Fonte: Clarissa.it
La partita che si sta giocando in Medio Oriente sul nucleare iraniano sarà forse una delle prime in cui la classe dirigente mista israelo-occidentale enucleatasi nel corso degli ultimi due decenni, e di cui abbiamo parlato nel nostro Medio Oriente senza pace , sarà messa alla prova.
Può essere interessante vedere da vicino come questa classe dirigente opera in concreto, perché a nostro avviso in questo modo si comprendono molto meglio le ragioni di fondi di comportamenti come quelli del premier italiano Silvio Berlusconi, apparentemente insensati, quando si assume, come appunto ha fatto il primo ministro durante la sua visita in Israele, posizioni sostanzialmente nuove alla politica estera italiana, affermando un completo supporto politico alle posizioni internazionali dello Stato di Israele in un momento tanto delicato per gli equilibri del Vicino Oriente.
Qualche giorno fa, il 3 febbraio scorso, l’autorevole Institute for Policy and Strategy (IPS) israeliano, un think tank che si attribuisce come scopo quello di “formulare indicazioni politiche su temi chiave della sicurezza nazionale con un’enfasi sulla strategia, la politica estera e le relazioni internazionali, i processi regionali e gli accordi diplomatici, l’intelligence ed il governo e le tendenze nel mondo ebraico”, ha organizzato la sua annuale conferenza a Herziliya sulla “valutazione della sicurezza nazionale di Israele”: una occasione utilizzata già da qualche anno dai primi ministri israeliani, in questo caso Benjamin Netanyahu, per interventi ufficiali in materia.
Sappiamo tutti che si tratta di un momento cruciale per lo Stato ebraico: dovrà infatti assumere decisioni importanti nelle prossime settimane, in particolare nei confronti dell’Iran e in merito al processo di pace, arenatosi da un decennio almeno. Decisioni ambedue che si collegano strettamente anche alla valutazione degli orientamenti dell’amministrazione americana e, da qui, mettono in relazione il tema della sicurezza di Israele con gli Stati Uniti, la Nato e l’Europa.
Fra le numerose sessioni in cui si è articolata la conferenza, partiamo proprio da quella dedicata a “Gli Stati Uniti e l’arco di instabilità: Pakistan, Afghanistan, Iraq”. È interessante intanto soffermarci sui partecipanti alla discussione: presiede il dibattito il dr. Neil Livingstone, presidente e amministratore della Executive Action LLC di Washington. Quest’ultima è una società che si occupa di sicurezza in particolare cittadini americani in posizioni di rilievo, mentre Mr. Livingstone è definito sul sito della compagnia “una delle più eminenti autorità nazionali in tema di terrorismo”, addirittura in grado di predire con sei mesi di anticipo gli eventi dell’11 settembre, oltre ad essere stato consulente sui problemi della sicurezza per Ministero degli Esteri, della Difesa e per la Marina militare americana. Nel consiglio di amministrazione di Executive Action siedono personaggi che meritano una certa attenzione: un veterano dei servizi speciali della Marina (SEAL), Gary Stubblefield, operante in questo settore fin dalla guerra del Vietnam; R. James Woolsey, ex capo della CIA; William Sessions, ex direttore dell’FBI; l’ammiraglio James Stark, ora in pensione, ex comandante della flotta atlantica della Nato; per finire una nipote di Winston Churchill, Celia Sandys.
Alla sessione partecipano lay strategist come Colin Kahl, vice assistente Segretario di stato alla Difesa USA per il Medio Oriente e professore alla prestigiosa Georgetown University, un altro specialista di lotta al terrorismo. Kori Schake, docente della Stanford University e della Hoover Institution che da molti anni insegna sicurezza internazionale all’Accademia militare degli Stati Uniti, oltre ad essere stata l’esperta per i problemi della difesa dei candidati alla presidenza McCain e Palin: durante la prima presidenza di George W. Bush, la studiosa è stata anche direttore della sezione Defense Strategy and Requirements del Consiglio Nazionale per la Sicurezza (NSC). Per finire, troviamo il parlamentare europeo tedesco Elmar Brok, componente della delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con gli Stati Uniti e assai noto lobbista per conto del gruppo media Bertelsman, posizione che ha suscitato molte polemiche in Germania.
Non meno interessante il panel dedicato alla “Risposta alla sfida dell’indottrinamento radicale” che è presieduto dall’ex primo ministro spagnolo José Maria Aznar e al quale prendono parte Lady Pauline Neville-Jones, che ha diretto dal 1993 al 1994 un fondamentale organismo politico dell’intelligence alleata fin dalla fine della II Guerra Mondiale, il Joint Intelligence Committee britannico, oltre ad essere stato direttore politico del Foreign Office e attuale “ministro ombra” della sicurezza per il partito conservatore inglese di Cameron. Partecipa poi l’autorevole professore Martin Kramer, un altro degli intellettuali israeliani esperti di politica estera che si dividono fra Usa e Israele: dopo aver lavorato per venticinque anni all’università di Tel Aviv, ha diretto il Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies, oltre a insegnare alla Brandeis University, all’università di Chicago, Cornell e Georgetown, allo Shalem Center di Gerusalemme; è anche membro del Washington Institute for Near East Policy (Winep) di Washington, un think tank pro-israeliano che ha svolto un ruolo fondamentale nell’elaborazione della strategia mediorientale americana, come ho spiegato nel mio libro.
Dell’Iran come “paese sulla soglia del nucleare” e delle conseguenti “potenziali implicazioni strategiche” si occupa un altro gruppo di eminenti personalità, presieduto dal generale della riserva israeliana e attuale vice primo ministro e ministro degli affari strategici nell’attuale governo israeliano, Moshe Ya’alon. Ne fanno parte l’ambasciatore della Confederazione Elvetica in Iran, nonché docente di relazioni internazionali all’università di Francoforte, Tim Guldiman (ricordo che la Svizzera ha curato gli interessi americani in Iran durante il periodo in cui le relazioni fra i due Paesi erano interrotte). L’ambasciatore Guldiman era destinato a rivestire il ruolo di ambasciatore della Svizzera in Israele ma era poi stato posto a capo della missione OCSE in Kosovo.
Con lui, troviamo: Patrick Cronin, altro esperto di problemi strategici, della difesa e di politica internazionale, con una lunga carriera presso numerosi centri di ricerca americani, essendo stato fra l’altro direttore dell’Institute for National Strategic Studies (INSS) della National Defense University, ora direttore del Programma per la Sicurezza dell’Asia e del Pacifico al Center for a New American Security (CNAS); François Heisbourg, presidente di uno dei più prestigiosi centri di studi strategici, l’International Institute for Strategic Studies (IISS) di Londra, di cui era stato direttore dal 1987 al 1992, con un’ampia carriera sia negli uffici di pianificazione del ministero degli esteri e della difesa che nell’industria bellica francese, avendo ricoperto incarichi sia come vicepresidente della Thomson-CSF che della Matra-Défense-Espace. Completa il gruppo un personaggio davvero interessante: sir Michael Pakenham, infatti, è stato anch’egli direttore del già ricordato Joint Intelligence Committee britannico, dal 1997 al 2000, ma attualmente è membro del consiglio di amministrazione di Access Industrie e come tale viene presentato alla conferenza. La Access Inustrie è una importante holding con base a Londra, fondata e diretta dal russo di origine ebraica Len Blavatnik, emigrato negli Usa nel 1978: essa ha il controllo di una numerosa serie di aziende principalmente operanti nel settore dell’energia e dei media, dislocate dall’Europa agli Usa, dal Sudamerica all’India, dalla Russia a Israele. Un’azienda davvero ideale per un ex numero uno dell’intelligence britannica.
Anche i documenti di lavoro della conferenza sono una lettura assai interessante, in quanto documentano l’interpretazione che i settori israeliani più direttamente interessati alle tematiche strategiche e di politica internazionale danno dell’attuale situazione mediorientale: l’idea di fondo è che l’amministrazione Obama finirà per lasciare che l’Iran raggiunga la soglia del nucleare e che, per evitare uno scontro che ritiene controproducente per i suoi rapporti con il mondo islamico, gli Usa sono orientati a ricreare in Medio Oriente quell’equilibrio fondato sulla reciproca deterrenza che avrebbe funzionato, secondo taluni storici, durante la Guerra fredda, nella contrapposizione fra Usa e Urss. A parere degli esperti israeliani, tuttavia, questo approccio è ingenuo perché l’Iran è una potenza pronta ad impegnarsi in una logica di escalation del tutto indipendente da valutazioni di opportunità politica, come sarebbe invece avvenuto nel caso dei sovietici. L’ombrello missilistico che gli Usa stanno approntando nel Golfo Persico e nello stesso Israele, quindi, non garantirebbe affatto la sicurezza dello Stato ebraico, né i deboli regimi della penisola arabica che si affacciano sul Golfo potranno mai svolgere il ruolo di una Nato mediorientale.
Su queste basi ben si comprende il senso di fondo di una simile conferenza e dell’ampia gamma di esperti occidentali che vi sono intervenuti: Israele sta raccogliendo in questo momento cruciale i risultati di un’azione di straordinaria intelligenza e profondità, attuata fin dai primi anni Ottanta (la cui storia ho analizzato in dettaglio in Medio Oriente senza pace), rivolta a costruire intorno alla sua visione del Medio Oriente il consenso della classe dirigente occidentale, orientandola opportunamente. Ricordo a titolo di esempio il fatto che in questi documenti ci si augura ripetutamente che nella New Strategic Concept che dovrà essere discussa nel summit di Lisbona del prossimo novembre 2010, il processo di internazionalizzazione della Nato dovrebbe vederne crescere il ruolo in Medio Oriente attraverso una crescente integrazione operativa con lo Stato ebraico. Una integrazione che per altro ha già fatto passi da gigante, dalle numerose esercitazioni congiunte, fra cui quelle nei cieli italiani di Decimomannu in Sardegna da parte dell’Israeli Air Force, all’accordo del novembre 2007 con la Nato’s Maintenance and Supply Agency (NAMSA) in tema di cooperazione nel supporto logistico, che significa messa a disposizione di materiali e linee di trasporto Nato allo stato ebraico in caso di necessità.
Ma Nato significa oggi il coinvolgimento diretto di quasi tutti i Paesi europei, fra i quali in primo luogo il nostro, come ben sappiamo dal nostro impegno in Libano dopo l’offensiva israeliana del 2007. Un coinvolgimento anche in questo caso crescente, che segue diverse vie: una, appunto è la Nato; ma sappiamo anche che le recenti esercitazioni Juniper Cobra, giunti alla decima edizione (la prima fu nel 2001), fra Israele e Stati Uniti vedevano da parte americana la presenza di contingenti abitualmente schierati in Europa sotto il comando di teatro (Eucom) da cui recentemente è stato scorporata l’area africana (Africom), per focalizzarne maggiormente i compiti. Da ultimo si sa che lo scorso dicembre persino l’Unione Europea ha messo in atto un’esercitazione (CME09) riguardante il coordinamento fra i governi e le linee di comando generale, con ogni evidenza collegata alle problematiche della situazione fra Israele e Iran, e implicante un chiaro messaggio politico per il Medio Oriente.
Nei fatti quindi trova conferma l’analisi sviluppata in Medio Oriente senza pace, non solo sul tema della classe dirigente mista israelo-americana, ma anche su quello dell’allargamento della strategia condivisa fra Usa ed Israele al Mediterraneo ed all’Europa: US-Europe-Israeli Trilateral Relationship: The Strategic Dimension è, non a caso, il titolo di uno dei più interessanti documenti di lavoro presentati al convegno di Herziliya, nel quale, premesso che “il volume attuale degli scambi fra la Nato e Israele è secondo solo alla cooperazione militare Usa-Israele”, si legge che “Israele dovrebbe lottare per sviluppare le sue capacità interoperative con il progetto della Nato e per essere visto come parte integrante della difesa missilistica europea”.
La progressiva delega del quadro strategico mediorientale allo Stato ebraico da parte degli Stati Uniti ha quindi portato con sé un mutamento di fondo della funzione originaria della Nato e, da qui, conduce inevitabilmente alla messa in discussione delle relazioni complessive dell’Europa con il Medio Oriente allargato. Solo se si è consapevoli di quanto l’allineamento atlantico sia stato l’elemento distintivo dell’allineamento delle classi dirigenti europee agli Usa fin dal 1949 e di quanto il nuovo ruolo traente di Israele nella politica mediterranea e mediorientale americana stia influenzando anche le strategie della Nato, si è in grado di comprendere perché, a prescindere dalla sua collocazione “di partito”, un primo ministro italiano assume oggi posizioni così inedite e pericolose per gli interessi reali dell’Italia e della pace.
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