Nel settembre del 2005 il territorio della Striscia di Gaza fu evacuato, non senza forti proteste da parte dei coloni, dagli Israeliani. Il disimpegno unilaterale sionista permise all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) d’assumere il controllo della Striscia, ed a molti profughi di farvi ritorno.Nei due anni successivi, il partito del presidente dell’ANP Muhammad Abbas, Fatah ha mantenuto il controllo della Striscia fino a quando vennero indette nuove elezioni. Nelle elezioni del 2006, giudicate regolari dagli osservatori internazionali, il partito islamista Hamas riportò la vittoria e il territorio dove il partito ottenne il maggiore appoggio popolare fu proprio la Striscia di Gaza. L’Unione Europea e gli Stati Uniti, che considerano Hamas un’organizzazione terroristica, bloccarono l’invio di aiuti verso la Striscia. Nel giugno del 2007, scoppiarono a Gaza scontri tra i militanti di Hamas e Fatah, che si conclusero il 14 giugno quando Hamas riuscì a conquistare la sede militare dell’ANP e ottenne così il controllo dell’intera Striscia di Gaza.
Il blocco della Striscia di Gaza
Sebbene restrizioni alla libertà di movimento degli abitanti della Striscia esistessero da decenni, i confini dell’intera area sono stati bloccati formalmente da Egitto e Israele, i due Paesi confinanti, dal giugno del 2007, quando Hamas conquistò il controllo della Striscia, sostituì Fatah e gli altri ufficiali del governo con i propri uomini e stabilì proprie istituzioni governative. Israele addusse la motivazione secondo cui, non essendo più presente il partito Fatah nella Striscia come garante della sicurezza, si era reso necessario un blocco sul territorio che vietasse tutte le esportazioni e consentisse soltanto l’ingresso di beni sufficienti a evitare una crisi umanitaria o sanitaria. L’Egitto, da parte sua, aveva chiuso la frontiera con Gaza quando erano iniziati gli scontri tra Hamas e Fatah nella Striscia, temendo il passaggio di militanti sul proprio territorio.
La quantità di beni di cui Israele ha permesso l’ingresso nella Striscia dal 2007 corrisponde a circa un quarto di quelli consentiti nel 2005. Secondo le indicazioni fornite da Israele, fu permesso il passaggio dei soli “beni umanitari di base”, ma in realtà manca tutt’oggi una specifica lista che elenchi chiaramente i beni permessi e quelli non permessi. Unica eccezione è la lista, fornita da Israele, dei beni a duplice uso proibiti, come ad esempio tubi d’acciaio e fertilizzanti, che potrebbero, secondo le autorità israeliane, essere utilizzati per la costruzione di razzi. Secondo l’elenco dei beni finora ammessi e non ammessi, stilata dallo UNRWA (l’agenzia della Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi), dall’inizio del blocco sarebbe stato spesso rifiutato l’ingresso, tra gli altri, di beni quali bulbi per lampadine, candele, fiammiferi, libri, strumenti musicali, pennarelli, vestiti, scarpe, materassi, lenzuola, pasta, frutta in scatola, cioccolata, shampoo e balsamo, così come per la maggior parte dei materiali da costruzione. Il blocco di Gaza, inoltre, riguarda anche l’accesso al mare: la marina israeliana ha imposto un blocco navale sul Mediterraneo a partire da tre miglia marittime dalle coste di Gaza, obbligando tutte le navi in arrivo e in partenza da Gaza a subire dei controlli presso il porto di Ashdod.
Israele sostiene che il blocco sia necessario per ostacolare l’approvvigionamento di armi da parte di Hamas e per limitare i lanci di razzi dalla Striscia verso le proprie città.
Il blocco di Gaza crea una situazione estremamente critica dal punto di vista umanitario: in un territorio che si estende per un’area totale di circa 360 km quadrati vive un milione e mezzo di persone, per una densità di popolazione, la più alta al mondo, di più di 4.000 persone per km quadrato. Secondo la FAO, il 61% degli abitanti di Gaza non ha la sicurezza di procacciarsi il cibo necessario alla sopravvivenza, mentre l’UNRWA denuncia come l’80% degli abitanti di Gaza necessiti degli aiuti umanitari per soddisfare il proprio fabbisogno alimentare. Molti abitanti dell’area sono riusciti a sopravvivere finora vendendo tutti i loro beni per procacciarsi del cibo. Nella Striscia è fiorente il mercato nero: i beni proibiti sono introdotti furtivamente nell’area da contrabbandieri, che si servono di cunicoli sotterranei scavati segretamente per permettere il collegamento tra Gaza, Israele e l’Egitto e aggirare così il blocco. Inoltre, l’operazione “Piombo Fuso”, effettuata tra il 2008 e il 2009 dalle forze di difesa israeliane, oltre ad aver causato la morte di più di 1300 palestinesi e 13 israeliani, ha interrotto significativamente la catena di aiuti umanitari verso Gaza e, secondo le stime della FAO, ha causato circa 180 milioni di dollari di danni al settore agricolo della Striscia.
L’alleggerimento del blocco
Recentemente, il giorno 17 giugno 2010, il gabinetto israeliano per la sicurezza ha approvato alcune misure per facilitare l’ingresso a Gaza di “beni ad uso civile”, in particolare materiali come cemento e ferro, sotto supervisione internazionale. Tuttavia, Israele ha dichiarato di voler mantenere il blocco marittimo per prevenire l’afflusso “di armi e di materiali bellici” nella Striscia. Il comunicato del 20 giugno, con cui il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato ufficialmente le misure intraprese dal governo per l’alleggerimento, è breve e schematico; in sei punti vengono enunciate le nuove misure che il governo intende intraprendere e che comprendono: pubblicazione di una lista di beni il cui ingresso è vietato (provvedimento che appare tardivo, tuttavia necessario), allargamento della lista di beni a doppio uso ammessi all’ingresso, incremento delle attività di attraversamento del confine, apertura (se le condizioni di sicurezza lo permetteranno) dei punti di passaggio da e per Gaza, aumento dei permessi di ingresso e uscita per il personale medico e per le organizzazioni umanitarie, promessa da parte del governo di continuare a facilitare il controllo delle navi in ingresso a Gaza presso il porto di Ashdod (il che equivale al mantenimento del blocco navale). Il comunicato si conclude con l’esortazione nei confronti della comunità internazionale affinché faccia pressioni per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, prigioniero dal 2006 (e il cui rapimento scatenò nello stesso anno un’ampia offensiva da parte delle forze di difesa israeliane in territorio libanese).
Precedentemente all’alleggerimento da parte israeliana, anche l’Egitto, il giorno 1 giugno, aveva annunciato di voler riaprire il confine con la Striscia per permettere il passaggio di aiuti umanitari.
Le reazioni internazionali prima e dopo l’alleggerimento del blocco
Alla vigilia dell’alleggerimento del blocco, la situazione internazionale di Israele si era fatta molto difficile. Se l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-2009 era stata in qualche modo giustificata con la necessità di attaccare Hamas nelle sue roccaforti, l’attacco delle forze di difesa israeliane alla Freedom Flottilla, alla fine di maggio 2010, aveva incrinato considerevolmente le relazioni di Israele con molti Paesi, in modo particolare quelli da cui provenivano gli attivisti uccisi durante gli scontri.
Alcuni giorni prima dell’alleggerimento del blocco, il capo della Lega Araba Amr Mussa si era recato in visita nella Striscia di Gaza, la sua prima visita ufficiale, passando attraverso il valico di Rafah al confine con l’Egitto. In quell’occasione aveva espresso aspre critiche nei confronti del blocco, chiedendone la sospensione a nome di tutta la Lega Araba, e aveva invitato i leader di Hamas e Fatah alla riconciliazione.
Più o meno negli stessi giorni, il presidente siriano Bashar Assad e il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan si erano incontrati a Istanbul e avevano discusso un piano di collaborazione per creare un movimento di pressione, a livello internazionale, che spingesse Israele a rimuovere definitivamente il blocco di Gaza. I rapporti di Israele con la Turchia si sono incrinati in modo particolare in seguito ai fatti della Freedom Flottilla, durante i quali hanno perso la vita 9 attivisti di nazionalità turca. Il Primo Ministro Erdogan ha usato parole dure contro Israele e si è unito alla Lega Araba nelle accuse contro il blocco e le politiche seguite dal governo israeliano. Gli Stati Uniti hanno annunciato che a bordo della Flottilla erano presenti anche dei cittadini statunitensi, tra cui un ex ambasciatore, e che alcuni di essi sono stati lievemente feriti. Hillary Clinton ha denunciato la situazione di Gaza e dei suoi abitanti, chiedendo una rimozione del blocco. L’Iran, da parte sua, ha annunciato di voler organizzare una spedizione navale per portare aiuti umanitari a Gaza e rompere il blocco sulla Striscia.
Alla vigilia dell’alleggerimento, insomma, Israele si era trovato in una difficile situazione nei confronti dell’opinione pubblica internazionale. Malgrado i tentativi dei portavoce del governo di giustificare l’assalto alla Flottilla come un’azione per ostacolare l’ingresso a Gaza di attivisti tra i quali si sarebbero nascosti alcuni terroristi, l’immagine del Paese a livello internazionale ne era uscita fortemente deteriorata. Senza contare che la già menzionata operazione “Piombo Fuso” e i recenti contrasti con la Casa Bianca, riguardo il progetto di costruzione di nuovi insediamenti a Gerusalemme Est, avevano già iniziato ad incrinare sensibilmente la posizione israeliana agli occhi di molti dei suoi alleati.
In una tale situazione, Israele si è trovato a dover gestire più fronti di pressione, che chiedevano all’unisono la rimozione del blocco di Gaza: come risposta, il governo ha concesso una frazione di ciò che veniva richiesto. A giudicare dalle dichiarazioni espresse da diversi attori internazionali, la decisione dell’alleggerimento sembra aver portato buoni risultati. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno espresso il loro sostegno alla decisione di Israele, annunciando un incontro a Washington tra Netanyahu e Barack Obama il prossimo 6 luglio. Allo stesso modo, il Quartetto per il Medio Oriente (Nazioni Unite, Unione Europea, Stati Uniti e Russia) ha salutato con favore la decisione israeliana. Dall’UE, l’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune Catherine Ashton ha dichiarato interesse per il piano di alleggerimento, auspicando che presto il governo israeliano riveli tutti i dettagli della sua attuazione. Il Ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha a sua volta dichiarato che l’alleggerimento del blocco è una decisione che l’Italia ha “grandemente apprezzato”, sottolineando come l’azione comune di UE e USA abbia spinto il governo israeliano verso una tale soluzione.
Da parte araba, invece, le posizioni sembrano divergenti. Hamas ha definito le nuove misure come mera “propaganda mediatica”. Il portavoce del movimento, Sami Abu Zuhri, ha dichiarato che Gaza e la sua popolazione non hanno bisogno di un alleggerimento del blocco, ma piuttosto della sua totale sospensione e del ripristino della libertà di passaggio di merci e persone attraverso il confine. A Ramallah, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha definito l’alleggerimento uno “stratagemma di relazioni pubbliche”, spiegando come il blocco costituisca in realtà una violazione del diritto internazionale e la peggiore forma di punizione collettiva. Anche il portavoce del governo giordano, Nabil Sharif, ha sottolineato la necessità di una sospensione totale del blocco, definendo l’alleggerimento una “misura cosmetica”. La Turchia, dopo aver iniziato una decisa campagna di pressione contro il blocco di Gaza, ha reagito con cautela alla decisione di alleggerimento israeliana, spiegando di voler attendere le prossime mosse di Tel Aviv e dichiarandosi in linea di principio favorevole soltanto alla rimozione totale del blocco, piuttosto che ad un suo alleggerimento. Gli altri Paesi arabi, invece, sembrano latitare. Ad eccezione della Siria, il cui presidente Bashar Assad aveva definito “piromane” il governo israeliano, in seguito ai fatti della Freedom Flottilla, e aveva spiegato come le azioni israeliane si stessero risolvendo in un maggiore inasprimento dello scontro. L’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo non sono intervenuti sulla questione, come d’altra parte non stanno intervenendo i Paesi arabi del Nord-Africa. L’Egitto, da parte sua, si trova in una posizione difficile, legato da un lato ai Paesi arabi e alle sorti del popolo palestinese, ma vincolato dall’altro al mantenimento di buone relazioni con Stati Uniti ed Israele, nonché da rapporti freddi con Hamas. La decisione di alleggerire il blocco nel valico di Rafah, sul confine egiziano, sembra rispondere alle pressioni internazionali di parte araba sul Paese di Hosni Mubarak, e, in definitiva, dimostra come anche l’Egitto sia impacciato sulla questione, incapace di prendere una posizione ben precisa.
Da questo scenario emergono, secondo alcuni analisti, due fenomeni complementari tra loro: da un lato il calo di carisma e di spirito di iniziativa da parte dei Paesi arabi, sempre più timidi e in difficoltà di fronte alla questione palestinese; dall’altro si nota una sempre più marcata affermazione sul piano internazionale dell’Iran e, soprattutto, della Turchia, i cui rispettivi dirigenti sembrano essere gli unici in grado di prendere posizioni decise nei confronti del blocco della Striscia di Gaza. Lo stesso Faisal Abu Shala, membro di spicco di Fatah a Gaza durante il precedente governo, ha recentemente accusato i Paesi arabi di aver abbandonato sia il partito Fatah sia il popolo palestinese di Gaza, lasciando che si creassero divisioni a svantaggio della popolazione.
Alcune conclusioni
La notizia dell’alleggerimento del blocco di Gaza è stato accolta da molti attori internazionali come un fatto estremamente positivo, come l’inizio di una nuova politica, da parte di Israele, nei confronti della Striscia di Gaza.
In realtà, la condotta di Israele negli ultimi cinque anni non ha giovato particolarmente all’immagine del Paese nel mondo. L’operazione in Libano dell’estate del 2006 e l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-2009 sono difficilmente giustificabili con la cattura e la detenzione di soldati israeliani da parte di gruppi armati o con il lancio di razzi dalla Striscia sul territorio israeliano. A molti osservatori infatti non è sfuggito come l’entità di queste operazioni non sembri rispettare il criterio di “proporzionalità” che la reazione, in risposta ad un attacco subito, deve presentare secondo le norme di diritto internazionale. E se un certo disappunto agli occhi dell’opinione pubblica internazionale hanno creato queste due operazioni, l’attacco in acque internazionali alla Freedom Flottilla del 2010 ha causato un vero e proprio dissenso nei confronti delle politiche di Israele, da parte non soltanto dell’opinione pubblica, ma anche di diversi governi che fino a poco tempo fa erano alleati di Tel Aviv (uno su tutti, la Turchia). Questo dissenso a livello governativo ha generato un movimento di pressione che ha spinto affinché Israele “riparasse” il danno provocato o, per usare una metafora, allentasse la corda che stava tirando eccessivamente. Un tale gesto, tuttavia, appare più “simbolico” che efficace. Infatti, l’alleggerimento del blocco, così come è formulato nel comunicato del governo israeliano, presuppone la creazione di una lista di beni permessi e vietati che sarebbe dovuta essere presentata già al momento dell’imposizione del blocco, non presuppone l’alleggerimento del blocco navale e non presuppone alcun tipo di dialogo con i rappresentanti della popolazione locale: più che di svolta si dovrebbe parlare di una leggera tregua ad una situazione giunta ad un livello estremo. Questo gesto simbolico, tuttavia, sta giovando fortemente all’immagine di Israele, per lo meno in Occidente.
Infatti, quello che più colpisce, riflettendo sulle azioni israeliane degli ultimi cinque anni, è la reazione degli attori internazionali. I fatti dimostrano come l’uccisione di una ventina di attivisti internazionali riesca a muovere i governi di vari Paesi occidentali e non (basti pensare all’indicazione di Frattini dell’azione congiunta UE-USA o all’attivismo turco dell’ultimo mese), mentre le “attività per la sicurezza” effettuate da Israele, come l’attacco ad un altro Paese, nella fattispecie il Libano, l’assedio alla sua capitale, o il massacro di 1300 palestinesi attraverso l’uso massiccio di armi pesanti nella zona più sovraffollata del mondo, non hanno causato altro che un dissenso a livello di opinione pubblica, senza alcuna presa di posizione ufficiale da parte dei governi. Questo fatto, a mio avviso, è indice di profondo squilibrio nelle valutazioni e nei giudizi che si esprimono riguardo alla questione israelo-palestinese in genere. Con questo non si intende sminuire la gravità dei fatti della Freedom Flottilla, ma si intende piuttosto mettere in luce come le sorti di pochi civili di paesi terzi (o di pochissimi soldati israeliani) sembrino creare più preoccupazione di un milione e mezzo di civili palestinesi costantemente segregati e privati di gran parte dei beni di consumo, più di 1300 palestinesi uccisi e più di 5000 feriti in meno di un mese, nonché la distruzione dell’economia di un’intera regione.
Questo dato è, in ultima analisi, il sintomo più evidente del disequilibrio israelo-palestinese. Disequilibrio che si manifesta soprattutto nei giudizi dell’opinione pubblica internazionale, sempre più assuefatta allo stato di emergenza della Striscia di Gaza, tanto da considerare normale una tale situazione e da ritenere una minima concessione da parte israeliana un grande risultato in vista della pace e della sicurezza comune.
* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)
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