In un presente che appare sempre più incerto, una delle poche certezze è che le dinamiche innescate nei giorni della pandemia incideranno profondamente sul futuro assetto politico-economico mondiale. Con un Vecchio Continente lacerato e in forte crisi e con la potenza statunitense impegnata a riprogrammare il proprio futuro internazionale all’insegna del proclama America First, entreremo definitivamente nell’era asiatica? Le potenze asiatiche saranno le stelle polari che orienteranno la navigazione nel nuovo mondo post pandemico?
“Un’Asia multipolare in un mondo multipolare”
A differenza degli altri continenti, dare una definizione univoca ed esaustiva di quello asiatico è tutt’altro che facile; per Parag Khanna[1], politologo ed esperto di relazioni internazionali, “l’Asia non è un continente, l’Asia è una regione; piuttosto più corretto parlare di Eurasia [come] un mega continente di cui l’Asia è la più grande regione all’interno e che ha molte sotto-regioni: Asia occidentale, Asia meridionale, Asia centrale, Asia orientale, Sud-est asiatico e così via”.
Molto più grande della sola Cina, il sistema asiatico degli ultimi decenni si caratterizza come un ordine multipolare che spazia dall’Arabia Saudita al Giappone e dalla Russia all’Australia e che collega cinque miliardi di persone attraverso reti commerciali, finanziarie e infrastrutturali le quali insieme rappresentano – dato anteriore alla pandemia – il 40% dell’intero PIL globale.
Fermo restando che il Dragone è la potenza emersa con maggior forza e che Pechino ha assunto il ruolo di guida dello sviluppo asiatico, Khanna è certo che la Cina “non lo guiderà da sola”. Non è peregrino, infatti, affermare che “l’Asia stia tornando all’ordine multipolare stabile che esisteva molto prima del colonialismo europeo e del dominio americano, con l’India e il Sud-est asiatico che si insinuavano come snodi economici e strategici. Alla fine stanno emergendo società grandi ma dormienti, dall’Iran all’Indonesia, società brulicanti di giovani e urbani, ambiziosi e imprenditoriali, mentre dall’Arabia Saudita al Vietnam, la privatizzazione sta sbloccando una nuova ondata di crescita. Gli asiatici condividono modelli economici e di governance come mai prima d’ora e la loro fiduciosa spinta verso l’esterno sta rimodellando la vita commerciale e culturale in Nord America ed Europa, Sud America e Africa”.
Capire l’Asia e le dinamiche che la caratterizzano, dunque, diventa operazione essenziale per potersi orientare nel prossimo futuro. Per fare ciò lo studioso statunitense invita ad imparare una lezione fondamentale: la regione asiatica non ha solo una grande popolazione che le permetterà di far crescere l’economia in modo autonomo, ma può contare anche su governi forti che, nei giorni drammatici della pandemia, si sono dimostrati in grado di rispondere efficacemente ad un’emergenza improvvisa e pericolosa.
I Paesi asiatici, quindi, escono dalla pandemia in “buona salute” e pronti a ripartire: “la Cina è riuscita a reprimere la pandemia e ha riaperto la sua economia; vediamo accadere gradualmente la stessa cosa in Giappone e in Australia; la Nuova Zelanda si è aperta così come la Corea; a Singapore l’economia si sta via via stabilizzando; adesso c’è più mobilità, si può viaggiare e volare tra paesi sicuri e stabili; si può, dunque, affermare che gli asiatici hanno saputo usare in modo corretto tecnologia e pratiche di buon governo”.
Spostiamo, allora, il focus su Pechino e sull’immagine che la Cina ha proiettato in tutto il mondo nei giorni dell’apice della pandemia. Parag Khanna afferma che “in termini di immagine e reputazione, ovviamente, la Cina ne esce molto male”, ma questa tendenza è tutt’altro che legata al diffondersi del virus dal momento che “il sospetto nei confronti della Cina, la crescente diffidenza nei confronti di Pechino, le preoccupazioni sulle aspirazioni egemoniche cinesi sono argomenti su cui ho posto l’attenzione nel mio libro Il secolo asiatico, uscito nel 2019”.
Questo sospetto tenderà ad aumentare soprattutto sulla scia della versione conformista costruita intorno al racconto della pandemia; le ombre che ricadono sull’operato del Governo cinese nei giorni dell’emergenza, inoltre, “accelereranno il desiderio di altre potenze regionali – penso all’India e al Giappone – di affermarsi e di mettere in chiaro che non hanno nessuna intenzione di essere dominati dagli interessi cinesi”.
Sul piano internazionale più ampio, sembrano esserci pochi dubbi su cosa sia lecito aspettarsi: “da quindici anni la mia tesi è stata che siamo in un mondo multipolare. Siamo contemporaneamente in un mondo nordamericano, europeo e asiatico. Non solo il mondo è multipolare, ma l’Asia stessa è multipolare perché la Cina non è la potenza egemonica dal momento che esistono molteplici potenze; la Cina è la più forte, certo, ma non domina tutte le altre”.
Fallito il Pivot to East statunitense, si prospetta adesso la concreta possibilità di assistere ad un Pivot to West, una spinta che accentuerà l’asiatizzazione a livello globale; “la Cina ha lasciato una grande impronta, Pechino è la più grande economia del mondo e ospita il maggior numero di persone al mondo, ma questa estrapolazione lineare dei dati non è una buona base per credere che tutto, in futuro, avrà caratteristiche cinesi. Il futuro non avrà più soltanto caratteristiche cinesi; penso che sia sempre un errore fare proiezioni lineari in un mondo complesso. Si dovrà tenere conto dei circuiti di feedback che limiteranno l’influenza cinese sull’espansionismo”.
Quello che è certo è che l’emergenza avrà dato una accelerazione a tendenze già in corso: l’economia sarà lenta ancora per qualche tempo, assisteremo ad una maggiore automazione del lavoro, ad un aumento degli investimenti in automazione e tecnologie robotiche, ad un rilancio di discussioni inerenti a un reddito di base universale o assicurazione salariale. “Questi sono alcuni esempi di tendenze in atto che subiranno una accelerata e queste dinamiche avverranno in una sorta di sistema globale comune, in una civiltà globale comune, in una comunità dal destino condiviso in cui dobbiamo anche avere regole che governano le nostre interazioni; sia le potenze orientali che occidentali devono imparare a modellare tali regole insieme, non solo individualmente perché viviamo in questo mondo multipolare dove nessuno il potere può imporsi sugli altri”.
Se le regole del gioco internazionale dovessero realmente cambiare, sostiene Khanna, tale processo dovrebbe basarsi sulla reciprocità, la regola più importante.
“Pechino esce dalla pandemia con la supremazia tecnologica”
Nell’immediato, la ripresa mondiale sarà trainata dalla locomotiva asiatica la cui crescita continentale continuerà ad aumentare rispetto al tasso di crescita globale.
Così, almeno, la pensano gli analisti del Boao Forum for Asia che nel rapporto Asian Economic Outlook and Integration Progress[2]. Il vice presidente Zhou Xiaochuan, ex governatore della Banca Centrale di Pechino, ha dichiarato che “in quanto parte importante del commercio, della produzione e degli investimenti globali, l’Asia ha subìto grossi contraccolpi a causa della pandemia. Tuttavia le economie asiatiche hanno una forte resilienza, grandi mercati e un ceto medio in rapida espansione, bilance dei pagamenti e condizioni fiscali migliorate, continui investimenti in capitale umano e un’economia digitale in piena esplosione”.
Di Cina si è scritto molto prima e durante la pandemia (e sicuramente ne scriverà tanto nel prossimo futuro) e, in questa sede, ci limiteremo ad un breve passaggio a volo d’uccello sull’imminente futuro che attende il Pechino che, in questo 2020, varerà il nuovo piano economico quinquennale la cui parola d’ordine potrebbe essere autarchia; il rilancio del Paese avverrà in un contesto internazionale sempre più ostile nei confronti della Cina e, per questa ragione, il Governo Xi Jinping potrebbe puntare al rafforzamento del mercato interno, sull’innovazione tecnologica indigena e sugli investimenti in capitale umano autoctono con rinnovata fiducia nei propri mezzi e un forte esercito.
D’altronde la Cina ha una classe media che da sola sarebbe sufficiente a garantire al Paese uno sviluppo autonomo, in un contesto internazionale esacerbato dall’emergenza COVID-19, da guerre commerciali e tecnologiche più o meno palesi e da una diffusa ostilità occidentale nei confronti di Pechino.
Maria Moreni[3] è dell’opinione che, al momento, l’immagine della Cina nel mondo sia viziata da una affermazione pubblica di “una visione filotrumpiana per la quale Pechino è il nemico pubblico perché tutto è cominciato a Wuhan, ma in realtà questo nasconde la paura oggettiva che si ha della supremazia tecnologica cinese e della sua capacità di gestione della complessità dei dati. Siamo in un momento in cui abbiamo i cinesi e i nemici del popolo cinese”.
Quel che è certo è che nel prossimo lustro si verificheranno cambiamenti mai visti nell’ultimo secolo, anche perché il gioco strategico tra superpotenze si è intensificato mentre l’ordine globale si sta riorganizzando; la globalizzazione – mutuando le parole del Presidente statunitense Donald J. Trump – è finita e il vecchio sistema commerciale ha mostrato tutte le sue debolezze ed è sotto pressione.
La classe media occidentale è in decadenza, mentre quella del continente asiatico è in forte ascesa, soprattutto in Cina; con il tasso di disoccupazione destinato a toccare cifre superiori a quelle registrate nei giorni susseguenti la crisi del 1929, si renderà dunque necessaria una valutazione di svolta pragmatica votata alla sopravvivenza economica che guardi ad Oriente piuttosto che insistere sul bloccato mercato occidentale.
Una scelta incombente che – volente o nolente – riguarderà anche l’Italia, paese che molti vogliono e vedono come gregario, incapace di sfruttare a pieno le opportunità date dalla firma del Memorandum di Intesa con Pechino – stipulato a Roma nel marzo del 2019 – disorientato davanti alla forte ascesa cinese e diviso sulla posizione da assumere nei riguardi del Dragone soprattutto da un retaggio ideologico da cui appare impossibilitato a staccarsi per proiettarsi pienamente nella post-contemporaneità, era in cui la Storia si è rimessa in marcia ma senza indicare al mondo la direzione.
“Da Pechino – dice Moreni – c’è non solo l’apertura ma anche forte determinazione a seguire la strada della cooperazione con l’Italia. Dal punto di vista cinese, l’atteggiamento è estremamente aperto, collaborativo e volto alla volontà di conoscenza reciproca. I Cinesi si attendono una risposta da parte italiana”.
Vedremo se Roma di fronte al forte vento che soffia da Oriente costruirà un muro oppure un mulino.
Quel che è certo è che l’Occidente non può più permettersi di ignorare il cambiamento dei rapporti di forza con l’Oriente. In quest’ottica, appare, quindi, fondamentale una maggiore comprensione dell’orizzonte asiatico e, in più in particolare, cinese, non soltanto in termini economico-utilitaristici ma soprattutto culturali. “Il mondo occidentale, purtroppo, non riesce a capirne la buona fede. I Cinesi sono un popolo che agisce veramente con il cuore”.
La chiave di volta è avere fiducia nelle azioni del popolo e del Governo cinese, ma è difficile per il campo occidentale comprendere come la Cina – parafrasando Thierry Meyssan – si muova seguendo i principi ereditati dall’azione dell’imperatore Zhou[4] cercando di forgiare le proprie relazioni in modo che tutta l’umanità viva in modo armonioso sotto lo stesso cielo (Tianxia) assicurando accordi basati sul principio del reciproco vantaggio che apportino un qualche vantaggio a tutte le parti interessate e coinvolte.
Intanto il mondo, il mercato e l’economia, incuranti delle serrate governative globali sono andati avanti ed “il digitale – sostiene fortemente Maria Moreni – è diventata una necessità, non più un’opzione ma una priorità, non esiste un piano B. Punto. La Cina esce da questa pandemia come il Paese che ha la leadership nel settore della digitalizzazione”.
Questa supremazia tecnologica cinese sarà al centro di una nuova guerra tecnologica tra Pechino e Washington di cui, al momento, si possono soltanto intuire i connotati e i risvolti.
Già Putin nel 2017 aveva intuito che l’intelligenza artificiale sarebbe stata al centro di nuove tensioni e contese (“Chi sviluppa la migliore, governa il mondo”) adesso sia alla Casa Bianca che a Zhongnanhai, infatti, si crede che il controllo sulle tecnologie emergenti determinerà il futuro dell’ordine mondiale e questa competizione tra le due superpotenze del mondo è al centro dei riallineamenti politici in atto con sullo sfondo dell’agenda ambiziosa definita da Xi Jinping ha per una nuova era in cui la nazione vorrà vestire i panni di leader globale in termini di forza nazionale composita e influenza internazionale entro la metà di questo ventunesimo secolo.
“Mosca seguirà una politica di non interferenza”
Tra Washington e Pechino, Mosca.
Feodor Lukjanov, direttore delle ricerche del Valdai Club, ha rilanciato sull’agenzia di stampa russa Tass l’idea che la Federazione Russa dovrebbe evitare di farsi trascinare nello scontro frontale tre Stati Uniti e Cina costruendo con dovizia un “sistema di contrappesi per posizionare noi stessi nel nuovo mondo, in una nuova maniera”.
Leonid Savin prevede che Mosca seguirà una politica di non interferenza.
“Putin potrà fornire una piattaforma di negoziazione, ma questa non sarà apprezzata né dalla Cina e né dagli Stati Uniti poiché Pechino è abbastanza potente da parlare direttamente con Washington. Potrebbe esserci un solo interesse da parte degli Stati Uniti: usare la Russia contro la Cina, un trucco che in questo regime di sanzioni e di pressioni varie da parte dell’Occidente non può portare da nessuna parte”.
Mosca, d’altronde, è stata etichettata come terribile minaccia in tutte le dottrine strategiche elaborate dagli Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Quale futuro dovremmo attenderci, allora? Secondo Savin, “dal punto di vista geopolitico l’attuale pandemia di COVID-19 è solo un altro elemento nel quadro della riconfigurazione dell’ordine mondiale e sembra molto efficace parlare di economie, catene commerciali, settore industriale, ecc. Molti sono consapevoli dei nuovi orizzonti del sistema internazionale e del collasso del liberalismo; […] la plutocrazia sopravviverà, quindi non possiamo parlare della fine del capitalismo o dell’egemonia neoliberale dopo il coronavirus.
Gli sforzi e le sofferenze patite dalle popolazioni durante la pandemia porteranno alla nascita di nuove reti di solidarietà internazionali nonché a nuovi tipi di confini all’interno delle nostre menti. Un’altra lezione importante da imparare sarà l’ascesa del contro-consumismo. Molte persone hanno capito di essere state coinvolte e inquadrate dal sistema capitalista contemporaneo, ma l’essere umano è qualcosa di più di un semplice utente di servizi e mangiatore di prodotti (in tutti i sensi)”.
Nei primi giorni successivi alla dichiarazione di pandemia da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Aleksandr Dugin parlò di fine della globalizzazione e di imminente ritorno alle società chiuse; per Savin, quello prospettato dal filosofo e collega non è che “uno scenario ottimistico, ma il nemico è ancora molto forte. Anche personaggi di spicco che hanno promosso la globalizzazione e la leadership degli Stati Uniti negli ultimi decenni, come Joseph Nye Jr. e Richard Haas, parlano della necessità di ripensare ciò che accade. Stanno riorganizzando. Se alcune banche un secolo fa sostenevano Hitler e allo stesso tempo i suoi avversari, perché potevano mettere le uova in diversi cestini incluso il nazionalismo conservatore? È bello tagliare tutte le dita al club globalista, ma quale sarà il prossimo? Dovrebbe esserci uno scenario alternativo molto efficace mai visto prima. Non come il modello cinese di prosperità, ma qualcosa in conformità con i valori / interessi di tutte le nazioni. Significa che nuove regole devono essere sviluppate in profondità da noi stessi, non dalle élite politiche dei nostri giorni che sono felici di relazioni consolidate e vogliono solo più potere o cambiare equilibrio. In generale, abbiamo bisogno di una nuova teoria delle relazioni internazionali”.
Per quel che concerne il rapporto tra Potenze, “esistono abbastanza teorie sull’offshore bilancing, sul neorealismo, sul multilateralismo e sulla leadership che sembrano le principali carte operative nelle tasche di potenti attori. Ma ci sono anche fattori di cicli eccessivi ed egemonici che ci mostrano un declino degli Stati Uniti. Adesso ci interfacciamo con la realtà di una emergente multipolarità. Però, questa non si è ancora formata e molti attori possono ottenere benefici in futuro se saranno abbastanza intelligenti”.
Il futuro posizionamento di Mosca influenzerà anche i rapporti con l’Europa. L’idea fissa di Heartland eurasiatico e Pivot della Storia ha ancora effetto sulle menti degli strateghi americani e così “stanno costruendo delle favole sulla codardia della Russia e sul suo terribile popolo. La realtà, però, è lontana da questa propaganda poiché la Russia è amica di molti paesi europei e ci sono legami storici organici che durano da i secoli”; il problema è i Paesi dell’Unione europea seguono pedissequamente i dettami dell’agenda NATO che Bruxelles provvede a recapitare agli Stati membri; Unione europea le cui profonde lacerazioni interne e contraddizioni sono emerse durante i giorni più critici dell’epidemia e per la quale Savin prevede tre scenari possibili nel futuro prossimo: “il primo è la stagnazione nell’agenda transatlantica, il che significa declino e decadimento della civiltà, inclusa la continuazione del flusso migratorio; il secondo è il tentativo di tornare alle proprie radici, un ritorno dell’esclusività, uno scenario che sembra l’ideale per i movimenti nazionalisti[5] e gruppi identitari ma che è molto difficile da portare avanti; il terzo è il riconoscimento che l’Europa storica è solo una piccola penisola occidentale dell’Eurasia, sovraffollata, ma parte organica del continente. È uno scenario inclusivo e, dal mio punto di vista, una sorta di lieto fine per gli europei”.
Riprendiamo, in chiusura di paragrafo, le dichiarazioni di quel Feodor Lukjanov con le quali lo avevamo iniziato: “credo che India e Russia possano giocare il ruolo dei condottieri” nel nuovo mondo; sfruttando il braccio di ferro tra Washington e Pechino, il Cremlino intenderebbe accelerare il processo di costruzione di un’Eurasia unita e multipolare con la creazione di un asse Mosca – Nuova Delhi, la base di partenza per portare l’India nel processo di transizione al multipolarismo non sino-centrico.
“L’India non vuole seguire la leadership cinese”
Sin dall’indipendenza l’India sposò un atteggiamento di indipendenza, cercando di perseguire l’autonomia strategica ed economica evitando alleanze militari e con gruppi economici; nonostante i numerosi cambiamenti nella sua politica estera e nel suo sistema economico dalla fine del bipolarismo nel 1991, il Paese rimane un valore anomalo sullo scacchiere asiatico e internazionale.
Se la Cina è, ad oggi, la potenza definitivamente emersa in Asia, molti analisti considerano l’India come l’aspirante egemone di domani ma la pandemia potrebbe aver rallentato questo processo; “molti settori dell’economia – parlare è l’analista Côme Carpentier de Gourdon[6] – già di per sé lenta sono stati colpiti duramente e le banche che erano gravate da elevati volumi di Non Performing Assets non sono in grado di aiutare molto. Il Governo sta cercando di stimolare l’economia principalmente dal lato dell’offerta, ma il lato della domanda è depresso e l’essiccamento degli investimenti stranieri, le rimesse straniere da parte di lavoratori espatriati e il turismo straniero potrebbero non essere completamente compensati da fattori positivi come ad esempio i bassi prezzi dell’energia. Per questi motivi, la crescita economica indiana potrebbe essere lenta per alcuni anni mentre sono in corso riforme necessarie per eliminare alcune regole e procedure amministrative e burocratiche obsolete”.
In generale, “l’Asia (soprattutto orientale) è una regione in aumento e questa tendenza continuerà almeno per alcuni dei paesi che possono controllare i loro problemi interni in un contesto economico e strategico mutato e resistere alle pressioni esterne di nemici e rivali. Tuttavia, molti stati come il Pakistan, il Bangladesh, l’Indonesia, il Myanmar e le Filippine continueranno a lottare con le principali sfide demografiche, ambientali, culturali, religiose e socio-politiche che sul lungo periodo potrebbero immergerle in disordini e difficoltà economiche”.
È improbabile, però, che l’Asia rappresenti un’area uniformemente prospera e pacifica (la Cina e entrambe le Coree possono anche sperimentare emozioni interne e disordini socio-politici secondo l’analista Carpentier de Gourdon) ma in questo scenario l’India nonostante le difficoltà contingenti, rimane è un attore di primo piano destinato a diventare una potenza mondiale e può giocarsi le proprie carte poiché il Governo di Nuova Delhi sembra intenzionato ad uscire dall’isolamento internazionale in cui si era rifugiato in modo da “massimizzare la sua influenza giocando il ruolo di un potere di bilanciamento tra Stati Uniti, Cina e altri attori importanti come Europa, Russia e Giappone”.
Per farlo, “l’India deve, però, resistere alle pressioni degli Stati Uniti e della Cina di schierarsi da una parte contro l’altra. L’India, se pienamente allineata con Washington, perderebbe molto del suo peso e attirerebbe l’ostilità da parte di Cina, Iran e persino nazioni musulmane (per non parlare di ampi segmenti della propria popolazione), ma l’India non vuole seguire la leadership cinese come alcuni altri paesi nella regione stanno facendo”.
Nel nuovo bipolarismo internazionale che sembra profilarsi all’orizzonte, attraverso il Bay of Bengal Initiative for Multi-Sectoral Technical and Economic Cooperation (BIMSTEC) ed altre iniziative simili, l’India non dimentica la sua antica area di influenza (Indocina e Sudest asiatico) anche se “un’altra arena di grande importanza saranno i paesi del bordo dell’Oceano Indiano (IOR), dal Sudafrica all’Australia e principalmente le nazioni insulari del Mar Arabico e dell’Oceano Indiano”.
Nuova Delhi guarda anche al Golfo Persico, regione dove “avrà l’opportunità di giocare un ruolo più importante nella penisola arabica e nell’adiacente Iraq e Siria dove già Russia e Cina stanno estendendo la loro influenza. Il subcontinente indiano, infatti, è un grande acquirente di petrolio e gas da quella regione e ha una vasta e fondamentale importanza in quegli stati. A questo proposito, la principale sfida sarà quella di migliorare le relazioni con entrambi gli Stati arabi del Sud (relazioni antiche e strette sono le relazioni con Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Yemen e Oman, tra gli altri) e l’Iran nel nord del Golfo”.
L’India ha anche un essenziale interesse ad aumentare le sue interazioni economiche e culturali con l’Europa e la possibilità di acquisire know-how tecnologico dal Vecchio Continente rappresenta un’alternativa che viene considerata come non minacciosa né dagli Stati Uniti né dalla Repubblica Popolare Cinese, ma “un’Europa più debole e più povera sarà meno capace di collaborare con paesi lontani e di proiettare il suo potere[7]”.
“La pandemia determinerà una distruzione di capacità produttiva anche nel mercato dell’energia ad oggi non ancora stimabile”
L’Asia è anche gas e petrolio ed ogni pipeline definisce una serie di relazioni industriali, diplomatiche e geopolitiche. In questo ambito, il Covid19 non ha fatto altro che accelerare le dinamiche di tensione più o meno latente tra le grandi potenze produttrici che si protraeva da tempo[8]; per Demostenes Floros[9], analista energetico, “la pandemia, infatti, determinerà una distruzione di capacità produttiva anche nel mercato dell’energia, ad oggi non ancora stimabile. Nel contempo, si verificheranno una serie di processi di concentrazione e centralizzazione del capitale, a partire anzitutto dagli Stati Uniti d’America. Coloro i quali ritengono che siamo prossimi ad un’accelerazione della transizione energetica verso le rinnovabili credo che sbaglino. Penso invece che si determinerà una transizione della proprietà da privata a nazionale che farà emergere il ruolo centrale delle major che sono sotto la proprietà/controllo dei rispettivi Stati nazionali o che godono del supporto dei “Fondi Sovrani”.
Sullo sfondo, emergerà in maniera sempre più chiara il ruolo centrale che il gas naturale avrà nell’accompagnarci verso il mondo delle rinnovabili ma “nessuno potrà garantirci che tale passaggio avverrà pacificamente, né che non sia necessario un vero e proprio cambiamento dell’intero paradigma economico”.
In questa nuova guerra petrolifera, l’Asia giocherà un ruolo di primo piano dal momento che può contare su alcuni tra i più grandi produttori energetici mondiali: “l’Arabia Saudita, per esempio, gode di due vantaggi: in primo luogo, è il Paese con i più bassi costi di estrazione al mondo; in secondo luogo, può contare sul sostegno finanziario del Fondo Sovrano nazionale, undicesimo per valore su scala globale con circa 320 miliardi di dollari (erano 720 miliardi di dollari nel 2014)[10]”; nel contempo, la Cina è divenuta il principale importatore di greggio e gas naturale al mondo con 13.600.000 b/g (il cui primo fornitore è proprio Riad con 1.670.000 b/g nel 2019, seguita a strettissimo giro da Mosca con 1.550.000 b/g) mentre “la Federazione Russa appare come il produttore finanziariamente più stabile, nonostante costi di estrazione poco più alti di quelli sauditi e condizioni climatiche meno favorevoli al fine di modificare l’operatività di un pozzo”.
Mosca ha un ulteriore vantaggio consistente nella flessibilità del tasso di cambio. Infatti, in base alle statistiche del Ministero delle Finanze, per ogni punto di deprezzamento del rublo nei confronti del dollaro, le entrate russe aumentano di 70 miliardi di rubli al giorno, equivalenti a 969 milioni di dollari.
Le major russe beneficiano di questa situazione dal momento che incassano dollari, ma saldano i costi in rubli.
Sebbene in questa contesa energetica ci sia in palio la leadership del mercato, russi e sauditi sono consapevoli che nel medio periodo le conseguenze della crisi da covid-19 graveranno specialmente sulle spalle dei produttori con il break-even price (prezzo di pareggio) più alto.
“La causa principale dello squilibrio presente nel mercato che precede la pandemia è il forte incremento della produzione Usa dato dall’uso della tecnica della fratturazione idraulica, massicciamente utilizzata a partire dall’era Obama. Basti pensare che la produzione petrolifera statunitense era costantemente diminuita dal 1971 al 2008, per poi esplodere dal minimo di 3.932.000 b/g a settembre 2008 fino al massimo di 13.100.000 b/g a marzo 2020, nonostante costi di estrazione – in media, attorno ai 50 $/b – notevolmente più alti rispetto a quelli russo-sauditi”.
Nei fatti, ad ogni accordo OPEC plus sulla riduzione della produzione volto a sostenere i prezzi, corrispondeva un incremento dell’output statunitense con tanto di trasferimento di quote di mercato ai frackers Usa. “A crisi da covid-19 ampiamente conclamata, Riad ha inizialmente aumentato la produzione fino a 12.300.000 b/g estratti all’inizio di aprile 2020. Dopodiché, ha dovuto tenere conto del contenuto della lettera inviatale da sei Senatori Repubblicani il 31 marzo 2020, nella quale si “suggeriva” al Regno wahabita di recedere dal ripercorrere la strategia implementata nella seconda metà del 2014, bensì di contribuire al raggiungimento di un accordo concernente i tagli produttivi”.
“Non credo, però, che ci troviamo dinanzi a un gioco a somma zero, tutt’altro, sostiene Floros. Senza dubbio, gli Stati Uniti d’America sono coloro i quali rischiano di più perché la produzione cosiddetta non-convenzionale (fracking) ha un tasso di sfruttamento del pozzo compreso tra il 50-85% nel corso dei primi due anni, a fronte di un 5% della produzione convenzionale. Questo vuol dire che i frackers devono continuamente aumentare il numero delle perforazioni al fine di mantenere l’output costante”.
Nella produzione non convenzionale, ciò vale anche per il gas naturale (shale gas) il quale è una sorta di prodotto derivato del petrolio la cui produzione permette tecnicamente – ma soprattutto finanziariamente – di sostenere quella del cosiddetto “oro blu”; non è un caso che parallelamente all’estrazione di tight oil, negli Usa, stia diminuendo anche quella di shale gas. Anzi, il calo ha temporaneamente riguardato prima il gas e poi il greggio[11].
Chi ha la possibilità di uscire vincitrice dalla diatriba è “la Federazione Russa anche perché rafforzerà la propria leadership tra i paesi esportatori di gas naturale. Ad oggi, la guerra nel mercato dell’energia si è focalizzata sul barile ma, tra qualche mese, sono certo che riguarderà anche il metano. Senza dubbio, anche l’Arabia Saudita ha tutte le carte in regola per rafforzare la propria leadership di esportatore di greggio, ma per Riad non sarà facile affrontare la contraddizione data dal rapporto con la Russia in seno all’OPEC plus e dal legame – sempre meno – ‘ombelicale’ con gli Usa”.
Capire chi sarà il vincitore di questa guerra è difficile da pronosticare mentre più facile è identificare il potenziale sconfitto: “gli Stati Uniti d’America, un paese energicamente non indipendente, o prossimo all’autosufficienza energetica, come si è erroneamente affermato da più parti. In attesa, del prossimo report di luglio 2020, il rischio che il trend della dipendenza Usa post covid-19 possa subire una nuova inversione di tendenza con conseguente incremento delle importazioni di materie prime è piuttosto concreto. Se così fosse, ciò avrà una serie di ripercussioni nella politica estera statunitense”.
Questi ultimi saranno costretti a rivedere parte dei loro piani in Medioriente e America Latina, ma non solo: “basti pensare alle “molecole di libertà” dello shale gas Usa che dovrebbero affrancare i paesi europei dal “ricatto” del gas russo, cosa di per sé alquanto improbabile, come spiego dettagliatamente nel mio saggio Guerra e Pace dell’Energia.
Nell’articolo The Coronavirus Pandemic Will Forever Alter the World Order pubblicato dal “Wall Street Journal” il 3 aprile 2020, Henry Kissinger afferma che «è necessario salvaguardare i principi dell’ordine mondiale liberale. […]. Le democrazie mondiali devono difendere e sostenere i loro valori dell’Illuminismo. […]. È necessaria la moderazione di tutte le parti, sia nella politica interna che nella diplomazia internazionale». Kissinger avverte – dice Floros – “con lucidità e lungimiranza la crisi di egemonia dell’Occidente e in particolare, degli Stati Uniti d’America, la quale potrebbe determinare la fine del periodo storico nato sulle ceneri del crollo dell’Urss e del Patto di Varsavia. La collaborazione reciproca dipenderà dal rapporto di forza che riusciranno eventualmente a mettere in campo gli altri attori internazionali, a partire da quello russo-cinese. Ovviamente, molto dipenderà anche da chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca e dalla situazione economica che si troverà a dover affrontare”.
La Cina, invece, uscirà notevolmente rafforzata nel panorama internazionale nel panorama post-Covid19. In primo luogo, per il fatto che “il paese di mezzo” avesse fortemente “investito nel sistema sanitario e nella formazione del personale, in ricerca e tecnologia”; in secondo luogo, per la disciplina e il legame tra il gruppo dirigente del paese e il popolo, un aspetto che non sussiste più da tempo nei Paesi occidentali; c’è da evidenziare, inoltre, “la preoccupazione per il fatto che “il portavoce del ministro degli Esteri di Pechino avesse apertamente accusato gli Stati Uniti d’America in merito alla diffusione del covid-19 sul loro territorio, quando in precedenza la diplomazia cinese aveva sempre preferito mantenere un profilo basso”, a riprova del livello dello scontro raggiunto dalle due superpotenze”.
Detto ciò, la Cina non ha alcun interesse ad alzare il livello dello scontro[12]. “Negli anni a venire, la crescita della domanda petrolifera cinese verrà soddisfatta dall’incremento delle importazioni saudite, russe e angolane. Quindi, tenuto conto che il paniere energetico della Cina è tuttora soddisfatto per il 58% dal carbone (era il 66% nel 2013), l’impellente necessità di aumentare il peso del gas naturale dall’attuale 6-7% all’11-12% non potrà che rafforzare il legame con la Federazione Russa[13]”.
Conclusioni
Dall’inizio dell’emergenza sanitaria il flusso narrativo mainstream ha sin da subito insistito sul fatto che la pandemia avrebbe cambiato per sempre le dinamiche globali e globalizzate così come le abbiamo conosciute e studiate finora. Chi scrive condivide piuttosto il pensiero di Côme Carpentier de Gourdon riportato di seguito: “il mondo globalizzato industrialmente e tecnologicamente è troppo complesso per poter cambiare radicalmente in breve tempo. Alcune misure precauzionali obbligatorie e modelli di comportamento saranno mantenuti per qualche tempo, ma molte delle vecchie abitudini torneranno rapidamente nella misura in cui riguardano la natura umana e sono necessarie per un mondo densamente popolato. I cambiamenti più sostanziali potranno verificarsi nel regno dei metodi educativi, dei modelli di lavoro e, a un livello più profondo, del sistema monetario/finanziario/economico in cui la digitalizzazione si diffonderà più rapidamente mentre la regionalizzazione altera il carattere e le dinamiche della globalizzazione.
Le criptovalute e il denaro cibernetico diventeranno sempre più diffusi, Bitcoin e Cyberyuan cinese saranno due fattori di crescente importanza nella finanza globale.
Mettendo a nudo le difficoltà, le debolezze e le meschinità dei rapporti di forza tra gli Stati del “blocco occidentale”, i giorni della pandemia hanno messo a dura prova la tenuta della pax americana e ci hanno, invece, prospettato il prossimo concretizzarsi di una pax asiatica (se non propriamente sinica) e un mondo tendente al multipolarismo ma pronto a dividersi nuovamente in due blocchi contrapposti.
L’era unipolare è finita; Fukuyama si era sbagliato.
NOTA
[1] Politologo specializzato in relazioni internazionali, per la rivista Esquire è una delle personalità più influenti del XXI secolo; è autore del libro The future is Asian: Commerce, Conflict, and Culture in the 21st Century.
[2] Gli analisti del Boao Forum for Asia prevedono uno scenario in cui, nonostante il disastro provocato dalla pandemia, se la ripresa della Cina sarà poderosa nel secondo semestre di quest’anno, le economie dell’Asia potrebbero chiudere l’anno in positivo e realizzare nel 2021 un significativo rimbalzo. “Se la pandemia verrà mitigata nella seconda metà dell’anno – si legge nel documento – i tassi di crescita dell’Asia potranno ancora rimanere positivi. Ma se il ricorso alle politiche di stimolo si rivelerà inefficace, c’è la possibilità che il tasso di crescita del Continente vada sotto zero”.
[3] Eletta per il Governo cinese alla carica di Copresidente della Belt and Road Local Cooperation e Presidente di Italy – China Link.
[4] https://www.voltairenet.org/article209877.html
[5] Parlando dei “nazionalisti – sovranisti” italiani, Leonid Savin sostiene che “nonostante i rumorosi discorsi sul “successo” dei partiti nazionalisti, tutti seguono l’agenda dell’UE. Molte volte hanno la possibilità di fare qualcosa di essenziale ma non lo hanno fatto. Per servire i propri interessi, gli italiani devono organizzare cambiamenti rivoluzionari. E dal punto di vista strategico, come possiamo parlare dell’indipendenza dell’Italia se ci sono basi militari statunitensi sul proprio territorio? L’adesione alla NATO è un altro mistero. È possibile utilizzare quelle percentuali del budget per motivi di sicurezza reali o nel settore sociale, ma i soldi “bruciati” per cose irrilevanti”.
[6] Autore del libro From India to Infinity e Convener of the Editorial Board della rivista World Affairs Journal.
[7] Continua l’analista: “esiste anche una divisione ideologica tra un’India nazionalista indù in ripresa e un’Europa laica per lo più liberale in cui le minoranze islamiche hanno un’influenza crescente e dove c’è poca comprensione e del nazionalismo indù che è spesso visto come ostile al cristianesimo. Questo può essere un fattore ostile soprattutto nei rapporti con un paese come l’Italia”.
[8] Lo stesso Floros spiega come siamo arrivati al recente crollo del prezzo del petrolio: “A marzo 2020, l’irrompere della crisi da covid-19 nel mercato dell’energia ha comportato la chiusura di un ciclo che era iniziato nel secondo semestre del 2014 quando i prezzi del greggio crollarono da quasi 120 $/b a meno di 50 $/b (Brent North Sea). Nel contempo, si è aperta una nuova fase dagli esiti potenzialmente dirompenti. Più precisamente, nonostante un marcato surplus dell’offerta e la cessazione del Quantitative Easing da parte della Federal Reserve che aveva contribuito in maniera significativa nel sostenere i prezzi del barile, le petromonarchie del Golfo – guidate dall’Arabia Saudita – si opposero con forza al taglio della produzione durante l’OPEC meeting del 30 novembre 2014 e decisero di inondare il mercato, provocando il crollo dei prezzi. Sullo sfondo, un intreccio di conflitti geopolitici, a partire da quello tra Arabia Saudita e Iran che andava ben oltre la sede dell’OPEC, tra produttori convenzionali versus non convenzionali (i cosiddetti frackers nordamericani), fino allo scontro tra gli Stati Uniti d’America – spalleggiati dalla subalterna Unione Europea – e la Federazione Russa nel Maidan ucraino (colpo di Stato a febbraio 2014). Mi si conceda di levarmi un piccolo sassolino dalla scarpa. Al tempo, la maggior parte degli analisti ritenne che il crollo del petrolio fosse in primo luogo ascrivibile alla volontà saudita di mettere fuori mercato il tight oil Usa. Io invece fu uno tra i pochi – se non l’unico – che indicò nel comune obiettivo saudita-statunitense di sbarazzarsi degli ayatollah, così come dei siloviki tornati padroni in patria, la ragione principale del crollo dei prezzi. seguì un periodo caratterizzato da oscillazioni di prezzo comprese tra i 30-50 $/b che si concluse il 30 novembre 2016 quando la neonata organizzazione a guida russo-saudita OPEC plus – e non più l’OPEC a trazione saudita – decise di tagliare l’output di 1.200.000 b/g al fine di sostenere l’oro nero. Importante è precisare che la nascita dell’OPEC plus – successivamente trasformata in organismo permanente – e tutti gli accordi raggiunti in tale sede nel periodo novembre 2016-19 furono il risultato politico della vittoria militare ottenuta dalla Federazione Russa in Siria, dove Mosca era intervenuta nel rispetto del diritto internazionale a partire dal 30 settembre 2015 in supporto all’esercito regolare siriano di Bashar al-Assad. Si giunge così a marzo 2020, quando i russi rifiutano la proposta saudita avanzata in sede OPEC plus e volta ad incrementare i tagli in essere già rafforzati a dicembre 2019 (1.800.000 b/d, ma nei fatti 2.100.000 b/d), perché ciò avrebbe comportato l’ennesima perdita di quote di mercato in favore dei frackers Usa, e non con l’obiettivo di affossare l’OPEC plus e il rapporto con l’Arabia Saudita, come da più parti si è erroneamente affermato”.
[9] analista geopolitico ed economico, è docente presso il Master in Relazioni Internazionali Italia-Russia, dell’Università di Bologna Alma Mater ed è autore del libro Guerra e Pace dell’Energia. La strategia per il gas naturale dell’Italia tra Federazione Russa e Nato (Diarkos Editore)
[10] I limiti di Riyadh sono invece dati da un alto pareggio di bilancio fiscale fissato a 82 $/b prima dello scoppio della crisi e dal cambio ancorato al dollaro che non permette al riyal di deprezzarsi quando la rendita energetica diminuisce. Jadwa Investments stima che il deficit di bilancio fiscale della petromonarchia supererà i 61 miliardi di dollari nel 2020. Da un punto di vista strategico, il limite principale dell’Arabia Saudita risiede nel rapporto storico che ha stretto nel contesto della Guerra Fredda con gli Stati Uniti d’America e che potremmo riassumere con l’espressione di petrolio versus protezione militare.
[11] Inoltre, negli ultimi 10 anni il fracking non ha quasi mai generato un flusso di cassa positivo per la maggior parte degli operatori del settore oil & gas. In sostanza, l’estrazione di combustibili fossili tramite fratturazione idraulica non è finanziariamente sostenibile, oltre ad essere ecologicamente devastante. “Negli Usa, questa situazione sta determinando un vero e proprio scontro tra i piccoli e medi operatori versus le grandi compagnie che il commissario alle Ferrovie texane, Ryan Sitton, ha tentato di sopire – inutilmente – proponendo la riduzione della produzione petrolifera del paese, nonostante le leggi antitrust Usa lo proibiscano”.
[12] In termini nominali, nel 2019, il Pil Usa ha raggiunto i 21.4 trilioni di dollari, mentre quello della Cina ha superato i 14.1 trilioni di dollari, riducendo ancor di più la forbice tra i due paesi. In termini di parità di potere d’acquisto invece, Pechino aveva già superato Washington a dicembre 2014 e la forbice si sta costantemente allargando visti i 27.3 trilioni di dollari toccati l’anno trascorso. Terminata la fase sanitaria più acuta, ritengo che sarà fondamentale ricalcolare il peso delle economie di Stati Uniti e Cina, nonché l’evoluzione quantitativa e qualitativa delle loro manifatture (là dove si crea il plusvalore). Secondo il report Confindustria di maggio 2009, le quest’ultime pesavano rispettivamente per il 17,2% e il 28,5% della manifattura globale.
[13] Per quanto riguarda gli altri principali produttori dell’area del Golfo, ma non solo, nonostante l’Iran, il Venezuela e la Libia siano stati esclusi dai tagli, sono tra i produttori potenzialmente più esposti alla crisi insieme alla Nigeria e all’Algeria, le cui riserve valutarie sono crollate da 97 a 62 miliardi di dollari. Secondo Moody’s l’Oman, il Bahrain, l’Angola (OPEC) e l’Iraq (OPEC) vedranno diminuire la rendita mineraria del 4-8% del Pil, nel caso in cui gli attuali prezzi persistano nel corso dell’anno. Minori entrate dell’ordine di meno del 3% del Pil invece riguarderanno il Qatar, l’Azerbaijan, il Kazakhstan.
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