Introduzione
Insieme alle necessità di accesso alle risorse naturali, la ricerca della cosiddetta “profondità strategica” gioca un ruolo notevole tra le cause geografiche dei conflitti. Oggetto di questo studio non saranno quindi le cause culturali o religiose dei medesimi – e nemmeno le cause territoriali in genere – bensì le cause geografiche strettamente legate al controllo di vie di comunicazione e più ancora alla creazione di aree di sicurezza strategica e militare. Proveremo a definire cosa sia la “profondità strategica” ed a studiarla analizzando casi relativi al continuum geografico eurasiatico, nonché a dimostrare con metodo qualitativo come la ricerca della stessa possa essere non foriera di sicurezza, ma causa di instabilità e di coinvolgimento in conflitti.
Profondità strategica: una definizione
La definizione di “profondità strategica” non può essere dunque scissa dal concetto di sicurezza dello Stato. La base ontologica dell’esistenza di uno Stato – e molto spesso, anche di entità non statuali o parastatuali come le organizzazioni criminali o i potentati economici – è il controllo cogente di un territorio. La base della sicurezza di uno Stato – e degli attori sopra menzionati – è qualcosa di ulteriore: è la capacità di accesso strategico (militare ed economico) a spazi circostanti, vicini, affini geograficamente, economicamente (e in ultima istanza culturalmente) nonché difendibili.
La profondità strategica e la posizione geografica degli attori strategici
Il teatro eurasiatico è costellato di esempi a sostegno della nostra definizione, teatri strategici che le potenze di vario livello considerano parte della propria fascia di sicurezza e del proprio interesse vitale al di fuori dei propri confini e spazialmente periferici o all’interno dei medesimi ma non pertinenti al proprio nucleo economico e politico.
– La Cina dipende in massima parte dal mare per le proprie importazioni ed esportazioni ed ha sulla costa le sue regioni più prospere. Il governo cinese ha optato da anni per un concreto ribilanciamento verso l’entroterra, a causa della barriera di isole potenzialmente ostili che potrebbero chiudere la Cina nei propri mari, impedendo l’accesso alle acque degli oceani Indiano e Pacifico (Filippine, Giappone, Indonesia, Taiwan, a seconda di mutevoli relazioni intergovernative). Fondamentale per la profondità strategica cinese è il controllo del Tibet, contrafforte militare contro il rivale indiano; di qui la possibilità di estendere l’influenza cinese su paesi “cuscinetto” come Nepal e Bhutan, nonché di esercitare il controllo sul Sinkiang, la provincia occidentale pianeggiante che conduce verso i valichi montani dell’Asia centrale, ponte verso l’Ovest per gasdotti, oleodotti e ferrovie. Altro antemurale contro le posizioni americane è la Corea Popolare, vero e proprio “Stato cuscinetto” tra il cuore del potere politico cinese – l’area di Pechino – e la Corea del Sud.
– Il Pakistan, relativamente molto piccolo rispetto al rivale indiano, ha nell’Afghanistan la propria retrovia centroasiatica, che esso considera fondamentale area di rifugio strategico in caso di conflitto e leva diplomatica verso i paesi coinvolti nella stabilizzazione del paese in tempo di pace.
– Dopo la fine del dominio mongolo, i pericoli per la Russia sono sempre giunti da ovest: la PS russa punta ad estendere il proprio confine terrestre il più ad ovest possibile, nei bassopiani dell’Europa orientale e centrale. Di qui l’interesse per Bielorussia ed Ucraina – e per i propri fondamentali bastioni in Crimea e nell’exclave di Kaliningrad. Qualora la Russia fosse massicciamente attaccata via terra da occidente, si troverebbe in difficoltà a difendere con sole forze convenzionali il Caucaso, il bassopiano della propria parte europea sino al Volga e da lì agli Urali e le proprie due capitali a nord.
– La Germania non ha confini naturali, se si escludono le Alpi, da oltre le quali non sono più giunte minacce dai tempi dell’Impero Romano. Verso ovest, la Germania ha sempre rivendicato come parte del proprio suolo nazionale l’Alsazia e la Lorena, mentre ha sempre considerato l’est del continente come bacino di espansione e penetrazione – o di sfruttamento – spaziale, agricolo, demografico e commerciale, sempre incerta tra una logica di collaborazione ed una di competizione (quando non di scontro) con la Russia.
– L’entità denominatasi “Stato d’Israele”, che dal 1948 occupa il territorio palestinese, non ha alcuna profondità strategica, se non quelle minimali costituite dalla permanente occupazione della Cisgiordania come contrafforte della valle del Giordano e dall’annessione de facto del Golan, attorno al quale ha recentemente tentato di costituire un’informale zona cuscinetto gestita dalle bande terroriste in chiave antisiriana ed antiraniana.
– La Turchia vive nel costante incubo politico della nascita di un Kurdistan unitario ed ostile: considera quindi come “minimo strategico” la creazione di un’area cuscinetto nel nord della Siria che separi tra loro i cantoni del Rojava e mantiene saldi rapporti col governo autonomo del Kurdistan iracheno, ostile al PKK/PYD. Vede inoltre con favore quanto meno temporaneo tutte le forze militanti sunnite, più o meno fondamentaliste ma quanto meno anticurde (e antiraniane).[1]
– Fin dai tempi della dinastia achemenide la Persia ha dovuto difendersi dalle invasioni dei popoli delle steppe da nord-est, compensandole con la ricerca di profondità strategica nelle steppe e in Afghanistan, ed ha cercato di tutelarsi dagli assalti dall’Europa costruendosi bastioni sul Mediterraneo. L’Iran contemporaneo considera importante mantenere buone relazioni con l’Asia Centrale, essere influente in Afghanistan – specialmente nell’area di Herat – e consolidare la “mezzaluna sciita” verso il Mediterraneo, dalla Siria al Libano. La vera strategia iraniana poggia anche sullo stretto di Hormuz, mentre lo scontro col fronte filosaudita nello Yemen ha natura principalmente diversiva, a dispetto dell’importanza di questo collo di bottiglia dei traffici marittimi mondiali. Si tratta esattamente delle aree in cui la Repubblica Islamica appoggia movimenti militanti – spesso in armi – che ne condividono la fede sciita e vedono nell’Iran una fonte di finanziamento, appoggio e sostegno.
– L’Arabia Saudita non ha mai costituito uno Stato-nazione come l’Iran, quanto piuttosto una confederazione di tribù rette da una dinastia che costruisce la propria legittimità sulla scorta di una particolare ideologia religiosa (quella wahabita) e sulla capacità di acquisire consenso grazie ai proventi petroliferi. Le tensioni dinastiche, la ricerca di legittimazione in tutto il mondo islamico sunnita e la necessità di apparire “forte” portano la petromonarchia saudita da un lato a scaricare le proprie tensioni politiche sul piano geopolitico, dall’altro a ricercare una fascia di sicurezza garantendosi il controllo o l’influenza sui paesi arabi circostanti. Strumenti dell’azione saudita sono i petrodollari, gl’interventi militari e la propaganda wahhabita, che viene indirizzata verso la componente sunnita dei paesi misti (Iraq, Siria, Yemen).
La “trappola della profondità”: fattore di sicurezza o di instabilità?[2]
Gli Stati privi di un’estensione significativa rispetto ai loro avversari (Pakistan, Germania, Iran, Israele), di barriere naturali fisiche differenti dalla loro stessa vastità (Russia) o, ancora, rese potenzialmente deboli da un’esposizione strategica forte e da interessi cogenti sia sul lato marittimo che terrestre (Cina) hanno posto la profondità strategica al centro della propria strategia, o in una logica offensiva, o difensiva, o per pura sopravvivenza.
La logica della ricerca della profondità strategica, vista come cardine della strategia di sicurezza, sovranità e sopravvivenza e crescita, può trasformarsi in un ulteriore fattore di instabilità a causa della competizione con potenze vicine di pari grado, dello scontro con potenze minori, del coinvolgimento in teatri di per sé instabili. La Russia e la Germania hanno troppo spesso finito per collidere sulle pianure dell’Europa Orientale; la Cina deve affrontare l’irrequietezza della propria frontiera interna in Tibet e Sinkiang; potenze quali il Pakistan – o, in una dinamica assai simile, la Turchia in Siria in funzione anticurda – hanno finito per fomentare instabilità nelle proprie aree di profondità strategica, partendo dal progetto di controllare entità “deboli” e destabilizzate e giungendo all’amara conclusione di aver importato quell’instabilità e quei conflitti che sognavano di esportare come strumento di egemonia.
A doppio taglio è l’intervento dell’Iran in Siria e in Iraq, alleati che la Repubblica Islamica non può abbandonare per ragioni di profondità strategica. L’Iran si propone come elemento di sicurezza contro il terrorismo settario, ma si trova coinvolto in un lungo conflitto che sta costando vite umane, risorse economiche e la diffidenza di una parte del mondo sunnita.
Quando ad Israele, il dilemma della sicurezza esplode nella contraddizione di non poter abbandonare i territori occupati nel 1967, dovendovi far fronte all’esasperazione della popolazione palestinese.
La vera fonte di sicurezza delle potenze deve essere quella di farsi “infrastruttura” di sicurezza e fornitori di sicurezza ai propri alleati, su un piano di rispetto della loro sovranità e in una logica di sviluppo comune. I casi in cui le potenze suddette hanno avuto successo sono tutti riconducibili a questa logica: si considerino gli investimenti infrastrutturali cinesi, la capacità della Russia di agire da fornitore di sicurezza in Asia Centrale e nel Vicino Oriente, la capacità tedesca di integrare i paesi dell’Europa Orientale nella propria catena del valore industriale.
In conclusione, l’investimento economico e lo sviluppo devono muoversi sempre di pari passo con la logica basilarmente militare[3]. Sarebbe riduttivo sostenere che i rapporti commerciali giochino un ruolo importante in tutto questo; essi non possono prevenire del tutto i conflitti – si pensi ai legami economici tra Russia e Ucraina – ma possono essere un concreto facilitatore di buoni rapporti: se è del tutto falso affermare che “dalle frontiere attraverso le quali passano le merci poi non passeranno gli eserciti”, si può dire che i conflitti diventano meno probabili e la sicurezza aumenta laddove si collabori non solo in chiave economica ma anche in chiave di sicurezza e laddove si valorizzino affinità culturali e valoriali e comuni visioni strategiche[4]. Ecco come possiamo immaginare un nuovo tipo di profondità strategica, non alternativo ma complementare al primo e cioè quello dato dal potere di influenza, dall’affinità culturale, politica e strategica e dai legami che possono originare. Si pensi solo ai rapporti tra paesi degli opposti blocchi della guerra fredda, o alla collaborazione russo-cinese, rafforzata dalla comune preoccupazione per l’assertività unilaterale degli USA, e ciò nonostante la competizione tra il Dragone e l’Orso per l’Asia Centrale[5].
Postilla: il caso italiano
Secondo la logica di quanto sommariamente esposto, come possiamo analizzare il caso italiano? L’Italia è iscrivibile nell’elenco delle medie potenze da sempre deboli, in quanto aggredibile sia da nord – già dal Foscolo le Alpi erano definite “mal vietate” – sia dall’ex “mare nostrum”, come dimostrato dalla storia passata (per quanto riguarda il nord) e dalla cronaca attuale (flussi migratori marittimi da sud).
L’Italia ha provato a far fronte alla sua “doppia debolezza” in due modi diversi, a seconda delle fasi storiche. Sino al 1945, sul lato continentale ha concluso fragili alleanze con potenze maggiori, mentre sul lato marittimo ha cercando una propria profondità strategica occupando le coste africane del Mediterraneo e quelle balcaniche dell’Adriatico. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale ha cercato di conciliare la “fedeltà atlantica”, l’europeismo istituzionale ed i buoni rapporti col gigante sovietico e col mondo arabo. La preminenza francese e ancor più tedesca nell’Europa dopo il 1989, la posizione sempre più defilata degli USA nel Mediterraneo dopo la fine della Guerra Fredda, nonché l’instabilità di tutto il mondo arabo non solo privano l’Italia di una qualsiasi profondità strategica, ma la lasciano in balìa degli altrui interessi e degli eventi più drammatici del nostro tempo – si pensi ancora ai flussi migratori africani[6].
NOTE
[1] Si noti la differenza del caso turco e di quello israeliano rispetto a tutti gli altri: anche quando foriere (quasi sempre) di comportamenti offensivi e destabilizzanti, le posizioni di tutti gli altri Stati elencati sono difensive, mentre quella turca verso i Curdi e quella israeliana verso i popoli arabi che circondano lo stato ebraico sono invece offensive su entrambi i piani. Turchia e Israele non cercano cuscinetti che fungano da antemurale (come la Cina nei confronti dell’India, o la Russia nei confronti dell’Occidente) o da retrovia (come il Pakistan rispetto all’India), ma sabotano l’autodeterminazione stessa del nemico (curdo o palestinese).
[2] Si noti, a margine di ogni ragionamento, che l’impalcatura ideale su cui poggia questo articolo è quella dell’ipotesi di conflitti puramente convenzionali e “territoriali”, una sorta di grande “war game” in cui i contendenti rinunciano al deterrente nucleare. Qualora paesi come il Pakistan o la Russia – le cui dottrine d’uso non escludono la possibilità di “primo colpo” – si vedessero minacciati nella propria capacità di tenuta territoriale, potrebbero seriamente ricorrere all’arma atomica, e la Russia non solo in caso di attacco da occidente ma anche nel pur improbabile (ad oggi fantapolitico) caso di un soverchiante assalto cinese.
[3] Si veda il nostro Geopolitica della Federazione Russa nelle organizzazioni internazionali in ASRIE Associazione – CeSEM Centro Studi Eurasia Mediterraneo: “Report Russia”, http://www.asrie.org/wp-content/uploads/2016/10/Report-Russia-2016.pdf
[4] Si veda Simone Pasquazzi, Dopo la guerra: Grandi potenze e riallineamenti dopo i conflitti egemonici, Vita e Pensiero, 2012, Milano. In un minuzioso studio quantitativo l’autore dimostra come siano tendenzialmente gli Stati affini dal punto di vista della tipologia di regime politico ad allinearsi e a costituire alleanze a seguito dei conflitti del mondo moderno e contemporaneo, al di là delle logiche storiche o di brutale equilibrio di forza.
[5] Il punto di vista americano sul “soft power” è nel celeberrimo libro dell’inventore del concetto: Joseph Nye, Soft Power, 2005, Einaudi. Si avverte il lettore che in quest’opera, pur originale e sagace, troverà per l’appunto la prospettiva della potenza assertrice dell’unipolarismo. Si prenda l’opera come strumento per accostare il concetto di fondo.
[6] Si veda il numero 4/2017 di LIMES, “A che serve l’Italia”.
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