La congiuntura di crisi del 2008 ha delineato piuttosto nitidamente gli orizzonti del declino strategico degli Stati Uniti e la fragilità strutturale del sistema finanziario incardinato sulla centralità del dollaro. Segnali molto forti di questo declino erano già arrivati nel 1971, quando Richard Nixon fu costretto a revocare il “Gold Exchange Standard” stipulato a Bretton Woods nel 1944 per via degli enormi squilibri venutisi a creare in seguito all’esorbitante crescita dei cosiddetti “deficit gemelli” (disavanzo pubblico e disavanzo nelle partite correnti) legata ai costi per sostenere la campagna militare contro il Vietnam del Nord. La forte svalutazione del dollaro dovuta al ripudio degli accordi di Bretton Woods che seguì fu poi “neutralizzata” dallo shock petrolifero del 1973, che provocò un pesantissimo apprezzamento del greggio permettendo a Nixon di blindare la posizione di moneta di riferimento internazionale di cui era titolare il dollaro, anche se a pagare le spese di questa maestosa manovra strategica fu l’intero comparto industriale statunitense. Analogamente, pur mutatis mutandis, la crisi odierna ha colpito fortemente l’intero settore industriale ma, a differenza del 1971, ha rafforzato l’oligopolio finanziario di Wall Street, in modo tale che attraverso questo ultimo trauma – dovuto a ragioni ben precise e radicate nel tempo – le grandi banche d’affari potessero assumere il potere necessario per fungere da braccio armato di Washington nell’ambito della grande contesa internazionale destinata a ridisegnare gli equilibri della “grande scacchiera”. Occorre quindi analizzare le dinamiche strutturali per comprendere appieno quali siano gli interessi in gioco.
Il celebre economista Joseph Schumpeter sosteneva che l’anima del capitalismo è costituita dalla distruttività creativa, cioè dalla capacità – intrinseca a questo sistema di produzione – di cambiare pelle attraverso traumatiche congiunture di crisi dalle quali scaturiscono mutamenti strutturali continuamente rinnovati.
Stando agli sviluppi del recente passato, i presidenti statunitensi che si sono avvicendati dal repubblicano Ronald Reagan fino al democratico Barack Obama (passando per il repubblicano George Bush senior, il democratico Bill Clinton e il repubblicano George Bush junior) devono aver dato una loro particolare interpreazione a questa assunzione di base, dal momento che fecero il possibile per spazzare via ogni ostacolo che intralciasse la realizzazione pratica di una realtà economica confacente al più oltranzista dei dogmi liberisti, dispiegatosi attraverso robusti programmi di deregolamentazione finanziaria incardinati sulle teorie economiche di Milton Friedman, che condannava “L’interferenza dello Stato nell’efficienza del mercato sotto forma di regole“1.
Reagan nominò Presidente della Federal Reserve un vero guru di questa disciplina, ovvero Alan Greenspan, che venne poi confermato sia da Bush senior, sia da Clinton sia da Bush junior.
Sotto la presidenza Clinton, Greenspan si avvalse dell’aiuto del Segretario al Tesoro Robert Rubin (Goldman Sachs) e del consulente Larry Summers (Goldman Sachs) per rimuovere ogni vincolo giuridico dall’ambito finanziario, favorendo la creazione di pochi ma elefantiaci colossi societari.
Nel 1998 la banca d’investimento Citicorp si fuse con la banca commerciale Travelers Group dando luogo a Citigroup, la maggiore società finanziaria al mondo. Malgrado la fusione violasse palesemente il Glass-Steagall Act2 (adottato nel 1933 per contenere le derive speculative), il quale proibiva che la normale attività bancaria e l’attività d’investimento potessero essere esercitate dalla medesima istituzione, Greenspan concesse una deroga di un anno, nel corso del quale il Congresso approvò il Gramm-Leach-Bliley Act3, che sancì l’abrogazione del Glass-Steagall Act a beneficio di nuove misure di deregolamentazione in base alle quali fu convalidata la nascita di Citigroup.
Una volta terminato il mandato, Robert Rubin fu assunto da Citigroup come Vice-Presidente finché non venne licenziato per gli scarsi risultati ottenuti dietro il pagamento di quasi 130 milioni di dollari di buonuscita.
Ma a livello più generale, le grandi banche d’investimento avevano, già da tempo, cominciato a muoversi su più piani, specialmente alla luce dei numerosi squilibri economici che stavano emergendo gradualmente in seno agli Stati Uniti. Favoriti dall’anarchia vigente, questi istituti escogitarono nuovi prodotti finanziari imperniati sulle regole della matematica e della fisica meglio noti come “strumenti derivati”, la cui quotazione veniva stabilita in base o all’oscillante valore di mercato di un ventaglio di beni (come il greggio), o all’andamento di una o più società quotate in Borsa, o al grado di solidità economica degli stessi Stati nazionali.
Quando il Presidente della Commodity Futures Trading Commission Brooksley Born inoltrò alla Casa Bianca uno studio sui derivati in cui si sottolineava la pericolosità di questi prodotti finanziari – che facevano parte di un mercato deregolamentato da 50.000 miliardi di dollari – e si indicava la necessità di introdurre misure che li regolamentassero, il Segretario al Tesoro Larry Summers oppose il proprio veto e Alan Greenspan ribadì l’importanza di confidare nell’innata capacità auto-equilibratrice del mercato. Bill Clinton dichiarò la propria piena sintonia con Summers e Greenspan, seguito a ruota dal Congresso, che affossò definitivamente la bozza proposta da Brooksley Born. Fu in questo frangente che si inserì l’elezione di George W. Bush, il quale ereditò da Clinton una situazione economica particolarmente turbolenta.
Tra il 1999 e il 2000, all’indomani dello scoppio della bolla dei titoli tecnologici indicizzati al Nasdaq, il governatore Alan Greenspan aveva infatti abbassato pesantemente i tassi di interesse e implicitamente favorito un parallelo abbassamento dei criteri di aggiudicazione dei prestiti allo scopo di stimolare i consumi, cosa che effettivamente facilitò l’accesso al credito da parte dei cittadini statunitensi, i quali nell’arco di pochi anni iniziarono ad indebitarsi fino a raggiungere, a cavallo tra il 2004 e il 2005, la soglia dei 1000 miliardi di dollari complessivi.
Il settore finanziario era controllato dalle banche d’investimento Goldman Sachs, Merrill Lynch, Bear Stearns, Morgan Stanley e Lehman Brothers, dagli istituti adempienti alla duplice funzione di banche commerciali e banche d’investimento JP Morgan Chase e Citigroup (oltre alla gigantesca Bank of America), dalla compagnia assicurativa AIG (affiancata dalle minori MBIA e AMBAC) e dalle agenzie di rating Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch.
La saldatura tra tutte queste istituzioni venne stipulata da un sistema di connessione meglio noto come cartolarizzazione. Finché essa non entrò in vigore, gli istituti di credito si erano limitati ad erogare mutui con parsimonia, cioè soltanto ai contraenti capaci di esibire solide credenziali. Questi contraenti avrebbero poi estinto progressivamente il proprio debito versando indietro la cifra prestata, accresciuta da una percentuale di interesse, in un arco temporale prestabilito.
La cartolarizzazione ruppe questo vincolo di bilateralità tra erogatore e contraente e aprì una voragine in cui andarono ad inserirsi le grandi banche d’investimento, che ebbero modo di acquistare questi mutui e di assemblarli assieme ad una miriade di altri titoli di debito (ovvero prestiti concessi per coprire rate universitarie, per acquistare automobili, ecc.) dando vita ai Collateralized Debt Obligations (CDO), i più comuni strumenti derivati che invasero progressivamente il mercato.
In questo sistema, le rate versate dai contraenti dei mutui venivano girate agli investitori che avevano acquistato questi Collateralized Debt Obligations la cui solidità era assicurata dalle agenzie di rating, cui le banche d’investimento si erano rivolte affinché certificassero, dietro “congrua” retribuzione, la validità dei loro prodotti.
Le agenzie di rating affibbiarono la tripla A o giudizi altrettanto favorevoli a molti di questi complessi prodotti finanziari, affinché essi divenissero appetibili anche dai fondi pensione, che possono investire soltanto in azioni che godono di una elevato grado di giudizio.
Siccome il meccanismo che soggiace a questo prodotto finanziario prometteva di far fruttare grandi profitti a rischio contenuto, gli istituti di credito si preoccuparono solo ed esclusivamente di far lievitare il volume dei mutui – che si quadruplicarono numericamente nell’arco del triennio 2000-2003 – cosicché le banche d’investimento potessero confezionarli insieme ad altri titoli di debito in un numero esponenzialmente crescente di Collateralized Debt Obligations.
Poco importava se poco meno di un terzo dei mutui erogati appartenessero alla categoria subprime; che fossero stati contratti, cioè, da quella cerchia di individui incapaci di ottemperare ai requisiti minimi richiesti per accedere a qualsiasi forma di credito.
Le banche d’affari, al contrario, offrirono a tutti i mediatori di mercato – cioè agli istituti di credito specializzati in questo campo, come Freddie Mac e Fannie Mae – incentivi finalizzati a stimolare l’erogazione dei mutui subprime poiché questi, una volta cartolarizzati assieme ad altri titoli di debito, avrebbero garantito un margine di interesse assai rilevante ed avrebbero assicuravato, pertanto, guadagni proporzionalmente maggiori.
Non è quindi un caso che il Presidente George W. Bush, nel corso di una dichiarazione risalente al 2002, affermò:
«Io credo nel sogno americano, e possedere una casa è una parte di questo sogno. In America, se possiedi una casa contribuisci a realizzare il sogno americano»4.
Se si prendesse per buono l’enunciato in questione e lo si raffrontasse con l’operato del governo e del Congresso, si potrebbe effettivamente dedurre che le istituzioni statunitensi hanno fatto il possibile (ma anche l’impossibile) per realizzare il “sogno americano”, favorendo la creazione delle condizioni ideali affinché persino i nullatenenti avessero le carte in regola per acquistare immobili e le istituzioni bancarie fossero incentivate ad abbassare, azzerandoli, i propri requisiti di base per l’erogazione dei mutui.
Non meno incisiva in questo senso fu inoltre la linea di politica economica seguita da Alan Greenspan, che in qualità di presidente della Federal Reserve era titolare dell’autorità necessaria – e mai sfruttata per impedire che la bolla immobiliare si gonfiasse – per regolare il mercato dei mutui, in conformità alle norme fissate dall’Home Ownership and Equity Protection Act5.
I bassi tassi di interesse applicati dalla Federal Reserve comportarono infatti una relativa diminuzione dei rischi – cosa che attirò una miriade di nuovi investitori, i quali accumularono enormi masse debitorie – ma creò anche le condizioni affinché si verificasse una esorbitante sovrabbondanza di liquidità in circolazione che prima o poi avrebbe inesorabilmente innescato la classica spirale inflazionistica.
Alla luce dei fatti, tuttavia, emerge un dato incontrovertibile, ovvero che tale linea politica apparentemente suicida fu in realtà seguita per tentare di fronteggiare efficacemente i gravi squilibri che stavano emergendo in seno all’economia statunitense.
Le grandi aziende manifatturiere stavano infatti incontrando crescenti difficoltà a causa della sovrapproduzione di merci immesse in un mercato incapace di assorbirle tutte (nel solo settore automobilistico, la sovrapproduzione lambì il 30% – su 90 milioni di automobili prodotte, solo 60 milioni sarebbero state assorbite dal mercato6 – nel 2010).
L’inevitabile calo di profitti da parte delle imprese dovuto a questo particolare squilibrio avrebbe inevitabilmente provocato un’impennata clamorosa del tasso di disoccupazione, cosa che fu scongiurata proprio attraverso i bassi tassi di interesse imposti dalla Federal Reserve, di cui queste aziende si servirono per rinegoziare il loro debito con le banche.
Parallelamente, la fase di redistribuzione verticale – dal basso all’alto – del reddito, apertasi negli anni ’70 e protrattasi ininterrottamente fino al primo quinquennio del nuovo millennio, minacciava di intaccare l’esorbitante livello di consumi del popolo statunitense, cosa che istituzioni nazionali e bancarie evitarono favorendo l’indebitamento privato attraverso lo sviluppo elefantiaco del credito al consumo.
Ma nonostante gli innumerevoli sforzi profusi per alimentare artificialmente questo sistema, le imprese manifatturiere non stavano riuscendo ugualmente a valorizzare in maniera adeguata i propri capitali, che necessitavano di nuove e più remunerative vie di sbocco, ovvero quelle della speculazione.
Furono quindi tutte queste particolari circostanze eminentemente economiche (e, si badi bene, non finanziarie) a dettare l’agenda degli Stati Uniti, e a determinare scelte politiche che produssero immediatamente effetti estremamente destabilizzanti.
All’esorbitante indebitamento delle famiglie, riguardante prevalentemente il settore immobiliare, andò quindi a sommarsi una parallela e crescente esposizione, che raggiunse i 1200 miliardi di dollari circa verso la metà del 2005, da parte di imprese ed istituti finanziari.
Il risultato che scaturì da questa particolare sinergia fu che il volume dei mutui subprime crebbe da 30 a oltre 600 miliardi di dollari nel giro di un decennio.
E mentre la bolla immobiliare e creditizia andava gonfiandosi a dismisura, i manager di Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Bear Stearns incameravano utili da capogiro, mentre la Lehman Brothers si attestava al primo posto nella classifica delle società operanti con il meccanismo di mutui subprime, cosa che permise al suo Direttore Generale Richard Fuld di incassare bonus di un valore prossimo ai 500 milioni di dollari7.
I facili profitti ottenuti forzarono la mano dei dirigenti delle grandi banche d’investimento, che contrassero debiti crescenti per finanziare l’acquisto di ulteriori mutui da cartolarizzare e immettere sul mercato, raggiungendo ben presto il massimo del rapporto di indebitamento consentito dalle regole fissate dalla Securities and Exchange Commission.
Fu allora che l’Amministratore Delegato di Goldman Sachs Henry Paulson inoltrò a questo organo di controllo un documento all’interno del quale si evidenziava la necessità di innalzare il rapporto di indebitamento, e i funzionari della Securities and Exchange Commission, pressati dal governo e dal Congresso, accolsero questa richiesta.
Una volta assecondate le richieste avanzate dalla Goldman Sachs, le banche d’investimento ebbero modo di raggiungere dei rapporti di indebitamento altissimi ( 33:1 per Bear Stearns8), ponendosi in una condizione particolarmente precaria in cui una piccola alterazione negativa del loro capitale di base le avrebbe esposte al concreto rischio della bancarotta.
Parallelamente, la AIG – il più grande colosso assicurativo del mondo – stava anch’essa immergendosi pericolosamente nel burrascoso mare degli strumenti derivati, vendendo un elevatissimo numero di Credit Default Swaps (CDS), degli strumenti derivati che si riallacciano alla catena dei Collateralized Debt Obligations allungando la filiera delle interconnessioni.
Acquistando Credit Default Swaps, gli investitori assicuravano i propri Collateralized Debt Obligations da eventuali perdite, che la AIG si sobbarcava l’onere di rimborsare.
La speculazione internazionale invase immediatamente il mercato di questi specifici strumenti derivati, il cui acquisto consentiva agli investitori di scommettere sul ribasso dei Collateralized Debt Obligation di cui non erano titolari.
In altre parole, il meccanismo dei Credit Default Swaps permetteva a un numero teoricamente illimitato di investitori di assicurare i Collateralized Debt Obligations detenuti da altri soggetti per fini speculativi, in previsione che questi titoli derivati avrebbero perso il loro valore.
E nel caso in cui questi Collateralized Debt Obligations – la maggior parte dei quali erano finanziati da mutui subprime – si fossero realmente svalutati, la AIG avrebbe dovuto sia rimborsare i loro legittimi proprietari sia saldare il conto con tutti gli speculatori che avevano scommesso sul loro ribasso.
Grazie alla deregolamentazione, il colosso assicurativo in questione non fu vincolato ad accumulare alcun fondo per coprire le eventuali perdite dei Collateralized Debt Obligation assicurati con i Credit Default Swaps, emessi per centinaia di miliardi di dollari.
In compenso, si verificò un boom delle retribuzioni manageriali analogo a quello avvenuto per le banche d’investimento che consentì a Joseph Cassano, al vertice della società, di intascare oltre 300 milioni di dollari di bonus9.
In questo torbido sistema si inserì la Goldman Sachs, che impostò una maestosa manovra speculativa acquistando oltre 20 miliardi di dollari di Credit Default Swaps emessi dalla AIG per scommettere sul ribasso degli stessi Collateralized Debt Obligation che aveva preliminarmente rifilato ai propri azionisti, ammaliati dagli alti rating accordati da Standars & Poor’s, Moody’s e Fitch, che vennero generosamente retribuite dalla banca d’affari per i “generosi” servigi resi.
La situazione venutasi a creare spinse queste banche d’affari ad immettere sul mercato una miriade di Collateralized Debt Obligations di scarsissima qualità ma dall’affidabilità certificata dalle agenzie di rating.
Questa spazzatura finanziaria attirò numerosissimi investitori ma finì puntualmente per fruttare lauti profitti agli stessi istituti che li avevano raccomandati, e che pochi istanti dopo averli rifilati ai propri clienti (i quali avrebbero perso tutto nel giro di pochi mesi) avevano scommesso sulla loro perdita.
Tuttavia, Henry Paulson – Amministratore Delegato di Goldman Sachs – era conscio del fatto che una manovra speculativa di tali dimensioni avrebbe potuto condurre al fallimento della AIG e decise pertanto di spendere circa 150 milioni di dollari per stipulare una polizza assicurativa allo scopo di tutelarsi da questa eventualità.
L’esempio della Goldman Sachs fu emulato da Morgan Stanley, JP Morgan Chase, Merrill Lynch, Lehman Brothers, Citigroup e da tutti gli altri istituti finanziari minori mentre Paulson, nel luglio 2006, rassegnava le proprie dimissione da Amministratore Delegato e vendeva quasi 500 milioni di dollari di azioni della Goldman Sachs per assumere l’incarico di Segretario al Tesoro nel governo di George W. Bush.
Ma i profitti realizzati dalle banche d’affari e dalle compagnie assicurative erano solo apparenti, poiché l’architrave dell’intero sistema era costituito dalla solvibilità dei contraenti dei mutui, che rappresentavano il primo anello della lunga catena di interconnessioni tenute insieme dal vincolo della cartolarizzazione.
Nel luglio 2005 l’autorevole economista Ben Bernanke – che pochi mesi dopo avrebbe ereditato l’incarico di Presidente della Federal Reserve da Alan Greenspan – esecrò pubblicamente lo “scetticismo” nei confronti del mercato propugnato da alcuni analisti (Nouriel Roubini in primis), i quali ritenevano che la bolla immobiliare gonfiatasi a dismisura negli anni precedenti fosse sul punto di scoppiare, cosa che avrebbe potuto devastare gli istituti bancari e bloccare, conseguentemente, la normale attività creditizia mettendo in ginocchio l’economia reale e aprendo pertanto una drammatica fase recessiva.
Ma nonostante le rassicurazioni, la “fiducia nel mercato” cominciò a dissolversi molto velocemente fin da quando iniziarono a verificarsi i primi casi di insolvenza da parte di coloro che avevano contratto mutui ipotecari ad alto rischio, meglio noti come subprime.
In sostanza, l’eccesso di liquidità in circolazione generato dai bassi tassi di interesse applicati dalla Federal Reserve era sul punto di alimentare la tremenda morsa dell’inflazione, spingendo Alan Greenspan ad elevare bruscamente i tassi di interesse – che passarono dall’1% del 2004 al 5% circa del 2007 – provocando un aumento esorbitante delle rate dei mutui a tasso variabile e una drastica contrazione del credito che determinò un forte calo del mercato immobiliare.
Ben presto le insolvenze dei mutuatari aumentarono esponenzialmente, innescando una gigantesca catena di pignoramenti che fece detonare la bomba ad orologeria delle cartolarizzazioni collocata alla base del sistema finanziario statunitense.
Il mercato dei Collateralized Debt Obligations deflagrò violentemente, ripercuotendosi principalmente sulle banche d’investimento più esposte in questo settore.
Nei primi mesi del 2008 (marzo), la Bear Stearns fallì e fu acquistata all’irrisoria cifra di 2 dollari per azione dalla JP Morgan Chase sotto la supervisione della Federal Reserve di Ben Bernanke, che mise sul piatto 30 miliardi di dollari a garanzia dell’operazione.
Nel settembre dello stesso anno, il Segretario al Tesoro Henry Paulson – che non aveva risparmiato dichiarazioni per assicurare la solidità del mercato – annunciò la nazionalizzazione (approvata anche da Bernanke) degli insolventi istituti di credito Freddie Mac e Fannie Mae, che avevano erogato gran parte di quella miriade di mutui subprime richiesti, e poi cartolarizzati assieme ad altri titoli di debito nei Collateralized Debt Obligations, dalle grandi banche d’investimento.
Pochi giorni dopo, la potente banca Lehman Brothers dichiarava perdite per oltre 3 miliardi di dollari e il Direttore Generale Richard Fold si vide costretto a contattare il magnate Warren Buffett offrendogli di investire nel suo istituto, ma l’affare sfumò alla luce del fatto che Buffett aveva appena iniettato 5 miliardi di dollari nelle casse dell’arrancante Goldman Sachs e pose condizioni giudicate inaccettabili per fare altrettanto.
Fold si rivolse allora ai vertici della gigantesca banca commerciale Bank of America, affinché acquisissero l’intera Lehman Brothers a un prezzo ragionevole (e non irrisorio come quello versato dalla JP Morgan Chase per acquisire Bear Stearns), ma gli interessi di questo istituto erano già orientati verso la pericolante Merrill Lynch, che venne infine inglobata per 50 miliardi di dollari.
A quel punto Paulson, Bernanke e il Presidente della Federal Reserve di New York Timothy Geithner si inserirono nell’affare convocando, verso la fine di agosto, gli Amministratori Delegati di tutte le maggiori banche d’investimento per convincerli ad investire congiuntamente nella Lehman Brothers.
Parallelamente, il governo statunitense esercitò forti pressioni sugli organi di controllo britannici affinché non si opponessero all’entrata in campo della banca d’affari inglese Barclays, che aveva mostrato interesse per Lehman Brothers.
Lloyd Blankfein (Goldman Sachs), Jamie Dimon (JP Morgan Chase), John Mack (Morgan Stanley), John Thain (Merrill Lynch) e Vikram Pandit (Citigroup) accettarono di sobbarcarsi i titoli tossici della Lehman Brothers, lasciando che fosse la Barclays ad accaparrarsi la parte redditizia della banca d’investimento prossima alla bancarotta, il cui fallimento avrebbe potuto innescare un’incontrollabile reazione a catena suscettibile di travolgere non solo i loro istituti ma l’intero sistema finanziario statunitense.
Ma tutto si rivelò inutile, in quanto le autorità britanniche posero il proprio veto sull’operazione – puntando il dito contro il governo statunitense, che si era rifiutato di concedere alcuna garanzia finanziaria – e a Paulson, Bernanke e Geithner non rimase che lasciar fallire l’istituto, che era uno dei più vecchi degli Stati Uniti e che aveva usufruito di un buon rating fino a pochi giorni prima.
Il fallimento della Lehman Brothers (15 settembre 2008) provocò un pesantissimo crollo dell’indice Dow Jones e il fatto che il governo non si sia preoccupato di consultare gli altri paesi prima che la banca d’investimento dichiarasse la bancarotta sortì pesantissime ripercussioni in Europa e in molti altri paesi del mondo.
La più eclatante di esse fu una generale e massiccia corsa agli sportelli bancari da parte di innumerevoli correntisti che temevano di perdere tutti i propri risparmi in vista del tracollo dell’intero sistema finanziario, dato per imminente.
Intanto, la AIG aveva cominciato ad accusare i contraccolpi della grande manovra speculativa effettuata dalla Goldman Sachs e di quelle operate da altri soggetti minori, e ben presto si ritrovò a dover onorare oltre 10 miliardi di dollari di rimborsi ai titolari dei Credit Default Swaps senza disporre della liquidità sufficiente per farlo.
Dal momento che l’azienda in questione assicurava banche, compagnie aeree, industrie – anche enormi, come la General Electric – , linee ferroviarie, cantieri, automobili e tantissime altre attività di tutti gli Stati Uniti, la sua insolvenza avrebbe provocato il blocco totale dell’economia statunitense.
Per questa ragione il Segretario al Tesoro Henry Paulson dispose la nazionalizzazione della AIG (7 settembre 2008) immediatamente prima di richiedere al Congresso la concessione di 700 miliardi di dollari destinati al salvataggio del sistema finanziario statunitense.
Non appena il Congresso accolse tale richiesta, la AIG ricevette 85 miliardi di dollari dei contribuenti e 14 di essi vennero immediatamente versati nelle casse della Goldman Sachs per saldare il conto della gigantesca manovra speculativa precedentemente effettuata.
Il risultato di tutto ciò fu una ulteriore concentrazione del potere finanziario nella mani di un oligopolio di grandi istituti che sfruttarono la crisi per inglobare una miriade di banche minori sprovviste della forza necessaria per mantenersi a galla e per ottenere la supremazia non solo nel loro campo specifico di influenza, ma nel più ampio contesto generale.
E tale processo in atto non pare ancora giunto a termine, dal momento che fin dal 2007 Bernanke ha riproposto un abbassamento dei tassi di interesse, che verranno presumibilmente mantenuti tra lo 0 e lo 0,25% per tutto il 2012, ricreando condizioni analoghe a quelle dei primi anni del nuovo millennio.
La sovrabbondanza di liquidità in circolazione provocata da queste recenti scelte della Federal Reserve ha provocato picchi inflazionistici che hanno sfiorato il 4% nel mese di settembre 2011 senza che ciò abbia prodotto alcuna ricaduta positiva sull’economia statunitense, dove il Prodotto Interno Lordo sta crescendo a ritmi molto più contenuti rispetto alle previsioni.
Tutto ciò significa che questi strateghi del capitale usufruirono e stanno ancora usufruendo dell’appoggio delle istituzioni statunitensi – come, appunto, la Federal Reserve e il Dipartimento del Tesoro– controllate proprio da soggetti provenienti dai ranghi delle banche d’affari (Henry Paulson e Larry Summers avevano svolto incarichi di grande rilievo in Goldman Sachs), i quali hanno fatto e stanno continuando a fare il possibile per creare un’anarchia di mercato confacente agli interessi di questi grandi istituti finanziari, che nella fase geostrategica attuale convergono con le primarie necessità nazionali degli Stati Uniti.
Ma non è certo la prima volta che Washington ha scelto di assecondare le manovre escogitate dai grandi potentati, dal momento che in passato gli stessi Richard Nixon ed Henry Kissinger si accordarono con gli alti rappresentanti del cartello petrolifero, eliminando i dazi doganali sulle importazioni di greggio affinché le cosiddette “sette sorelle” (Esso, Mobil, Texaco, Shell, ecc.) inondassero deliberatamente il mercato statunitense con l’oro nero saudita fatto pervenire attraverso la controllata Saudi Aramco.
Ciò costrinse i medi e piccoli estrattori del Texas, della California e degli altri Stati della Federazione a chiudere i battenti alla luce dell’insostenibilità economica della situazione venutasi a creare, il che rafforzò il predominio del potente cartello petrolifero e valse a Nixon e Kissinger il pieno appoggio delle “sette sorelle”.
Tale supporto si rivelò poi fondamentale nello scatenamento dello shock petrolifero – i cui dettagli vennero pianificati di concerto con i Rockefeller e con lo Shah di Persia Reza Pahlavi nel corso della riunione del Gruppo Bilderberg del 1973 a Saltsjoebaden, in Svezia10– del 1973, che compensò la devastante svalutazione, pari al 40%, della moneta statunitense maturata in seguito all’inaugurazione dell’epoca dei cambi fluttuanti – che risale al 15 agosto 1971 – attraverso la quadruplicazione del prezzo del petrolio.
Questa operazione puntellò il ruolo di moneta di riserva internazionale di cui era titolare il dollaro, pur a spese dell’intero comparto industriale degli Stati Uniti che subì pesantemente il drastico aumento del prezzo del petrolio.
Oggi come allora, la crisi si sta rivelando come l’effetto pratico dello scontro tra agenti sociali dominanti che ha consacrato l’affermazione di quelli che il lucido analista William Engdahl ha definito “Gods of money”11, ovvero i dirigenti delle grandi banche d’investimento che attualmente rappresentano il più micidiale braccio armato di cui Washington dispone al fine di salvaguardare la posizione dominante degli Stati Uniti nell’ambito della grande contesa internazionale che tende a rimodellare l’assetto geopolitico mondiale verso una direzione multipolare.
Da questo nuovo shock escogitato dalle autorità statunitensi di concerto con i dirigenti delle grandi banche d’investimento è quindi scaturito uno scenario “ripulito” dai medi e piccoli istituti bancari (oltre al gigante Lehman Brothers), la maggior parte dei quali è stata inglobata dai quattro colossi finanziari sopravvissuti alla “tempesta perfetta”, ovvero Goldman Sachs, Citigroup, JP Morgan Chase e Bank of America (Morgan Stanley è stata parzialmente acquisita dal governo cinese, e va pertanto depennata da questo specifico elenco di istituti).
Ma il prezzo di questa tempesta si è rivelato salatissimo, poiché il salvataggio delle banche in questione ha provocato un’incredibile esplosione del debito federale, che al termine dell’anno fiscale 2010 ha toccato i 13.500 miliardi di dollari.
Il disavanzo pubblico è salito alle stelle e il debito pubblico – già cresciuto enormemente per sostenere i costi della crociata, meglio nota come “guerra al terrorismo”, dichiarata da George W. Bush all’indomani dell’11 settembre 2001 – è giunto a lambire quota 15.000 miliardi di dollari nel maggio 2011, spingendo il successore di Paulson, Timothy Geithner, a decretare la sospensione del versamento ai fondi pensione dei dipendenti federali, in attesa che il Congresso approvasse un innalzamento del tetto massimo del debito.
Il tetto venne innalzato il successivo 2 agosto, e conseguentemente il Dipartimento del Tesoro ottenne l’autorizzazione tecnica per riprendere ad erogare obbligazioni, mentre George Soros e le gemelle del rating concentrarono congiuntamente i propri sforzi sulla Grecia, così da far apparire la valuta europea più debole del dollaro e spingere i mercati internazionali a scartare i bond emessi dal Vecchio Continente a beneficio di quelli statunitensi.
Nel novembre dello stesso anno si verificò una particolarissima concatenazione di eventi.
Allora, in un momento in cui il dollaro si trovava sotto il fuoco incrociato dei mercati internazionali, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch abbassarono il rating della Grecia sostenendo che i suoi dirigenti avevano manipolato di proposito la contabilità nazionale affinché il paese potesse rispondere ai requisiti necessari per aderire all’Eurozona, malgrado tale manipolazione fosse avvenuta sotto la supervisione e il patrocinio di Goldman Sachs e JP Morgan Chase, che erano i principali consulenti finanziari dei governi di Atene responsabili della falsificazione.
Il Primo Ministro greco George Papandreou fu travolto dagli eventi e costretto alle dimissioni a beneficio di Lucas Papademos, che da governatore della Banca Centrale greca nell’arco temporale che va dal 1994 al 2002 aveva concorso primariamente a falsificare i conti del paese.
Eloquentemente, Papademos nominò Petros Christodoulos, un ex operatore della Goldman Sachs, come responsabile dell’organismo che gestisce il debito ellenico dopo che la stessa banca d’affari ebbe effettuato pesanti manovre speculative contro la Grecia.
Parallelamente, qualcosa di analogo accadde in Italia – dove il dimissionario Silvio Berlusconi venne rimpiazzato, sempre “a furor di mercati”, da Mario Monti, ex consigliere internazione di Goldman Sachs – ed anche a livello continentale, dove l’ex Vice-Presidente di Goldman Sachs per l’Europa Mario Draghi fu nominato Governatore della Banca Centrale Europea.
Questa significativa serie di eventi che scosse l’Europa distolse parzialmente l’attenzione generale dalle condizioni reali in cui versavano gli stessi Stati Uniti, il cui indebitamento complessivo toccava il 300% del Prodotto Interno Lordo, cosa che allargava considerevolmente gli orizzonti del problema.
Il disastro economico statunitense rappresenta, infatti, una questione aperta che riguarda anche Cina, Giappone, Russia ad eurozona, i quali mantengono immani riserve di dollari.
La Cina ha indossato per svariati decenni le vesti di principale finanziatore del debito statunitense, investendo parte consistente dei proventi derivanti dall’esportazione delle proprie merci nei Buoni del Tesoro emessi da Washington mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno accettato di aprire il proprio mercato interno ai prodotti cinesi.
Va sottolineato il fatto che gli innumerevoli stimoli monetari esercitati da Obama – succeduto a Bush nel 2008 – e Bernanke hanno ulteriormente allargato la voragine del disavanzo delle partite correnti, un deficit che gli Stati Uniti registrano da anni ma di cui non si sono mai preoccupati finora in virtù del fatto che essendo il dollaro la moneta di riferimento internazionale, per Washington è stato sufficiente stampare dollari ex nihilo per pagare i fornitori esteri, il più rilevante dei quali è proprio la Cina.
Questo sistema ha consentito al popolo nordamericano di vivere per svariati decenni al di sopra delle proprie possibilità e ha funzionato finché la politica e l’economia degli Stati Uniti si sono mantenute solide ed affidabili, ma il declino strategico nazionale combinato con l’instaurazione di questo particolare rapporto con la Cina conferisce ora a Pechino il potere effettivo per controllare l’economia statunitense.
Tuttavia, qualora i governanti cinesi si azzardassero ad approfittare di questa posizione di vantaggio, Washington ritirerebbe istantaneamente le merci cinesi dal mercato statunitense e congelerebbe i patrimoni cinesi in dollari, assestando un colpo durissimo al gigante asiatico.
Nel corso del G20 tenutosi a Londra nel 2009, tuttavia, il governatore della Banca Centrale cinese Zhou Xiao Chuan ha dichiarato che:
«Lo scoppio della crisi e il suo straripamento nel mondo intero riflettono le vulnerabilità inerenti e i rischi sistemici del sistema monetario internazionale»12.
Dietro questo semplice assunto si cela la non troppo velata intenzione, da parte di Pechino, di fare piazza pulita di ogni reclamo statunitense relativo alla sottovalutazione artificiale dello yuan e di lanciare un serio monito ai dirigenti di Washington affinché non operino una svalutazione della propria valuta che ridurrebbe inesorabilmente il valore effettivo delle riserve in dollari detenute nei forzieri cinesi.
Sul piano pratico, intanto, le autorità cinesi si sono limitate a contenere in misura rilevante i propri attivi espressi in dollari e a ridurre drasticamente l’acquisto dei Buoni del Tesoro statunitensi, indebolendo il legame peculiare che unisce Pechino a Washington.
Qualora questo trend dovesse acquisire una stabile continuità, gli Stati Uniti molto difficilmente riuscirebbero a piazzare tutti i Buoni emessi dal Dipartimento del Tesoro.
Malgrado, infatti, tali Buoni continuino ad usufruire del sostegno artificiale accordato dalle agenzie di rating, è assai improbabile che gli acquirenti internazionali riescano ad ovviare alla gigantesca voragine che si aprirebbe con l’eventuale sganciamento cinese.
Qualora ciò dovesse verificarsi – come è assai probabile – gli Stati Uniti si vedrebbero costretti a ripetere più e più volte la desolante vicenda del marzo 2009, quando la Federal Reserve dovette riacquistare 300 miliardi di dollari di Buoni del Tesoro rimasti invenduti, alimentando la pericolosa spirale inflazionistica.
La Cina, inoltre, ha aumentato del 75% le proprie riserve auree, stipulato accordi finanziari specifici slegati dal vincolo del dollaro con potenze regionali e autorizzato i paesi nei confronti dei quali vanta crediti commerciali ad emettere obbligazioni indicizzate allo yuan.
A supporto della strategia cinese intervene, fra l’altro, la tendenza di alcuni paesi produttori di petrolio a liberarsi del dollaro in vista dell’adozione definitiva di una serie di monete alternative.
Appare quindi con estrema chiarezza il quadro che va delineandosi, in cui la Cina punta chiaramente ad una riconversione totale del modello economico mondiale vigente – forgiato sul dollaro e garantito da istituzioni dominate dagli Stati Uniti quali il Fondo Monetario Internazionale (di cui Washington detiene il 17% dell’intera capacità decisionale) e l’Organizzazione Mondiale del Commercio – dalla quale scaturisca un sistema, incardinato su di una moneta caratterizzata da una necessaria connotazione sovranazionale, che rispecchi i reali rapporti di forza, sia militari, che economici, che (soprattutto) demografici, del pianeta.
La posta in gioco è enorme, e la Cina ha la possibilità di fungere da ago della bilancia, in quanto la Russia non dispone di una struttura economica e finanziaria altrettanto solida e radicata, mentre l’Europa versa in una crisi politica – ben prima che economica – che inchioda il Vecchio Continente al consueto immobilismo strategico.
I più recenti vertici del G20 (Londra, Toronto, Seul, Cannes) hanno evidenziato divisioni difficilmente sanabili che sono presumibilmente destinate a corrispondere alle linee di faglia che separeranno gli schieramenti del futuro.
Da un lato, la Gran Bretagna si sta allineando – come di consueto – sulla posizione degli Stati Uniti, arroccandosi in difesa del sistema vigente.
Dall’altro, la Cina si pone in rappresentanza del gruppo di “rinnovatori” che riunisce Russia, India, Brasile, Argentina ed anche, a quanto pare, Giappone.
I paesi europei, lacerati da una miriade di divisioni, stanno facendo di tutto per relegarsi in una posizione di stallo strategico e, privi di una reale consistenza politica, finiranno probabilmente per delegare il loro giudizio alle autorità di Washington, che incasseranno il lauto dividendo strategico.
Ma dal cosiddetto “resto del mondo” stanno giungendo numerosi segnali indicativi del fatto che gli oltre ¾ dell’umanità non accettano più di sottostare alle regole del “Nuovo Secolo Americano”, che gli Stati Uniti stanno tentato di salvaguardare attraverso le manovre effettuate dal loro braccio armato, ovvero dalle potenti banche d’investimento e dalle agenzie di rating uscite rinvigorite da una crisi alquanto carica, come pressoché tutte le grandi crisi economiche, di precisi significati politici e confacente a specifici obiettivi strategici che, nel caso in questione, vertono sul mantenimento della supremazia geopolitica statunitense.
*Giacomo Gabellini è redattore del giornale informatico “Stato & Potenza” (www.statopotenza.eu) e cartografo di “Eurasia”.
1. Milton Friedman, Capitalismo e libertà, Istituto Bruno Leoni, Torino 2010.
2. Il testo integrale della legge è disponibile al sito http://www.scribd.com/doc/29150973/Text-of-the-Glass-Steagall-Act.
3. Il testo integrale della legge è disponibile al sito http://banking.senate.gov/conf/.
4. The Un-American Dream, “Forbes”, 27 agosto 2010.
5. Il testo integrale della legge è disponibile al sito http://apps.americanbar.org/buslaw/committees/CL130000pub/newsletter/200708/natter.pdf.6. L’auto in sovrapproduzione, “Il Sole 24 Ore”, 12 gennaio 2010.7. How Much Did Lehman CEO Dick Fuld Really Make?, “Businessweek”, 29 aprile 2010.
8. The big Takeover, “Rolling Stone”, marzo 2009.
9. AIG’S Joseph Cassano Refuses to Play Fall Guy, “CBS News”, 30 giugno 2010.
10. William Engdahl, L’odierna posizione geopolitica degli USA, “Eurasia”, nr. 3/2010, pp. 55 – 65.
11. William Engdahl, Gods of Money. Wall Stret and the Death of American Century, Engdahl Editions 2010.
12. Perché la valuta cinese non è pronta a sostituire il dollaro, http://www.aspeninstitute.it/aspenia-online/article/perch%C3%A9-la-valuta-cinese-non-%C3%A8-pronta-sostituire-il-dollaro.
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