Incastonato tra Arabia Saudita e Yemen, dotato di riserve petrolifere inferiori rispetto ai propri vicini, poco esteso, poco popoloso, il Sultanato dell’Oman non è un Paese che fa parlare di sé. Tuttavia, in esso si trovano concentrate alcune caratteristiche che lo rendono unico, nell’ambito dei Paesi del Golfo e, in generale, del Vicino Oriente.

Quando l’attuale Sultano Qabous Ibn Said rovesciò con un colpo di stato il proprio padre, da pochissimi mesi in Libia si era imposto Muammar Gheddafi, e tutti gli altri leader arabi, che in questi giorni stanno affrontando o hanno affrontato manifestazioni e rivolte, dovevano ancora salire al potere: era l’anno 1970.

Quarantuno anni dopo, nel 2011, alcune proteste sono divampate a Mascate, la capitale, e nella città portuale di Sohar, anche se, tuttavia, esse non sembrano essere state rivolte direttamente contro il Sultano Qabous.

Un regime discreto e longevo, improntato sui proventi del petrolio e sulla diplomazia internazionale

Se la longevità accomuna i governi di Qabous e Gheddafi, certamente la loro forma e la loro immagine proiettata nel mondo differiscono grandemente. A differenza di Gheddafi, Qabous ha preferito mantenere in ambito internazionale un profilo moderato, ma fattivo, imperniato sul consolidamento di rapporti di collaborazione con diversi Paesi della regione così come con Stati Uniti ed Europa.

Infatti, fin dal suo avvento al potere, il Sultano Qabous si è adoperato per superare l’isolazionismo internazionale imposto al Paese dal padre, operando una netta apertura dell’Oman al mondo. Al contempo, Qabous ha utilizzato i proventi della vendita del petrolio, la principale fonte di guadagno del Paese, per sviluppare le infrastrutture interne ed investire su salute, educazione e benessere.

In politica estera, Qabous ha conservato ottimi rapporti con Gran Bretagna ed India, gli unici Paesi che mantenevano a Mascate rappresentanze diplomatiche anche ai tempi del padre. Nel 1979, il Sultanato ha supportato gli accordi di Camp David ed è stato uno dei pochissimi Paesi della Lega Araba a non rompere i rapporti con l’Egitto dopo il trattato di pace con Israele. Durante la Guerra tra Iraq ed Iran, nel 1980-1988, l’Oman ha mantenuto relazioni diplomatiche con entrambi i Paesi, appoggiando in contemporanea le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che richiamavano alla fine delle ostilità. Con i propri vicini, l’Oman ha stretto importanti legami: nel 1981 fu tra i fondatori del Gulf Cooperation Council.

Durante la Guerra Fredda, l’Oman ha evitato di avere relazioni con l’Unione Sovietica, a causa del suo appoggio all’insurrezione del Governatorato di Dhofar, nel sud del Paese. Recentemente, l’Oman ha intrapreso iniziative diplomatiche in Asia Centrale, soprattutto in Kazakhstan, dove è stato coinvolto in un progetto congiunto per la creazione di un oleodotto.

L’Oman di Qabous ha sempre appoggiato le iniziative di pace per il Medio Oriente. Nel 1996, Oman e Israele hanno stabilito nei rispettivi territori uffici di scambio commerciale, anche se nel 2000 l’Oman ha chiuso gli uffici israeliani a causa di manifestazioni pubbliche contro Israele in occasione della seconda Intifada.

Inoltre, l’Oman è legato economicamente alla Cina. Nel dicembre del 2010 si è svolto a Mascate il Comitato interministeriale Cina-Oman, in occasione del quale i due Paesi hanno rafforzato i loro rapporti in diversi settori di cooperazione, creando nuove sinergie politiche ed economiche.

Tuttavia, il capolavoro diplomatico di Qabous consiste nel doppio binario di relazioni con due tra i più influenti e contrastanti Paesi al mondo: Stati Uniti ed Iran.

Con gli Stati Uniti, l’Oman manteneva contatti diplomatici da sempre. Dagli anni ‘80, i rapporti tra i due Paesi hanno subito una brusca accelerazione: nel 1980, Oman e USA firmarono un accordo che permetteva alle forze statunitensi l’accesso nelle strutture militari omanite secondo condizioni prestabilite; inoltre, nello stesso anno, i due Paesi stabilirono la Commissione Congiunta per la Cooperazione Economica e Tecnica, tramite la quale gli USA poterono fornire aiuti economici e per lo sviluppo al Sultanato. Nel 2006, Oman e Stati Uniti firmarono un Accordo di Libero Scambio, che è entrato in vigore dal 2009. Il Sultano Qabous ha fatto visita più volte a Washington, e ha a sua volta ricevuto diversi presidenti e rappresentanti del Governo statunitensi.

Per quanto riguarda l’Iran, l’Oman si configura secondo molti analisti come il suo più vicino interlocutore tra i Paesi del Golfo. Già al tempo dello shah, l’Iran intervenne a favore del Governo omanita durante la già citata rivolta di Dhofar, inviando quattromila soldati a difesa dell’integrità del Paese. Negli anni, il Sultano Qabous ha saputo stringere legami con Teheran in diversi ambiti. Sul versante economico, i due Paesi condividono una fiorente attività di estrazione ed esportazione del petrolio ed entrambi sono membri dell’OPEC. Iran ed Oman condividono giacimenti di gas al largo della Penisola di Musandam (in territorio omanita) e sull’isola di Kish (in territorio iraniano). Il volume di interscambio commerciale tra i due Paesi è notevole e sono già in discussione rilevanti progetti di investimento reciproco. Dal 2008, inoltre, Mascate e Teheran stanno discutendo alcuni progetti di cooperazione militare. Sul tema del nucleare, il Sultano Qabous ha mantenuto un atteggiamento ambiguo, discutendo in più occasioni della questione con rappresentanti del governo statunitense, ma affermando che essa non è causa di preoccupazione per il proprio Paese.

Perché tutti vogliono buoni rapporti con l’Oman?

La combinazione di impulso allo sviluppo in ambito interno e di ottimi rapporti con i maggiori attori internazionali in ambito estero ha permesso al Sultano Qabous di giungere al quarantunesimo anno di governo in relativa tranquillità. La stabilità interna e la presenza dell’Oman in numerose occasioni di confronto internazionale, accompagnate da un’attenta discrezione, hanno facilitato la costruzione di solide relazioni tra il Sultanato e diversi attori internazionali.

D’alta parte, le caratteristiche stesse dell’Oman lo rendono indubitabilmente un Paese dalla cui alleanza le grandi potenze trovano numerosi vantaggi. Innanzitutto, ma non principalmente, la sua economia. L’Oman è il venticinquesimo produttore ed esportatore di petrolio al mondo, e sebbene la sua produzione di greggio risulti più modesta di quella di alcuni suoi vicini, essa genera dei surplus di bilancio che rendono il Paese particolarmente appetibile per lo sviluppo di attività di scambio commerciale.

In secondo luogo, l’immagine stessa impressa al Paese dal Sultano Qabous. Diventa infatti vantaggioso, per diverse potenze internazionali, contare sull’alleanza di un Paese, l’Oman appunto, che risulta sicuro, stabile, e che detiene soprattutto ottimi rapporti con tutti. Questa caratteristica rende il Sultanato un mediatore discreto e affidabile in questioni di rilevanza internazionale, trasformandolo, quasi contemporaneamente, in un alleato imprescindibile in caso di necessità di discussione indiretta tra potenze che formalmente non dialogano. Il caso più evidente è la contemporanea attività diplomatica dell’Oman con Stati Uniti ed Iran. Nel settembre del 2010, ad esempio, la mediazione del Governo omanita ha permesso il rilascio di una dei tre escursionisti statunitensi sconfinati in territorio iraniano dal Kurdistan iracheno e arrestati dalle autorità locali con l’accusa di spionaggio.

In terzo luogo, e forse principalmente, la posizione strategica dell’Oman. Sebbene, come è già stato sottolineato, le riserve di greggio del Sultanato non risaltino particolarmente in ambito GCC, tuttavia l’Oman si trova ad occupare uno dei punti geografici più strategici al mondo: l’imboccatura del Golfo Persico. Il Golfo dell’Oman, appunto, precede lo Stretto di Hormuz, il punto in cui la penisola Araba più si avvicina alle coste iraniane, e introduce le navi addette al trasporto del petrolio nel Golfo Persico. L’Oman dunque si trova ad essere il guardiano del passaggio d’ingresso nell’area da cui esce circa il 40% delle forniture marittime mondiali di greggio. Questo ruolo comporta una responsabilità notevole nei confronti di tutto il mondo. Infatti, se i flussi di greggio che attraversano tutti i giorni lo Stretto di Hormuz dovessero essere interrotti o rallentati per qualsiasi motivo, il prezzo del petrolio subirebbe bruschi rialzi, provocando in tutto il mondo crisi della cui entità gli anni ’70 hanno fornito alcuni esempi.

L’affanno delle grandi potenze attorno a questo importante passaggio è reso ancora più concitato dal tenore dei Paesi che lo circondano e che ne gestiscono, per così dire, i flussi di entrata ed uscita: se da un lato, infatti, troviamo le “petro-monarchie” della Penisola Araba, come Oman appunto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, esse sono fronteggiate, dall’altro, dall’Iran di Kamanei e Ahmadinejad. Le reiterate minacce da parte del regime iraniano di bloccare lo Stretto di Hormuz sono contrastate da una massiccia presenza militare statunitense nel Golfo: il Qatar infatti ospita la base USAF di al-Udeid e il Comando operativo di CENTCOM, mentre a Manama, in Bahrein, staziona la 5ª Flotta della US NAVY, da cui partono i caccia che forniscono copertura aerea ai soldati in Iraq e Afghanistan. Lo Stretto di Hormuz, quindi, diventa un campo da gioco fondamentale su cui si sta svolgendo un vero e proprio braccio di ferro tra le potenze mondiali. Pertanto, la posizione geografica dell’Iran può essere interpretata da un lato come una minaccia per il mantenimento del flusso di greggio, dall’altro come una garanzia per Teheran di incolumità da attacchi esterni da parte di un avversario che staziona il proprio arsenale alle porte di casa. All’opposto, la presenza militare nel Golfo agisce per le monarchie arabe e per gli Stati Uniti come deterrente contro le minacce del vicino iraniano, mentre per l’Iran essa si configura come un pericolo costante per la propria incolumità. Questa contrapposizione di forze genera uno stato di equilibrio all’interno del quale a nessuno degli attori in campo è permesso allentare la propria posizione.

Sebbene esistano idee e proposte per trovare vie alternative per il trasporto del greggio, come ad esempio la progettazione di un oleodotto, ancora in fase di discussione, che attraversi l’Arabia Saudita da Est ad Ovest, l’attuale mancanza di altre soluzioni rende lo Stretto di Hormuz di importanza cruciale.

Risulta pertanto evidente come per l’Oman il controllo di una tale posizione, così come la sua contemporanea vicinanza all’Arabia Saudita e all’Iran, non soltanto ponga il Paese al centro dell’attenzione internazionale, ma lo renda un alleato obbligato, un attore internazionale che, seppur di apparenze modeste, risulta imprescindibile per qualsiasi potenza internazionale.

Le proteste arabe, i pericoli per l’equilibrio e la soluzione omanita

Le proteste che stanno infiammando la maggior parte del mondo arabo costituiscono certamente un grande pericolo per i regimi al potere in tali Paesi. Tuttavia, esse costituiscono un pericolo ancora più consistente per il mantenimento dei diversi equilibri presenti nella regione. Il fatto che negli ultimi mesi manifestazioni con esiti sanguinosi abbiano colpito Stati come il Bahrein, l’Arabia Saudita o lo Yemen crea sconcerto e preoccupazione a livello internazionale. L’importanza dello Stretto di Hormuz, infatti, rende diverse potenze del mondo, soprattutto quelle che più traggono vantaggi dallo status quo, particolarmente sensibili al mantenimento della sua stabilità.

Nel caso dell’Oman, le manifestazioni sono scoppiate a fine febbraio nella città portuale di Sohar, quando centinaia di persone si sono riunite per reclamare posti di lavoro e riforme politiche. Le violenze sono iniziate il giorno seguente alla prima protesta, quando i manifestanti hanno tentato di liberare alcuni arrestati del giorno prima dando fuoco al commissariato in cui erano detenuti. Le proteste si sono diffuse anche in altre città, come Mascate e Salalah.

Il Sultano Qabous, dopo aver assistito alla destituzione dei Presidenti tunisino ed egiziano, aveva già provveduto, a metà febbraio, a varare alcune manovre per evitare malcontenti tra la popolazione: il salario minimo per i nazionali nel settore privato era stato aumentato del 43% (giungendo a circa 380 euro mensili), era stato creato un organismo di protezione per il consumatore, erano stati annunciati aiuti finanziari per i funzionari e aumenti delle borse di studio per universitari. Queste misure non sono risultate sufficienti ad evitare le proteste.

E’ stato tuttavia notato come, a differenza di altri Paesi dell’area, i manifestanti omaniti non abbiano chiesto apertamente un cambio di regime. Le voci della protesta infatti non hanno criticato direttamente il Sultano Qabous, ma si sono limitate a reclamare dei cambiamenti su aspetti che riguardano direttamente la vita dei cittadini: creazione di posti di lavoro, maggior controllo statale sull’aumento dei prezzi del cibo, l’attribuzione di maggiori poteri al majlis al-shura, la camera del parlamento semi-eletta, e la fine della corruzione di alcuni membri del Governo. All’inizio di marzo, il Sultano Qabous ha provveduto ad effettuare un rimpasto del Consiglio dei Ministri, il maggiore dall’inizio del suo Governo, nel 1970. Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno incoraggiato il Sultano ad intraprendere le riforme necessarie per evitare un degenerare della situazione proprio nel Paese che fa da sentinella, assieme all’Iran, all’ingresso del Golfo Persico.

Secondo diversi analisti, tuttavia, la situazione in Oman sarebbe ancora sotto controllo e la stabilità del Governo non risulterebbe in pericolo per vari motivi. Innanzitutto, la popolazione omanita è poco numerosa e tendenzialmente bendisposta nei confronti del Sultano, mentre le forze dell’opposizione sono deboli e male organizzate. Inoltre, mancano in Oman le tensioni settarie che si sono riscontrate altrove, come ad esempio nel Bahrein, e la proporzione tra nazionali ed expatriates presenti nel Paese non assume dimensioni preoccupanti, come accade in altri Stati del Golfo. In una tale situazione, quindi, sembrano mancare alcuni degli elementi chiave che possano mettere in pericolo la stabilità del Governo.

Il Sultano Qabous ha finora risposto perseguendo la sua usuale politica della discrezione, concedendo alcune riforme alla folla manifestante, ma mantenendo stretto il controllo sul potere. Nel frattempo, si sta adoperando per svincolare il proprio Paese dal ruolo di sentinella del Golfo, favorendo lo spostamento delle vie di flusso del greggio dallo Stretto di Hormuz. Da un lato infatti, l’Oman ha intrapreso un programma di sviluppo e di aggiornamento della propria rete di porti, attraverso l’ampliamento del porto di Salalah e la costruzione di una altro ancora più grande a Duqm; dall’altro, sta progettando una linea ferroviaria che metterà in comunicazione questi nuovi porti con la frontiera degli Emirati Arabi Uniti, come parte di un ambizioso progetto che mira ad unire tutti i Paesi arabi situati sulla costa del Golfo Persico, fino al Kuwait. Se questo progetto fosse realizzato, il trasporto del petrolio potrebbe avvenire su rotaia, anziché via mare, e in questo modo il flusso di greggio più importante del mondo sarebbe stornato dallo Stretto di Hormuz, allontanandolo dalle minacce dell’Iran. Così, l’equilibrio regionale sarebbe stravolto a vantaggio dei Paesi arabi. In una tale ottica, l’Oman non perderebbe tuttavia il suo ruolo cruciale, poiché diventerebbe porto d’attracco delle navi da trasporto e punto di passaggio obbligato per tutti i flussi di petrolio diretti dal Golfo al resto del mondo.


* Giovanni Andriolo è dottore magistrale in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino).


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