Quanto sta accadendo in questi giorni in Ucraina dimostra che si è ben lungi dalla formazione di un autentico equilibrio multipolare. In sostanza, nonostante il cosiddetto ”declino relativo” degli Stati Uniti, è ancora la grande talassocrazia americana a condurre il “gioco geopolitico” a livello globale, sulla base di rapporti di potere che si configurano come espressione di un agire strategico che mira ad assicurare una indiscussa “posizione egemonica” all’America e ai diversi gruppi di interesse che l’America rappresenta e tutela, in quanto potenza capitalistica predominante.
Il fatto che sia fallito il tentativo statunitense di imporre un nuovo ordine mondiale sfruttando il “vuoto geopolitico” creato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, non esclude infatti che gli Usa possano impedire che si formi un equilibrio multipolare in grado di limitare e ridimensionare la superpotenza d’oltreoceano. La stessa “geopolitica del caos” ha la sua vera ragion d’essere nel prolungare una fase storica di transizione, per ostacolare la nascita di una autentica alternativa multipolare e al tempo stesso cercare di “ri-creare” le condizioni necessarie per formare un nuovo sistema unipolare, ovverosia più flessibile e, per così dire, “a geometria variabile”. Compreso che non si può fare tutto da soli e preso atto dei pericoli derivanti da una “sovraesposizione imperiale”, l’America di Obama ha scelto quindi di modificare strategia, optando per una sorta di “approccio indiretto”, che sotto il profilo geostrategico sembra essere anche più “pagante” di un intervento diretto della superpotenza d’oltreoceano, in quanto permette di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Del resto, è noto che l’egemonia è un portato non solo della potenza militare e delle conquiste territoriali, ma anche del controllo dei commerci e della superiorità tecnologica e culturale. In definitiva, tale strategia consiste nel lasciare maggiore libertà d’azione a gruppi “subdominanti”, sia che si tratti di alleati particolarmente fidati, come nel caso della vergognosa aggressione alla Libia e ovviamente di quella alla Siria, sia che si tratti di élites locali. In questo caso abbiamo la serie delle rivoluzioni o primavere “colorate”, in cui decisiva è l’azione di Ong occidentali e di organizzazioni come Otpor. E questo è appunto anche il caso dell’Ucraina.
Le tensioni sociali e il malcontento a causa della politica di Yanukovich, benché non siano un’invenzione dell’Occidente (ma forse che in Italia o in Grecia, ad esempio, non sono presenti gravi problemi sociali e un forte malcontento per le scelte imposte dalla “troika”?), non spiegano affatto quel che succede in Ucraina, anche se tali difficoltà interne vengono strumentalizzate dai media mainstream al fine di giustificare l’aggressione contro il governo ucraino che si vuol far cadere ad ogni costo. La tecnica è nota. Prima si creano, agendo su quelle “fratture” presenti in ogni Stato, le condizioni per una insurrezione perché avvengano incidenti e scontri attribuendo alle forze governative ogni sorta di crimini e misfatti, spesso proprio quelli commessi dai “ribelli”; poi scatta la condanna della “comunità internazionale” con sanzioni e la richiesta di cambio di regime. Gli episodi di violenza si moltiplicano, mentre nel Paese agiscono i membri delle solite Ong e i “ribelli” godono dell’appoggio incondizionato dei media mainstream. Naturalmente, questo è possibile grazie al pressoché totale controllo dell’opinione pubblica occidentale da parte dei centri di potere atlantisti che sanno benissimo che il conflitto bellico in senso stretto è parte di un conflitto ben più vasto, in cui svolgono un ruolo di primo piano la finanza, i mezzi di comunicazione e perfino (ed è di vitale importanza capirlo) il sistema educativo (dato che dissolvere ogni differente identità da quella occidentale politicamente corretta, che non sia cioè favorevole al mercato globale “americanocentrico”, è senza dubbio fondamentale per la strategia atlantista).
Ma la nuova strategia americana trae vantaggio anche da altri fattori. In primo luogo, i gruppi dominanti e, in generale, i ceti sociali più abbienti dei Paesi occidentali (ma non solo di questi), ovvero coloro che occupano o controllano la maggior parte dei posti che veramente contano in un sistema sociale ed economico complesso come quello occidentale (e ciò vale a maggior ragione per Paesi caratterizzati da una struttura sociale e produttiva meno articolata di quella occidentale), non possono non appoggiare la politica di potenza degli Usa, al di là di alcuni “distinguo” funzionali a particolari interessi nazionali o settoriali, giacché senza il gendarme d’oltreoceano le basi stesse del loro potere e dei loro privilegi sarebbero assai meno sicure. Tanto che è lecito affermare che ormai egemonia atlantista e sistema di potere oligarchico o meglio ancora plutocratico simul stabunt simul cadent. Inoltre senza un “blocco di potere” eurasiatico gli atlantisti hanno campo libero quasi ovunque e possono facilmente destabilizzare quegli Stati come l’Ucraina il controllo dei quali è necessario per impedire qualsiasi alternativa multipolare. E questo mentre ciascuna potenza eurasiatica (grande o media) pare “marciare” per conto proprio, in un’ottica nazionalistica, senza neppure comprendere che per contrastare efficacemente l’azione dei media e delle Ong occidentali bisognerebbe sostenere anche in Europa, se non in America, quei gruppi che si oppongono all’atlantismo. I risultati di tale miopia strategica sono palesi a chiunque.
In tale contesto internazionale è naturale che i diversi attori geopolitici tendano a seguire le regole dettate dai centri di potere atlantisti (il complesso politico, militare e industriale statunitense, di cui è parte costitutiva e sempre più influente la grande finanza angloamericana, nonché l’Fmi, la Banca mondiale, la Bce, i servizi di alcuni Paesi occidentali, le Ong più potenti come quelle legate a Soros, alcuni attori geopolitici regionali di particolare importanza, come l’Arabia Saudita e Israele, e così via), mentre gli Usa possono violarle praticamente come e quando vogliono. Se i numerosi agenti strategici occidentali possono non essere d’accordo su quali debbano essere le “regole del gioco” e possono farsi pure la guerra tra di loro (giacché solo i “complottisti” pensano che tutto sia pianificato e perfettamente sotto controllo; mentre è l’agire strategico, ben diverso dai “complotti”, che rileva ai fini di un’analisi geopolitica, che sempre deve tener conto di una molteplicità di fattori che interagiscono fra di loro, delle conseguenze non intenzionali delle azioni e dell’“attrito” che può far fallire anche il migliore piano strategico), certo non mettono in discussione quale deve essere la potenza predominante né quale deve essere il ruolo di tale potenza sul piano geopolitico ed economico. Si è venuta a creare pertanto una paradossale situazione asimmetrica che consente ad una sola parte di colpire duro, sopra e sotto la cintura, mentre le altre si devono giustificare anche per i colpi che riescono a schivare.
Al riguardo, significativo è proprio quanto sta accadendo in Ucraina. L’ingerenza negli affari interni di questo Paese da parte dell’Occidente è evidente a tutti ma nessuno se ne meraviglia o ha il coraggio di denunciarla apertamente. Si immagini quale sarebbe invece la reazione dei media mainstream se quanto accade in Ucraina dovesse accadere negli Usa o in un altro Paese occidentale. Eppure, nonostante che i “ribelli” ucraini non esitino a sparare contro la polizia e le forze di sicurezza di un governo legittimo (perché è indubbio che Yanukovich sia stato regolarmente eletto dal popolo ucraino) continuano ad essere definiti dai media occidentali come semplici “manifestanti”. Nemmeno il fatto che tra di loro vi siano pericolosi gruppi di estremisti e addirittura gruppi filo-nazisti induce alla cautela l’Occidente. Ma quel che più rileva è che il bersaglio che gli atlantisti vogliono colpire è la Russia, il vero “nemico geopolitico” degli Usa. Ed ogni mezzo – dalla strumentalizzazione della questione gay al terrorismo islamista – va loro bene pur di indebolire e destabilizzare il Paese che in Eurasia potrebbe “fare la differenza”. Ossia la Russia di Putin contro il quale da un pezzo viene impiegata la nota tattica della reductio ad Hitlerum.
Quindi ancora una volta è in Europa e nel Mediterraneo che si gioca la partita geostrategica decisiva in questo tormentato inizio di millennio. E non perché la Cina non conti, ma anzi proprio perché la Cina conta sempre più. A tale proposito non ci si deve far trarre in inganno dalle analisi di certi “esperti” che non sono altro (sia pure spesso inconsapevolmente) che gli altoparlanti della Cia e immaginano che la sfida globale tra gli Usa e la Cina sarà decisa da qualche battaglia aeronavale come quella di Midway nel 1942, che cambiò il corso della guerra tra gli Usa e il Giappone. Certamente un “regolamento bellico dei conti” (nel senso stretto di questa espressione) è sempre possibile (e non si dimentichi che il 28 luglio prossimo saranno passati esattamente cento anni dalla dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, ossia dallo scoppio della Grande Guerra), ma è soprattutto al più alto “livello geopolitico” che nell’era nucleare è necessaria una strategia fondata sull’“approccio indiretto”, sul “mascheramento”, sull’“asimmetria”. In poche parole si devono aggirare gli ostacoli per colpire il “ventre molle” dell’avversario. E per questo sono indispensabili dei gruppi (non necessariamente “manovrati”) che agiscano all’interno del Paese nemico come “quinte colonne”, tanto più indispensabili per evitare la nascita di un “blocco eurasiatico” che significherebbe il fallimento della geostrategia statunitense, rendendo impossibile conseguire quello scopo che gli Stati Uniti cercano di perseguire, con indubbia tenacia e notevole coerenza, perlomeno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Vale a dire il controllo geopolitico dell’Eurasia. Del resto, un tale “blocco” funzionerebbe come calamita per la stessa Europa sempre più subalterna alle logiche atlantiste dei “mercati” e del finanzcapitalismo d’oltreoceano, e comporterebbe con ogni probabilità una ridefinizione degli equilibri geopolitici nel Vicino (e Medio) Oriente. Da qui la necessità per i gruppi atlantisti di impedire ad ogni costo alla Russia di tornare a svolgere un ruolo di protagonista nello scacchiere mondiale. Ragion per cui è ovvio che tali gruppi si adoperino per indebolire i legami della Russia con i suoi alleati e per alimentare le tensioni sociali nel grande Paese eurasiatico, minacciando la sua sicurezza nazionale ma sapendo bene di poterlo fare, rebus sic stantibus, senza correre il pericolo di una reazione uguale e contraria né da parte della Russia né da parte di altri Paesi (Cina compresa).
Facile allora per l’Ue (che nella vicenda ucraina ha veramente “toccato il fondo” interpretando la parte del servo sciocco) e soprattutto per gli Stati Uniti far leva sul sentimento anti-russo della parte occidentale dell’Ucraina e su gruppi violenti pronti a tutto pur di far cadere Yanukovich. D’altronde, già nella Seconda guerra mondiale il nazionalismo ucraino era una realtà politica tutt’altro che ben definita: alcuni nazionalisti ucraini combatterono a fianco dei tedeschi, altri contro i tedeschi e i russi (nella primavera del 1944 lo stesso generale sovietico Vatutin, dopo che aveva liberato Kiev, venne ucciso da guerriglieri ucraini). L’Occidente dunque gettando benzina sul fuoco che sta bruciando l’Ucraina, come accadde, mutatis mutandis, negli anni Novanta per quanto concerne la Iugoslavia (e ancora una volta si deve sottolineare il ruolo della Germania che pare agire solo in funzione dei propri interessi economici, senza preoccuparsi delle conseguenze politico-strategiche che ne possono derivare), rischia pure di evocare forze che difficilmente possono essere controllate, benché l’Ucraina sia legata alla Russia da vincoli che non possono essere spezzati (per capirlo è sufficiente aprire un libro di storia e leggere qualcosa sul principato di Kiev e Vladimiro I la cui conversione al cristianesimo, alla fine del X secolo, aprì le porte di tutta la Russia alla chiesa ortodossa).
In ogni caso, il fatto che adesso sembra che si sia trovata una soluzione politica alla crisi in Ucraina, grazie ad un’azione diplomatica di Usa, Ue e Russia, conferma (non smentisce) il “doppio gioco” dell’Occidente. Meglio comunque non fare previsioni fintanto che la situazione è così fluida. Ma si può essere certi che se gli strateghi atlantisti dovessero fallire “ci riproveranno”, in Ucraina o altrove. Né si può fare alcun affidamento su questa Unione Europea per cambiare lo “stato delle cose” sotto il profilo geopolitico (e invero anche sotto il profilo sociale ed economico). Nondimeno non sarebbe impossibile ripagare i gruppi atlantisti con la loro stessa moneta, ma per questo occorrerebbe una visione strategica globale, che, oltre a dar vita ad una solida alleanza politico-militare tra potenze eurasiatiche (non impossibile, perché avrebbe uno spiccato carattere difensivo) al fine di porre un freno alla prepotenza degli Usa e della Nato, sapesse “combinare” con intelligenza e lungimiranza il soft power con l’hard power. Le potenze eurasiatiche hanno i mezzi e le risorse per farlo. Tuttavia, si deve ammettere che è tutt’altro che scontato che abbiano pure la volontà politica di farlo, rinunciando ad occuparsi solo del proprio “particulare”. Eppure basterebbe comprendere che è proprio qui, in Europa, che l’atlantismo può essere sconfitto.
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