Dal momento dell’apertura al capitalismo internazionale per mano di Deng Xiaoping negli ultimi anni ’70, il mondo ha assistito con meraviglia e apprensione alla rapida e intensa ascesa della Cina.
Se pur imbevuta di contraddizioni e malgrado le previsioni più pessimistiche, la crescita cinese si è rivelata finora inarrestabile ed è finita per cambiare i tradizionali assetti politici non solo del pacifico occidentale – fornendo ampio respiro ai commerci interasiatici – ma dell’intero sistema internazionale.
Si pensi al ventennio 1985-2005: la quota cinese sul prodotto lordo mondiale si triplica e passa dal 4.8% al 12.5%. Basterebbe anche solo questo dato per capire in che misura Pechino possa aver contribuito allo spostamento del baricentro economico globale dall’Atlantico al Pacifico. È venuta a crearsi un’area sinocentrica che comprende non solo il Nord-Est ma anche il Sud-Est asiatico e dunque le “tigri” del modello d’integrazione economica pensato da K. Akamatsu negli anni trenta del novecento (Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong). Ciò che l’economista giapponese non aveva previsto, però, è che proprio la Cina (da lui scarsamente considerata) sarebbe stata in grado di dotarsi delle tecnologie e della flessibilità necessarie per sopravvivere al confronto con le potenze occidentali, spodestare il Giappone e modificare i rapporti nell’Asia confuciana e nel mondo.
Dalla centralità economica a quella politica il passo è breve, se pur ce n’è uno.
Al di là delle differenze e degli eventuali contrasti in materia politica, all’interno del polo confuciano una delle priorità comuni è senza dubbio quella di affrancarsi dall’egemonia statunitense: la Cina, che spinge ormai da tempo per la creazione di un ambiente regionale forte e stabile in grado di bilanciare la presenza americana nell’area, spera oggi di essere percepita dagli asiatici come interlocutore e di porsi come attore di un’alternativa sistemica geopolitica di stampo multipolare.
Un mutamento geopolitico effettivo potrebbe avvenire, peraltro, solo a seguito di un disimpegno degli Stati Uniti dalla regione, tanto atteso quanto improbabile.
In seguito alla riduzione della rilevanza europea, infatti, è cosa nota che l’interesse americano si sia mosso, progressivamente sin dalla presidenza di Clinton, sempre più verso Oriente, concretizzandosi in azioni di politica estera sul Pacifico e nella zona mediorientale. È possibile rintracciare in queste scelte una qualche forma di consequenzialità: l’affievolirsi della centralità strategica del Medio Oriente degli ultimissimi anni ha infatti influenzato il riposizionamento statunitense nell’Asia pacifica.
Tra le dinamiche che hanno orientato la definizione delle priorità americane figurano senza dubbio l’espansione degli scambi commerciali transpacifici e lo stringersi delle interdipendenze tra gli USA e i partner asiatici (alcuni tra i principali finanziatori del debito statunitense); a destare l’attenzione e l’apprensione del presidente Bush, prima, e di Obama, poi, rimangono comunque l’elevazione a potenza economica competitiva della Cina e l’avvicinamento di quest’ultima ad un’altra grande potenza asiatica: l’India. L’affiancamento tra la più antica democrazia dell’Asia e il polo confuciano ha subito suscitato una combinazione di sentimenti di panico e stupore: l’America allora, in virtù della politica del congagement (contenimento militare e coinvolgimento economico), si è affrettata a chiudere accordi e a stringere i rapporti con l’India così come, procedendo per logica di accerchiamento, aveva già fatto con altri paesi dell’area.
La relazione sino-statunitense viene dunque ad essere un equilibro precario tra collaborazione e competizione, oltre che un fritto misto di paradossi: si pensi alla centralità del mercato americano per la crescita cinese, agli investimenti e le delocalizzazioni statunitensi in Cina, a tutti gli interessi condivisi e alle dipendenze reciproche di queste potenze che vivono poi, di fatti, in una mal celata rivalità catalizzata proprio dall’ascesa economica di Pechino.
È in questo clima che l’America ha avvertito l’esigenza di concentrare impegno e risorse in Estremo Oriente: nasce così la strategia di Obama del Pivot to Asia.
Gli USA hanno necessità di mantenere una stabilità regionale nei principali spazi comuni (come le rotte marittime), il desiderio di espandere ulteriormente gli scambi commerciali e il bisogno di contenere la Cina dettando i modi e i tempi di raggiungimento della sua piena integrazione a livello regionale e internazionale. I mezzi di soddisfazione degli obiettivi preposti passano, chiaramente, per il potenziamento della presenza militare americana sul territorio.
La finalità ultima dell’Asia Pivot è quella di riaffermare la leadership statunitense e il ruolo di garante della sicurezza, da sempre interpretato da Washington, cullandosi sulle preoccupazioni “sino-fobiche” ormai radicate nell’opinione pubblica.
Punto di forza della strategia, sarebbe l’ormai decennale alleanza con il Giappone che prevede una delega di parte della sovranità nipponica agli USA che hanno così potuto insediare basi sul territorio ed estendere la linea di contenimento della Cina. Peraltro, per quanto la relazione nippo-americana sembri profonda e forte, nel corso del tempo è stata spesso contestata dai nazionalisti giapponesi stanchi della presenza militare statunitense e dei limiti all’indipendenza del paese che ne derivano.
Quello che rimane da capire è fino a che punto le preoccupazioni nei confronti della potenza cinese e di una sua probabile sterzata verso un “revisionismo aggressivo”, intorno a cui gravitano le recenti scelte della superpotenza americana, trovino riscontro nelle reali intensioni di Pechino.
La Cina è geoeconomicamente una potenza soddisfatta: è la seconda autorità economica nel mondo (la prima per il commercio), è nello stesso momento meta di IDE e grande investitore su scala globale, ha saputo sfruttare al meglio, in sintesi, l’avvento della globalizzazione. Ciò che è necessario tener presente è che il gigante asiatico non è intenzionato a porsi come “forza missionaria”, non tenta di espandere il proprio modello socio-economico o politico: ha adottato una diplomazia neobismarkiana, impegnandosi a non apparire, né tanto meno divenire, una minaccia per l’ordine internazionale. Per alcuni dei motivi già segnalati, inoltre, anche da un punto di vista geoculturale la Cina ha dato prova di grande abilità nell’esercizio del soft power, adoperando una politica estera di stampo tutt’altro che militare, estendendo di molto la sua influenza nei paesi in via di sviluppo.
“Non abbiamo bisogno di niente, possediamo già tutto”: ciò che Chien Lung, imperatore cinese, disse respingendo le offerte di Giorgio III nel diciottesimo secolo, pare oggi una risposta plausibile ai più.
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