Claudio Mutti
Sabato 4 Giugno 2016 si è svolto a Roma un convegno sulla figura del ‘Imam Khomeyni organizzato dal Centro Studi Internazionale “Dimore della Sapienza”. Riportiamo qui di seguito il testo dell’intervento del direttore di Eurasia.
La lettera al Papa
Domenica 4 Novembre 1979, ad un anno esatto dal massacro compiuto dalla polizia dello Scià all’Università di Teheran, un gruppo di studenti che si dichiaravano “seguaci della linea dell’Imam Khomeyni” fece irruzione nell’Ambasciata degli Stati Uniti nella capitale iraniana e ne occupò i locali.
I sessantacinque cittadini statunitensi che si trovavano nell’edificio (funzionari civili e militari) furono accusati di spionaggio e di complotto contro il popolo iraniano. Dodici di loro vennero rilasciati dopo un paio di settimane; gli altri furono trattenuti all’interno dell’Ambasciata per 444 giorni.
Le reazioni internazionali non si fecero attendere a lungo.
Il 9 Novembre, cinque giorni dopo l’irruzione degli studenti nei locali dell’Ambasciata, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intimò al governo iraniano di rilasciare immediatamente i funzionari statunitensi.
Il 12 Novembre il presidente americano Jimmy Carter ordinò, come misura di ritorsione, la sospensione delle importazioni di petrolio dall’Iran.
Il Papa dell’epoca, Giovanni Paolo II, scelse di rivolgersi personalmente all’Imam Khomeyni; un messo pontificio, monsignor Annibale Bugnini, si recò a Qom e consegnò all’Imam una lettera con cui il Papa sollecitava il rilascio degli americani.
Il messaggio di Wojtyła ottenne una risposta immediata, cosicché monsignor Bugnini poté ritornare in Vaticano con una lettera dell’Imam datata 20 Dhu’l-hijjah 1399, ossia 10 Novembre 1979.
Il testo di questa lettera venne subito tradotto in diverse lingue e reso noto al mondo intero.
In Italia, mi si consenta di ricordarlo con un certo orgoglio, la Lettera al Papa dell’Imam Khomeyni fu pubblicata per mia iniziativa dalle Edizioni all’insegna del Veltro in qualche migliaio di copie.
Contemporaneamente pubblicai, sotto il titolo di Citazioni e per la stessa casa editrice, una scelta di brani estratti da libri, discorsi e interviste dell’Imam.
Nella Lettera al Papa l’Imam Khomeyni esordisce dichiarando di aver preso in considerazione il messaggio pontificio solo per il rispetto dovuto al popolo del Cristo ed al suo rappresentante; dal quale però, aggiunge subito con una certa amarezza, il popolo iraniano si sarebbe aspettato, anziché un intervento a favore delle spie americane, un “ammonimento agli oppressori dei popoli” e “una parola di conforto, una carezza paterna, che significasse solidarietà” per “un popolo che ha sopportato per cinquant’anni il giogo del colonialismo”.
Tuttavia, per quanto riguarda gli americani arrestati dagli studenti in quello che ormai in Iran viene chiamato “il nido di spie”, l’Imam ci tiene ad assicurare al Papa che i giovani occupanti dell’Ambasciata riserveranno ai prigionieri un trattamento conforme ai precetti islamici. Anzi, il Papa viene esortato ad inviare a Teheran un suo rappresentante per verificare le loro condizioni.
L’invito dell’Imam venne accolto. Nel mese successivo, in occasione del Natale, ai cosiddetti “ostaggi” fu concesso di ricevere la visita non di uno solo, ma di due alti esponenti della Chiesa cattolica, il cardinale arcivescovo di Algeri e il vescovo ausiliario dell’arcidiocesi cattolica di Detroit, ai quali si unirono due pastori protestanti americani. L’assistenza religiosa venne garantita ai prigionieri anche in seguito, per la Pasqua.
L’Imam (che secondo le ricostruzioni più recenti sembra non fosse stato preventivamente informato del piano di attacco all’Ambasciata) nella Lettera al Papa espone alcuni argomenti a difesa dell’azione degli studenti, la quale, egli fa notare, viene approvata e sostenuta dal popolo iraniano.
Gli studenti, afferma l’Imam,
sono penetrati in un nido di spie e hanno arrestato alcuni individui, istigatori di atti di sabotaggio e promotori di attività spionistiche ai danni del nostro popolo e di questa regione del mondo. Le testimonianze e le prove a loro carico sono molte: la prova di maggior peso è che quegli individui hanno distrutto archivi e documenti, affinché, divenuti polvere, non fossero più utilizzabili. Se quei documenti e quegli archivi avessero riguardato soltanto i normali affari dell’ambasciata, non vi sarebbe stato bisogno di distruggerli. Se non avessero riguardato complotti contro il nostro popolo, non vi sarebbe stato bisogno di agire in tal modo. (…) Le ambasciate non hanno la facoltà legale di fare dello spionaggio o di ordire trame. E l’ambasciata, in base a quanto gli esperti hanno potuto capire, ha funzionato come centro di spionaggio e di complotti.
L’azione degli studenti, prosegue l’Imam, è stata provocata dal fatto che gli Stati Uniti d’America hanno dato asilo all’ex Scià di Persia, Mohammed Reza Pahlavi, l’uomo – scrive testualmente – che
per trentasette anni ha commesso ogni sorta di tradimento verso questo popolo, per trentasette anni ha dilapidato i nostri beni. (…) Se volessimo enumerare tutti i tradimenti commessi contro il nostro popolo nel periodo del suo regno, non ne saremmo capaci, perché sono stati troppi, e noi non abbiamo tempo. Ma fra i suoi atti (…) possiamo citarne uno a mo’ di esempio; in cambio del petrolio che veniva mandato in America, egli prendeva armi e munizioni, le quali però servivano soltanto agli Americani stessi e alle loro basi militari. Quest’uomo ha ceduto il nostro petrolio col solo risultato di fare installare basi militari americane.
Al saccheggio dei beni della nazione, prosegue la lettera dell’Imam, si è aggiunta una repressione che ha fatto numerose vittime tra la gioventù iraniana.
In questi ultimi dieci o quindici anni, egli ha commesso tanti crimini, ha ammazzato tanti giovani che non è possibile contarli. Le sue prigioni erano piene di giovani patrioti. (…) Innumerevoli sono i delitti di cui egli è responsabile e di cui possediamo le prove: sono stati oppressi i contadini, gli operai, le guide religiose, gli studenti.
Perciò, scrive l’Imam, è giusto che l’ex Scià venga consegnato alle autorità dell’Iran e che sia processato da un tribunale iraniano. Anzi, l’Iran non avrà nulla in contrario se il Papa e il presidente Carter, “il nostro nemico mortale”, vorranno inviare i loro osservatori ad assistere al processo ed a vigilare sul rispetto delle regole di giustizia.
Se sarà provato che le nostre accuse sono infondate, vi permetteremo di insediarlo di nuovo sul Trono del Pavone, perché il popolo lo obbedisca. (…) Se sarà condannato per averci sottratto i nostri beni, questi dovranno essere recuperati. Ora, i nostri beni ce li hanno portati via sia lui sia i suoi collaboratori: tutti quanti hanno riempito le banche straniere, in America e in tutto l’Occidente.
L’Imam si appella al senso di giustizia del suo interlocutore, chiedendogli se davvero egli ritenga giusto che l’Iran sia stato oppresso e saccheggiato e che, in conseguenza di ciò, molte famiglie iraniane siano rimaste prive di casa, di pane e di lavoro.
La delusione per l’atteggiamento delle alte gerarchie cattoliche, che abbiamo riscontrato all’inizio di questa lettera, viene espressa di nuovo, presso ad una velata accusa di ambiguità di comportamento, se non di complicità con gli oppressori del popolo iraniano.
Noi avremmo gradito – scrive l’Imam – che, in questo periodo, una delle personalità religiose straniere, specialmente la più alta autorità della religione cristiana, manifestasse a questa nazione oppressa un po’ di simpatia e di considerazione. Io non posso credere che il Vaticano fosse all’oscuro di tutti questi fatti e non so cosa pensare di tale ambiguità. Qualora il nostro popolo mi domandasse se il clero cristiano è d’accordo coi crimini commessi, che cosa dovrei rispondere? (…) Noi avremmo gradito vedere personalità come il Papa indagare, una volta tanto, allo scopo di sapere perché la nostra nazione sia stata sottomessa a tali sofferenze. (…) Noi non ci meravigliamo degli sforzi che Carter compie per evitare che le persone in mano ai nostri giovani ci dicano la verità su quello che hanno fatto. Lui, Carter, deve agire così. Ma il Papa? Perché il Papa agisce in questo modo, facendosi mediatore nei confronti di un popolo oppresso che vuole far conoscere le sue sofferenze e vuol far capire all’umanità e ai diseredati come e in quali modi sia stata esercitata l’oppressione?
E qui viene evocato in maniera sintetica ma chiarissima lo speciale rapporto che l’Islam ha col cristianesimo. “Il clero cristiano – scrive l’Imam – sa bene che il Sacro Corano ha difeso Cristo e la Vergine Maria, smentendo tutte le calunnie che sono state lanciate contro di lei. Il Santo Corano ha difeso i cristiani, le loro guide religiose e i loro santi”.
Infatti, come è noto, il Corano riconosce a Cristo una particolare dignità fra gl’Inviati di Dio: “Wa ataynā `Īsá bna Maryama al-bayyināti wa ayyadnāhu bi rūĥi al-qudus” (“E abbiamo dato a Gesù figlio di Maria prove evidenti e lo abbiamo fortificato con lo spirito di santità”) (II, 253); “Dhālika `Īsá bnu Maryam, qawla al-Ĥaqqi alladhī fīhi yamtarūn” (“Questi è Gesù, figlio di Maria, parola di verità che alcuni mettono in dubbio”) (XIX, 34).
Parimenti il Corano condanna i calunniatori della Vergine Maria: “Wa bi kufrihim wa qawlihim `alá Maryama buhtānan `azhīman (…) Fa bi zhulmin min alladhīna hādū harramnā `alayhim tayyibātin ‘uĥillat lahum” (“Per la loro miscredenza e per aver pronunciato contro Maria una calunnia orrenda, (…) per l’iniquità di coloro che sono giudei abbiam loro proibito delle cose buone che prima eran loro lecite”) (IV, 156-160).
Per quanto poi riguarda gli uomini pii e le guide del culto cristiano, possiamo leggere: “La tajidanna ashadda an-nāsi `adāwatan lilladhīna āmanū al-yahūda wa alladhīna ‘ashrakū. Wa la tajidanna aqrabahum mawaddatan lilladhīna āmanū alladhīna qālū: Innā naşāra. Dhālika bi anna minhum qissīsīna wa ruhbānan wa annahum lā yastakbirūn” (“Troverai che i più feroci nemici di coloro che credono sono i giudei e i politeisti. E troverai che quelli che son più vicini per affetto a coloro che credono sono quelli che dicono: Noi siamo cristiani. Questo perché fra loro vi sono presbiteri e monaci ed essi non sono superbi”) (V, 82).
Perciò l’Imam Khomeyni (il quale, lo ricordo per inciso, recava il nome personale di Rûhollâh, “Spirito di Dio”, epiteto dato dal Corano a Gesù) si può rivolgere al Papa ed ai cristiani esortandoli a seguire l’esempio di Cristo.
Ma il Cristo di Khomeyni non corrisponde all’immagine insulsa e dolciastra enfatizzata da un certo cristianesimo sentimentale e piagnone. Il Cristo evocato da Khomeyni è quello che nei Vangeli esorta chi non ha una spada a vendere il mantello ed a comprarne una (Luca, 22, 36); è il Cristo che animato da una santa collera si scaglia contro i profanatori del Tempio di Dio (Matt. 21, 12-13; Marco 11, 15-17; Luca 19, 45-46).
Voi, che siete cristiani, – dice dunque l’Imam al Papa – dovreste seguire Cristo. Sappiate che costoro [gli americani], pur proclamandosi cristiani, si oppongono all’insegnamento di Cristo. Hanno ingannato molte persone nel loro paese, per cui il nome del popolo di Cristo sarebbe offuscato qualora tutto ciò avvenisse in nome del cristianesimo e di Gesù Cristo. Il Papa dovrebbe pensare al popolo di Cristo, a tutti i popoli diseredati, all’onore dei cristiani. (…) Cristo, se vivesse oggi, si scaglierebbe contro Carter. Se vivesse oggi, Cristo ci salverebbe dagli artigli di questo nemico dei popoli, questo nemico dell’uomo. Lei, che è il rappresentante di Gesù Cristo, deve fare ciò che farebbe Gesù Cristo se vivesse oggi.
Questa lettera del 10 Novembre 1979 non fu l’unica che l’Imam inviò a Giovanni Paolo II nel periodo della cosiddetta “crisi degli ostaggi”.
L’11 Aprile dell’anno successivo, mentre la tensione fra la Repubblica Islamica e gli Stati Uniti era altissima, il Papa espresse ancora una volta la sua preoccupazione all’Imam, sicché quest’ultimo dovette rinnovargli l’esortazione a rivolgersi al governo statunitense per ammonirlo circa le conseguenze delle sue azioni criminose e ad avvertire il presidente Carter che il suo fallimento era imminente.
Alcuni giorni dopo, il 25 Aprile, la Casa Bianca annunciò l’esito disastroso di un’azione intrapresa per liberare gli ostaggi. Una tempesta di sabbia nel deserto iraniano aveva fermato un commando di elicotteri a Tabas, a 350 chilometri dalla frontiera: elicotteri insabbiati, guasti meccanici, una collisione con otto morti furono il bilancio dell’impresa americana. Gli Stati Uniti, che tra l’altro avevano rischiato di scatenare un conflitto con l’Unione Sovietica, uscivano umiliati e frustrati da questa vicenda.
Giovanni Paolo II si rivolse nuovamente all’Imam Khomeyni nel mese di Luglio, stavolta per tutelare l’attività di una scuola cattolica di Teheran.
Nella sua risposta del 13 Agosto 1980, l’Imam dichiara innanzitutto che nella Repubblica Islamica dell’Iran le scuole cristiane sono libere di “impartire l’istruzione e l’insegnamento di Cristo benedetto” ai loro iscritti. Però, aggiunge l’Imam,
se ci renderemo conto che dette scuole in Iran hanno un altro scopo ed intendono agire come quel “nido di spie”, di certo non tollereremo che nel nostro paese con la copertura dell’istruzione e dell’insegnamento e sotto il nome di “scuola” ci si occupi di altre faccende.
Quindi l’Imam passa ad informare il Papa che negli Stati Uniti vengono commessi atti di brutale repressione contro gli studenti iraniani e gli chiede:
Perché il Pontefice non si interessa della condizione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi, che mentre noi stiamo parlando (…) vengono trasportati da un carcere all’altro e rinchiusi in celle di isolamento? (…) Non ho mai sentito il Pontefice difendere gli oppressi dell’Iran o coloro che nella stessa America sono sottoposti a vessazioni e a tortura (…) Perché non prende in considerazione questi fatti? Non sa egli come agiva Gesù Cristo benedetto?
Infine, dopo aver espresso l’auspicio che il Papa “agisca in conformità col suo dovere divino di cristiano” facendo valere la propria autorità presso il governo americano, l’Imam Khomeyni si congeda da lui con queste parole:
Noi fino all’ultimo abbiamo fronteggiato l’America e non permetteremo che essa o i suoi alleati tornino nel nostro paese. Fino all’ultimo respiro difenderemo il nostro diritto e non subiremo l’oppressione.
La lettera a Gorbačëv
Circa dieci anni dopo, una delegazione iraniana costituita dall’ayatollah Abdollah Javadi Amoli, che insegnava filosofia a Qom, dal viceministro degli affari esteri Mohammad Javad Larijani e dalla signora Marzieh Hadidchi, deputata all’Assemblea Nazionale di Teheran, si recò a Mosca per consegnare a Mikhail Gorbačëv, presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nonché segretario generale del Partito Comunista sovietico, una lettera di cinque pagine manoscritte redatta dall’Imam Khomeyni che recava la data dell’11 Shawwal 1367, corrispondente al 1° Gennaio 1989.
Il 7 Gennaio la delegazione iraniana venne accolta da un rappresentante particolare di Gorbačëv, dal capo del cerimoniale del Cremlino, dal viceministro degli Esteri, dall’Imam della Preghiera del Venerdì di Mosca e da altre personalità sovietiche.
Successivamente la delegazione venne ricevuta da Gorbačëv nel suo ufficio. Dopo un iniziale scambio di cortesie durato una ventina di minuti, un interprete tradusse il testo del messaggio dell’Imam a Gorbačëv e ai funzionari presenti. Se qualche passo della lettera non veniva ben compreso, l’interprete chiedeva ai membri della delegazione di chiarirlo ulteriormente. Gorbačëv ascoltava con attenzione e prendeva appunti.
Al termine della traduzione, Gorbačëv espresse i suoi ringraziamenti per l’Imam Khomeyni e promise che gli avrebbe risposto quanto prima. Inoltre informò la delegazione iraniana che nell’Unione Sovietica stava per essere approvata una nuova legge sulla libertà religiosa e affermò che i due Paesi potevano benissimo avere rapporti cordiali, nonostante le diversità ideologiche. Poi sorridendo disse: “L’Imam Khomeyni ci ha invitati all’Islam; noi dobbiamo invitarlo alla nostra scuola di pensiero?” E aggiunse, più seriamente: “Questo invito è un’interferenza negli affari interni di un Paese, perché ogni Paese è libero di scegliere la propria scuola di pensiero”.
L’ayatollah Amoli, che guidava la delegazione iraniana, replicò in maniera garbata: “In Russia voi siete liberi di fare quello che volete e nessuno ha il diritto di interferire. Ma il testo di questa lettera non ha nulla a che fare col territorio della Russia; esso riguarda le vostre anime”.
Nell’Unione Sovietica, alla lettera dell’Imam Khomeyni non venne data pubblicità. Il testo della lettera fu pubblicato sul quotidiano di Teheran, “Kayhan”; quindi fu tradotto in diverse lingue. In Italia, la Lettera a Gorbaciov fu pubblicata nel febbraio 1989 dalle Edizioni all’insegna del Veltro.
La lettera inviata dall’Imam Khomeyni alla massima autorità dell’Unione Sovietica ricalca essenzialmente un paradigma che risale ai primordi dell’era islamica. Nell’anno 6 dell’Egira, subito dopo il trattato e la tregua di al-Hudaybiyah, il Profeta Muhammad inviò otto ambasciatori ad altrettanti sovrani della penisola araba e dei paesi vicini, con una lettera che li invitava ad accogliere l’Islam.
Il messaggio esordiva con questo versetto coranico:
“Qul: Yā ayyuhā an-nāsu, innī rasūlu Allāhi ilaykum jamī`an, alladhī lahu mulku as-samāwāti wa al-‘arđi. Lā ilāha illā Huwa, yuĥyī wa yumītu. Fa’āminū billāhi wa rasūlihi n-nabīyi l-ummī, alladhī yu’minu billāhi wa kalimātihi wa ttabi`ūhu, la`allakum tahtadūn” (“Di’: O uomini, in verità io sono inviato a voi tutti come Messaggero di Dio, al quale appartiene il regno dei cieli e della terra. Non c’è dio se non Lui: dà la vita e dà la morte. Credete dunque in Dio e nel Suo messaggero, il Profeta illetterato, che crede in Dio e nelle Sue parole; e seguitelo, se volete essere ben guidati”) (Corano, VII, 158).
Seguivano queste parole: “Pace a colui che segue la via retta. Mettiti al riparo dal castigo di Dio, nel Giorno della Resurrezione, ed avrai il Paradiso. Se non lo fai, ebbene, io ti ho fatto pervenire questo messaggio”.
Stando a quello che possiamo leggere nella Cronaca di Tabari, tra i destinatari della lettera inviata dal Profeta vi fu chi abbracciò l’Islam, come l’imperatore bizantino Eraclio, mentre altri, come il sovrano sassanide della Persia, respinsero sdegnosamente l’invito.
L’Imam Khomeyni volle imitare il gesto del Profeta scegliendo il presidente Mikhail Gorbačëv come destinatario del proprio appello all’Islam. Evidentemente egli pensava che l’Islam potesse riempire il vuoto lasciato da un sistema ormai entrato in una fase di crisi profonda e irreversibile.
La lettera a Gorbačëv è un’eccellente dimostrazione del fatto che l’Imam Khomeyni “fu in senso stretto un uomo della tradizione, della quale egli voleva essere testimone nel suo secolo, e non un uomo del secolo che avrebbe voluto modernizzare la tradizione” (Christian Bonaud, L’Imam Khomeyni, un gnostique méconnu du XX siècle, Al-Bouraq, Beyrouth s. d. [1997], p. 24). Così scrive Christian Bonaud, autore di una biografia intellettuale e spirituale dell’Imam Khomeyni della quale in Italia è apparsa purtroppo soltanto la prima parte, sotto il titolo Uno gnostico sconosciuto del XX secolo (Il Cerchio 2010). Per un uomo come l’Imam, che rivolgeva il proprio interesse alla metafisica ed alla realizzazione spirituale, dice Bonaud, modernizzare la tradizione non aveva significato alcuno, perché la metafisica e la spiritualità non appartengono al mondo del cambiamento: “esiste una verità eterna, parzialmente accessibile all’intelligenza attraverso la meditazione filosofica e soprattutto per mezzo della gnosi, una verità trascendente a cui chiama e conduce la Parola di Dio, una verità che si tratta di conoscere e di vivere attualmente nel mondo d’oggi. Non vi è altro rapporto possibile con la modernità” (Ibidem).
Ciò non significa che i metafisici e gli spirituali siano destinati ad essere degli impolitici e che, mentre contemplano le cose celesti, debbano necessariamente cadere in un pozzo, come capitò al povero Talete secondo l’aneddoto raccontato da Platone. Al contrario.
Con la sua lettera a Gorbačëv, infatti, l’Imam Khomeyni diede prova di una prodigiosa perspicacia politica, poiché preannunciò la fine del sistema sovietico come un evento sicuro e già in atto: “d’ora in poi – leggiamo nella lettera – bisognerà cercare il comunismo nei musei della storia politica mondiale”.
La causa del fallimento comunista viene individuata dall’Imam nel fatto che il marxismo non fornisce una risposta ai reali bisogni dell’uomo, poiché, egli scrive, “si tratta di una dottrina materialistica e col materialismo non si può certo far uscire l’umanità dalla crisi provocata proprio dalla mancanza di fede nello spirito”.
Il materialismo, ritenuto dall’Imam il male principale della società umana, viene indicato come il denominatore comune del mondo comunista e di quello occidentale, tant’è vero, dice la lettera, che anche l’Occidente “è stato trascinato o sarà trascinato in un vicolo cieco, nel nulla”.
Quindi l’Imam invita il suo interlocutore a riflettere sulla differenza che intercorre tra la visione materialistica del mondo e della vita, tipica sia del mondo comunista sia di quello occidentale, e la visione metafisica (elâhî), ispirata alla dottrina dell’unità divina. Mentre per il materialismo il criterio della conoscenza è dato dai sensi, cosicché l’esistente coincide col materiale e ciò che non è materiale è considerato inesistente, nella visione metafisica, invece,
il criterio della conoscenza comprende sia i sensi sia l’intelligenza: ciò che è percepibile dall’intelligenza appartiene al dominio del sapere, anche se non può essere percepito dai sensi. Così, l’esistenza comprende insieme il sensibile e il soprasensibile, per cui anche una realtà immateriale può benissimo esistere. E come l’esistente materiale presuppone un fondamento immateriale, così la conoscenza sensibile è sostenuta dalla conoscenza intelligibile.
Tralasciando le argomentazioni coraniche, perché ritiene che il destinatario del messaggio sia ancora un principiante, l’Imam propone a quest’ultimo due semplici constatazioni, facilmente ricavabili dall’osservazione della natura.
La prima:
È un dato di fatto che un corpo materiale inanimato è incosciente di sé: ogni singola parte di una statua di pietra che rappresenti un uomo, ad esempio, non ha consapevolezza delle altre parti. Invece, noi constatiamo che l’uomo e l’animale hanno coscienza di ogni parte del loro corpo, sanno dove si trovano e che cosa accade intorno a loro… Quindi dobbiamo pensare che nell’animale e nell’uomo c’è qualcosa che non è materiale e perciò non muore con la materia, ma sopravvive alla morte di questa.
La seconda:
L’uomo, per sua stessa natura, aspira alla perfezione e vorrebbe disporre di un’assoluta potenza nel mondo. Anche se tenesse il mondo intero in proprio potere e gli si dicesse che esiste un altro mondo ancora, egli, data la sua natura, vorrebbe tenere in proprio potere anche quest’altro mondo. E per quanto sapiente sia un uomo, se gli si dicesse che esistono altri saperi ancora, egli, data la sua natura, vorrebbe apprendere anche quelli. Bisogna dunque, perché l’uomo vi si attacchi così, che vi siano una ‘potenza assoluta’ e un ‘sapere assoluto’: si tratta di Dio Onnipotente e Onnisciente, verso il quale tutti noi siamo orientati, anche se non ce ne rendiamo conto. L’uomo vuole raggiungere la Realtà assoluta, desidera fondersi in Dio. Infatti, l’ardente aspirazione ad una vita eterna, aspirazione insita in ogni uomo, è un segno che esiste un mondo eterno, nel quale la morte non ha luogo.
Per approfondire questa ricerca, prosegue l’Imam, bisognerebbe che il segretario del PCUS incaricasse i suoi “brillanti esperti, ben ferrati in questo genere di problemi”, di studiare anche i filosofi dell’Islam, a cominciare dai peripatetici Avicenna e Al-Farabi, affinché risulti ben chiaro che
il principio di causalità – sul quale riposa ogni forma di conoscenza – rientra nella sfera intelligibile e non in quella sensibile e che la comprensione delle idee e dei principi universali – sui quali si fonda ogni forma di argomentazione – è, parimenti, intelligibile e non sensibile.
Oltre ad Avicenna e ad Al-Farabi, l’Imam schiera contro il materialismo altri tre grandi maestri spirituali: Sohravardi, Molla Sadra e Ibn ‘Arabi. Dalla filosofia illuminativa di Sohravardi, dice l’Imam,
Sua Eccellenza potrà capire che il corpo ed ogni altro ente materiale hanno bisogno, per esistere, della Pura Luce assoluta che trascende il dominio sensibile e che la coscienza intuitiva che l’uomo ha della propria realtà non ha nulla a che fare coi sensi.
Molla Sadra lo aiuterà a capire che
la conoscenza prescinde dalla materia e che ogni pensiero trascende la materia e non è soggetto alle leggi della materia.
Infine, se qualche intellettuale sovietico verrà mandato a studiare a Qom, in capo ad alcuni anni potrà cominciare a capire qualcosa della dottrina degli stadi della vera conoscenza contenuta nell’opera di Mohyiddin Ibn ‘Arabi, ash-shaykh al-akbar, il doctor maximus.
L’Imam conclude invitando il destinatario del suo messaggio ad una seria ed approfondita riflessione sull’Islam, da lui definita come “la religione che vuole attuare la giustizia nel mondo, liberare gli uomini dalle pastoie materiali e psichiche”, ossia come l’esatto contrario dell’“oppio dei popoli” di marxiana memoria.
Il 3 marzo 1989 il ministro degli Esteri sovietico Eduard Shevardnadze, in visita ufficiale a Teheran, consegnò la risposta del presidente dell’URSS all’Imam Khomeyni. Subito dopo averne ascoltata la traduzione, l’Imam dichiarò il proprio disappunto per il fatto che a Mosca l’argomento fondamentale della sua lettera non fosse stato considerato con la necessaria attenzione.
Di lì a poco, gli eventi storici si sarebbero incaricati di dimostrare la fondatezza delle previsioni dell’Imam.
Dieci mesi più tardi, il 9 Novembre 1989, venne abbattuto il muro di Berlino; il 25 Dicembre 1991 Gorbačëv rassegnò le proprie dimissioni e poco dopo l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche venne liquidata.
Nella lettera a Gorbačëv, l’Imam Khomeyni si era rallegrato del fatto che dai minareti delle regioni musulmane dell’Unione Sovietica fossero risuonati il grido rituale “Allahu akbar” e la testimonianza di fede islamica.
Oggi le stesse parole risuonano pubblicamente ogni giorno anche nella capitale russa, dove la più grande moschea d’Europa è stata solennemente inaugurata il 23 settembre dell’anno scorso, in occasione della Festa dei Sacrifici, dal presidente di una nuova Russia che, lasciatasi alle spalle la fase di decadenza e di sfacelo rappresentata da Gorbačëv e da El’cin, ha recuperato la propria dignità e si è ricollegata alla sua tradizione imperiale.
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