ricatto di Washington […] Analogamente, l’estromissione da SWIFT penalizza gli istituti di credito russi, ma smaschera la strumentalità di quello che si configura come il principale sistema di regolazione dei pagamenti internazionali alle logiche di potere euro-atlantista, con il risultato di rafforzare la tendenza alla ricerca di soluzioni alternative”[10]. Soluzioni riscontrabili nell’utilizzo e nel potenziamento (o addirittura unificazione) dei già esistenti canali CIPS – Cross-Border International Payment System (Cina), SPFS – System for Transfer of Financial Messages (Russia), UPI – Unified Payment Interface (India).
In conclusione, Xi ha elogiato lo spirito di Shanghai, sempre più forte e saldo dopo vent’anni. Esso è racchiuso in cinque punti che rappresentano al contempo i pilastri del nuovo sistema multipolare e di quello che Russia e Cina hanno identificato come il processo di “democratizzazione” delle relazioni internazionale. I cinque punti sono:
- Fiducia politica. Guidati dalla visione di forgiare un’amicizia duratura e la pace tra gli Stati membri della SCO, rispettiamo i reciproci interessi fondamentali e la scelta del percorso di sviluppo di ciascuno, e ci sosteniamo a vicenda nel raggiungimento della pace, della stabilità, dello sviluppo e del ringiovanimento.
- Cooperazione vantaggiosa per tutti. Soddisfiamo gli interessi reciproci, rimaniamo fedeli al principio di consultazione e cooperazione per vantaggi condivisi, rafforziamo la sinergia tra le nostre rispettive strategie di sviluppo e seguiamo il percorso della cooperazione vantaggiosa per tutti verso la prosperità comune.
- Uguaglianza tra le Nazioni. Ci impegniamo a rispettare il principio di uguaglianza tra tutti i Paesi indipendentemente dalle loro dimensioni, il principio del processo decisionale basato sul consenso e il principio dell’affrontare i problemi attraverso consultazioni amichevoli. Rifiutiamo la pratica della coercizione del grande e forte ai danni del piccolo e debole.
- Apertura e inclusione. Sosteniamo la convivenza armoniosa e l’apprendimento reciproco tra diversi Paesi, Nazioni e culture, il dialogo tra le civiltà e la ricerca di un terreno comune accantonando le differenze. Siamo pronti a stabilire partnership e sviluppare una cooperazione vantaggiosa per tutti con altri Paesi e organismi internazionali che condividono la nostra visione.
- Equità e giustizia. Ci impegniamo a rispettare gli scopi ed i principi della Carta delle Nazioni Unite; affrontiamo le principali questioni internazionali sulla base dei loro meriti e ci opponiamo al perseguimento della propria agenda a discapito dei legittimi diritti e interessi di altri Paesi[11].
L’elencazione dei cinque punti che costituiscono lo “spirito di Shanghai” nel discorso di Xi Jinping e la scelta di Samarcanda (“perla della Via della Seta”) come destinazione del primo viaggio ufficiale all’estero del Presidente cinese dopo l’inizio della pandemia di Covid 19 hanno sicuramente un forte valore culturale e simbolico. Xi Jinping, in primo luogo, ha voluto inviare un chiaro messaggio strategico ai tentativi statunitensi di accerchiare la Cina sottolineando la capacità di proiezione terrestre (e non solo marittima) della Nuova Via della Seta, che si presenta come progetto complementare alle strategie di sviluppo nazionale dei Paesi membri e dialoganti con la SCO.
In secondo luogo, ha voluto inviare un chiaro messaggio agli stessi membri e soci di dialogo della SCO i cui interessi confliggenti sono sfociati nell’aperto confronto bellico (non senza l’intromissione occidentale). Questo è il caso del confronto tra Armenia e Azerbaigian (conflitto nel quale è già direttamente coinvolta la Turchia, socio dialogante della SCO, come principale fornitore di appoggio militare a Baku e che potrebbe potenzialmente impegnare anche l’Iran), delle tensioni tra Tagikistan e Afghanistan e, più recentemente, dello scontro Tagikistan e Kirghizistan, con quest’ultimo attraversato da quel corridoio ferroviario Cina-Kirghizistan-Uzbekistan che rappresenta uno snodo cruciale per la Nuova Via della Seta, visto che consentirebbe, una volta ultimato, di arrivare sia in Medio Oriente (via Afghanistan), sia in Europa (attraverso Iran e Turchia) con notevole anticipo rispetto alla già esistente linea che attraversa il Kazakistan.
In questo contesto si inserisce anche la posizione ufficiale della Cina sul conflitto in Ucraina, rimasta (con poche differenze sostanziali) la medesima dal 2014 ad oggi: “La parte cinese mantiene una posizione obiettiva ed equa sulla questione ucraina, insiste nel rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, si oppone a qualsiasi forza esterna che interferisce negli affari interni dell’Ucraina e sostiene la risoluzione del problema ucraino politicamente in modo pacifico. Riteniamo che la soluzione definitiva alla crisi ucraina consista nel mantenere due equilibri, vale a dire, comprendere l’equilibrio tra gli interessi di diverse regioni e diverse nazionalità in Ucraina, raggiungere l’equilibrio delle relazioni con la Russia e l’Europa, al fine di non rendere l’Ucraina un avamposto di confronto, ma piuttosto un ponte per la comunicazione tra est ed ovest”[12].
Questo spiegherebbe anche la malcelata insoddisfazione di Pechino per la scelta russa di intervenire direttamente nel conflitto, soprattutto alla luce dei reiterati tentativi nordamericani di sfruttarlo come arma per intensificare la propaganda dello scontro fra blocchi contrapposti e mettere in ginocchio il tessuto industriale europeo. La Cina, infatti, non ha alcun particolare interesse nell’assistere alla recessione economica della zona euro. Così come non ha alcun interesse ad una (pur momentanea) cesura geografica tra Russia ed Europa (o ad una ulteriore spirale bellica dagli esiti potenzialmente nefasti) nel momento in cui il controllo russo sullo strategico porto di Mariupol apre importanti scenari di utilizzo dell’infrastruttura e del gigantesco complesso industriale Azovstal (non a caso gli azoviti, con contorno di civili come scudi umani, hanno scelto di asserragliarsi proprio lì, consapevoli del fatto che Mosca non avrebbe cercato di distruggere completamente l’area) come strumenti di interconnessione nord-sud ed ovest-est del continente.
In ottica russa, il vertice di Samarcanda ha avuto il merito di riportare in auge la tradizionale impostazione strategica di Mosca, che guarda all’Oriente ed al mondo islamico quando l’Europa le volta le spalle. Prima ancora di personalità come il teorico del “comunismo nazionale islamico” Mirza Sultan Galiev (1892-1940), il “marxista atipico” Karl Radek (che invitò al Congresso postrivoluzionario dei Popoli Orientali quell’Enver Pascia che si unì alla rivolta dei “basmaci” anziché contribuire a placarla)[13], e degli esponenti dell’eurasiatismo classico, tale impostazione era stata fatta propria da Ismail Bej Gaspir Ali (1851-1914). Quest’ultimo, tataro di Crimea e figura centrale del movimento noto come “giadidismo” (da usul-i-jadid, “nuovo metodo”), volto alla diffusione della cultura scientifica moderna tra i popoli musulmani dello spazio imperiale russo, al pari di Konstantin Leont’ev, riteneva che Mosca avrebbe dovuto seguire una politica di alleanza con Paesi come la Turchia e la Persia, che sarebbe stata reciprocamente vantaggiosa. La Russia avrebbe guadagnato il tanto agognato accesso ai “mari caldi”, mentre Turchia e Persia sarebbero riuscite a liberarsi dal soffocante abbraccio europeo che cercava continuamente di metterle l’una contro l’altra e alternativamente in diretto confronto con la stessa Russia. “Un’alleanza tra lo zar bianco e il califfo dell’Islam – affermava Ismail Bej “Gasprinskij” – rimescolerebbe completamente le carte che da tre secoli in Europa sono abituati a giocare”[14].
Oggi come allora, solo attraverso una sempre più stretta cooperazione tra realtà politico-culturali estremamente differenti (come quelle presenti all’interno della SCO o dei BRICS) può rendere possibile il superamento dell’approccio occidentale alle relazioni internazionali fondato sulla politica del divide et impera.
NOTE
[1]Qiao Liang, L’arco dell’Impero con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità, LEG Edizioni, Gorizia 2021, p. 112.
[2]J. Thiriart, L’impero euro-sovietico da Vladivostok a Dublino, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2018, p. 54.
[3]“Le perdite di gas sono state segnalate nei pressi dell’isola danese di Bornholm, nel Mar Baltico. Il governo federale tedesco ritiene possibile che i gasdotti Nord Stream siano stati danneggiati da attacchi”. Si veda Fuga di gas da Nord Stream 1 e 2: ribolle in mare. Operatore della rete: “Danni a 3 linee off shore”, 27 settembre 2022, www.rainews.it. É bene altresì chiarire che, qualora si trattasse di un’operazione di intelligence coadiuvata dalla NATO, si tratterebbe dell’attacco diretto della stessa agli interessi vitali di un Paese membro sebbene, al momento, il Nord Stream 1 sia fuori uso per manutenzione ed il 2 non sia mai entrato in attività.
[4]J. J. Mearsheimer, The tragedy of great powers politics, Northon e Company, New York 2014, p. 171.
[5]F. Sabahi, Storia dello Yemen, Mondadori, Milano-Torino 2010, p. 36.
[6]Vertice di Samarcanda: il discorso di Xi Jinping (trad. Giulio Chinappi), www.cese-m.eu.
[7]Ibidem.
[8]N. Piro, La narrazione dell’oppio afghano è sbagliata, proviamo a riscriverla, www.nicopiro.it.
[9]G. Gabellini, 1991-2022. Ucraina. Il mondo al bivio. Origini, responsabilità, prospettive, Arianna Editrice, Bologna 2022, p. 250.
[10]Ibidem, pp. 250-251.
[11]Vertice di Samarcanda: il discorso di Xi Jinping, ivi cit.
[12]AA.VV., Interpretazione della filosofia diplomatica cinese nella Nuova Era, Anteo Edizioni, Cavriago 2021, p. 33.
[13]Niente affatto vittima, a differenza di molti suoi compagni di Partito, di un pregiudizio antiorientale, Radek disse dal palco del Congresso: “Compagni, noi facciamo appello allo spirito combattivo che in passato ha animato le genti dell’Oriente quando, guidate da grandi conquistatori, marciarono sull’Europa […] Noi sappiamo, compagni, che i nostri nemici ci accuseranno di aver evocato la figura di Gengis Khan e dei califfi dell’Islam […] e quando i capitalisti europei affermano che questa è la minaccia di una nuova barbarie, di una nuova invasione unna, noi rispondiamo loro: Viva l’Oriente Rosso!” (in C. Mutti, Introduzione a N. S. Trubeckoj, L’eredità di Gengis Khan, S.E.B., Milano 2005). Obiettivo di Karl Radek era quello di creare un’alleanza tra il bolscevismo russo ed i nazionalismi tedesco e turco contro il nemico comune: l’imperialismo britannico. Per questo invitò a Baku Enver Pascià, già esponente dei Giovani Turchi e Ministro della Guerra ottomano negli anni della Prima Guerra Mondiale. I bolscevichi sperarono, tramite il suo aiuto, di porre fine alla ribellione dei basmaci (“briganti”) ereditata dalla Russia zarista e scoppiata a seguito dell’imposizione della coscrizione obbligatoria per le popolazioni musulmane dell’Asia centrale. Tuttavia, una volta giunto a Bukhara, Enver Pascia si unì alla rivolta e ne assunse la guida con il titolo di “Comandante in campo di tutti gli eserciti musulmani, genero del califfo e rappresentante del Profeta”. Sfruttando la diffusione di sentimenti panislamici e panturchi, la sua idea era quella di creare un unico enorme Stato musulmano comprendente tutta l’Asia centrale, oltre all’Iran ed all’Afghanistan. Il suo progetto ebbe comunque vita breve. Enver Pascià morì in battaglia nel 1922, mentre la rivolta andò lentamente ad affievolirsi fino a scomparire del tutto negli anni Trenta.
[14]G. R. Capisani, I nuovi Khan. Popoli e Stati nell’Asia centrale desovietizzata, BEM, Milano 2007, p. 94
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