Ad ascoltarlo sono accorsi in migliaia proprio come quattro anni fa, Moqtada al-Sadr controverso leader degli sciiti radicali è tornato in Iraq dopo un lungo autoimposto esilio (1) in Iran, davanti a una folla di suoi seguaci a Najaf, città santa per gli sciiti, ha tenuto il suo primo discorso: “combatteremo con ogni mezzo l’occupazione americana” ha urlato alla folla. L’irascibile leader sciita ha poi sottolineato che questa volta non intende usare la violenza, ma vuole opporsi culturalmente agli americani.

Il suo partito che può contare anche su una agguerrita milizia privata, l’”Esercito del Mahdi” (2), appoggerà al-Maliki, in quanto, sostiene occorra dare una possibilità al nuovo governo iracheno:”Se il governo sarà al servizio del popolo e della sua sicurezza, noi siamo con esso”, ha detto al-Sadr. Viceversa, “se il governo non servirà il popolo, ci sono modi per correggerlo, ma questi mezzi devono essere politici”, ha aggiunto.

Al-Sadr apre, dunque, al governo anche se le sue parole ricordano i suoi più aggressivi  comizi di qualche anno fa, quando capeggiava la rivolta degli sciiti del sud dell’Iraq contro i soldati americani, inglesi e italiani. Fu sempre al-Sadr ad incitare le milizie del Mahdi a lui fedeli ad iniziare la guerra etnica a Bagdad contro i sunniti, che portò a migliaia di morti civili tra sciiti e sunniti in una città diventata irriconoscibile dove la convivenza era ormai quasi impossibile.

Per il governo iracheno e per gli americani al-Sadr rimane un pericolo ma al contempo un alleato dato che può contare su 39 deputati in parlamento, di cui 8 hanno compiti governativi, cruciali per far nascere il nuovo governo guidato da Nuri al-Maliki. Sul fronte politico, dunque, al-Sadr è altrettanto potente che su quello militare, ma la veste politica non gli ha impedito ancora oggi di mantenere il profilo populista, al punto di arringare la folla esortandola a scandire “abbasso, abbasso gli Usa”, e i suoi sostenitori hanno accolto con entusiasmo l’invito.

Gli americani, ormai, non parlano più di esportazione della democrazia ma sembrano essere interessati solo alla stabilità del Paese e a contrastare le influenze sadriste, coi loro legami iraniani. L’obiettivo degli americani è sempre stato puramente pragmatico: impedire che l’Iraq scivoli nel caos e che al suo interno l’influenza iraniana diventi preponderante. Un governo al-Maliki in cui la lista Iraqiya giocasse un ruolo importante avrebbe garantito questo obiettivo, permettendo a Washington di completare il ritiro delle proprie truppe (3).

Ma a nove mesi dalle elezioni politiche il ruolo centrale del movimento sciita guidato da Moqtada al-Sadr, figlio del grande capo religioso a cui é intitolato il più grande sobborgo sciita di Bagdad (Sadr City, da Mohammad Baqir al-Sadr) appare, in prospettiva, come il risultato più evidente e consolidato, nonostante tutte le manovre sottobanco e le procrastinazioni portate avanti dall’amministrazione Obama per marginalizzare il giovane leader e per cercare di restituire un ruolo alla principale pedina americana in Iraq, lo  screditato Allawi: dilazioni e tentativi che si sono risolti con un enorme buco nell’acqua.

L’Iran, dal canto suo, considera al-Sadr il proprio investimento a lungo termine in Iraq. Il giovane religioso sciita è alla guida di un movimento politico e militare candidato a diventare l’equivalente iracheno del libanese Hitzbullah. Attraverso il movimento, l’Iran ha aumentato la sua influenza nel Paese e preme affinché Bagdad non rinvii il ritiro delle truppe Usa oltre il termine della fine dell’anno.

Il ritorno di al-Sadr, dunque, non è forse una semplice visita, egli avrà un ruolo importante nel processo politico. Senza il sostegno dei 40 parlamentari sadristi il primo ministro al-Maliki non avrebbe ottenuto il secondo mandato e probabilmente presto il religioso rivendicherà posizioni chiave nell’esecutivo.(4)

Gli sciiti hanno, per lungo tempo, sognato di salire al potere, un sogno svanito per la prima volta nel 1920, quando si unirono ai sunniti nel tentativo di allontanare l’occupante inglese. Con grande disappunto dei fedeli di ‘Alì, gli inglesi misero sul trono un monarca sunnita straniero, l’hascemita Faisal, condannando il popolo sciita a decenni di sottomissione. Sia la monarchia che il partito Baath, salito al potere nel 1968, emarginarono la maggioranza sciita dai posti di governo, proprio perché ne temevano la grande forza di coesione.

Saddam Hussein si assicurò che non esistessero organizzazioni secolari, forzando così la crescita delle associazioni religiose islamiche che esprimessero una chiara identità sciita. Anche se in maggioranza arabi sunniti, i baathisti erano fermamente laici e non avevano fiducia nei “fanatici” sciiti. Negli anni settanta, il rais di Baghdad intensificò la repressione verso gli sciiti e ciò portò alla fondazione del partito al-Dawa (“la Chiamata”), il cui fine era quello di creare uno stato islamico in Iraq. A seguito della rivoluzione iraniana, l’appartenenza al partito divenne illegale e chi avesse aiutato un suo membro poteva essere incarcerato o giustiziato.

Il rapporto della comunità sciita irachena con il vicino Iran è stato però molto controverso. Se la comunanza di ideali religiosi è da sempre il collante primario che unisce gli sciiti iracheni con quelli oltre confine, una visione più laica della vita e dell’attività politica, oltre ad una discendenza etnica diversa, sono le differenze che segnano tale relazione. La strada che gli sciiti iracheni vogliono perseguire è quella nazionalista, cercando di dar voce, in qualsiasi governo succederà al marasma del post-Saddam, alle istanze della propria popolazione.

La comunità sciita irachena, la cui importanza é ormai in costante ascesa in tutti i settori della vita pubblica (politica, sociale ed economica) dopo gli anni di costrizione dovuti alla preminenza degli elementi sunniti legati al clan di Saddam Hussein prima, e ai fantocci dell’occupazione militare angloamericana poi, ha celebrato il rientro del giovane leader religioso con tutto l’entusiasmo del caso. Stanchi di subire stanno rialzando la testa.

* Chiara Cherchi è dottoressa in Scienze politiche

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”


Note:

(1)     Il leader era fuggito in Iran alla fine del 2008, dopo che era stato emesso un mandato di arresto per lui;

(2)     Milizia composta da circa sessantamila uomini che ha deposto le armi nel 2008 ;

(3)     www.atimes.com/middle_east;

(4)     www.aljazeera.net/news/middleeast/2011/.html.


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