Fonte: Voltairenet
Lacerata dal conflitto che infuria tra il suo presidente e il suo primo ministro, la Russia ha ora mancato l’occasione storica per inserirsi in Medio Oriente. Le élite russe non sono riuscite a sviluppare una strategia in questa regione, quando ne hanno avuto l’opportunità, e non sono più in grado di definirla oggi. Per Thierry Meyssan, Mosca è paralizzata: non riesce a sfruttare appieno il fallimento del “rimodellamento” statunitense, ne a rispondere alle aspettative che ha suscitato Putin.
Il Presidente Medvedev e il primo ministro Putin. La complicità tra gli “Amici trentennali” si è improvvisamente trasformata in guerra aperta. In queste condizioni, come potrebbe Mosca assumere una grande ambizione in Medio Oriente?
Il fallimento di Israele contro la resistenza libanese, nell’estate del 2006, segnò la fine dell’egemonia statunitense in Medio Oriente. In quattro anni, i dati militari, economici e diplomatici sono stati completamente rinnovati. Nel periodo attuale, il triangolo Turchia-Siria-Iran si afferma come leader, mentre la Cina e la Russia stanno espandendo la loro influenza, mano a mano che gli Stati Uniti si ritirano. Ma Mosca è riluttante a cogliere tutte le opportunità a sua disposizione, in primo luogo perché il Medio Oriente non è una priorità, poi perché non c’è nessun progetto consensuale nell’élite russa per la regione e, infine, perché i conflitti in Medio Oriente rinviano agli irrisolti problemi interni della Russia. Situazione:
2001-2006 e il mito del rimodellamento del “più grande Medio Oriente”
L’amministrazione Bush aveva saputo raccogliere intorno a un progetto grandioso, la lobby del petrolio, il complesso militare industriale e il movimento sionista: dominare i giacimenti petroliferi dal Mar Caspio al Corno d’Africa, ridisegnando la mappa politica sulla base di piccoli etno-stati. Delimitata non in funzione della popolazione, ma della ricchezza del sottosuolo, la zona fu chiamata in origine “Mezzaluna della crisi” dall’accademico Bernard Lewis, e poi è stata designata come “più Grande Medio Oriente” (Greater Middle East) da George W. Bush.
Washington non ha lesinato sui mezzi per “rimodellarlo”. Enormi somme sono state ingoiate per corrompere le élite locali, al fine di rinunciare ai loro interessi nazionali, a favore degli interessi personali, in un’economia globalizzata. Più importante, una gigantesca armada è stata inviata in Afghanistan e in Iraq, per attanagliare l’Iran, l’attore principale nella regione a resistere all’Impero. Di già i progetti stesi dallo stato maggiore USA venivano diffusi. C’erano tutti gli Stati della regione, tra cui gli alleati degli Stati Uniti, squartati in diversi emirati incapaci di difendersi. Mentre la Casa Bianca impose all’Iraq sconfitto, una partizione in tre stati federali (uno curdo, uno sunnita e uno sciita).
Mentre nulla sembrava arrestare questo processo di dominio, il Pentagono diede a Israele il compito di distruggere i fronti secondari prima di attaccare l’Iran. Si trattava di sradicare Hezbollah e rovesciare il governo siriano. Ma Ahimè! Dopo aver seppellito un terzo del Libano, sotto un tappeto di bombe senza precedenti dalla guerra del Vietnam, Israele è stato costretto a ritirarsi senza aver raggiunto alcuno dei suoi obiettivi. Questa sconfitta ha segnato il rovesciamento dei rapporti di forza.
Nei mesi che seguirono, i generali statunitensi si ribellarono alla Casa Bianca. Non dominavano ancora la situazione in Iraq, e le difficoltà previste, con il timore di una guerra contro uno stato ben armato e organizzato come l’Iran, sullo sfondo di una conflagrazione regionale. Unitisi intorno all’ammiraglio William Fallon e al vecchio generale Brent Scowcroft, si allearono con i politici realisti che si erano opposti a questa pericolosa sovra-estensione militare. Tutti usarono la Commissione Baker-Hamilton per influenzare l’elettorato, fino a rovesciare il Segretario alla Difesa USA Donald Rumsfeld, e imporre uno di loro come successore: Robert Gates. Successivamente, le stesse persone portarono Barack Obama alla Casa Bianca, a condizione che egli tenesse Robert Gates al Pentagono.
In realtà, lo stato maggiore USA non ha una strategia alternativa, dopo il fallimento del “rimodellamento”. Si preoccupa solo di stabilizzare la sua posizione. I GI si sono ritirati dalle principali città irachene e sono rientrati nelle loro basi. Hanno lasciato la gestione del paese agli israeliani, nella parte curda, agli iraniani nelle parti arabe. Il Dipartimento di Stato ha sospeso la sua elargizione di doni ai leader della regione, e sembra essere sempre più avaro, in questi tempi di crisi economica. Li ha costretti a cercarsi nuovi padroni che li nutrano. Solo Tel Aviv pensa che la ritirata USA non sia che un’eclisse, e che il “rimodellamento” riprenderà, una volta terminata la crisi economica.
La formazione del triangolo Turchia-Siria-Iran
Washington aveva immaginato che lo smantellamento dell’Iraq sarebbe stato contagioso. La guerra civile tra sciiti e sunniti (la Fitna, in arabo) avrebbe dovuto trascinare l’Iran contro l’Arabia Saudita e dividere tutto il mondo arabo-musulmano. La quasi indipendenza del Kurdistan iracheno, avrebbe dovuto suonare l’ora della secessione curda in Turchia, Siria e Iran.
Al contrario, riducendosi la pressione degli Stati Uniti in Iraq, venne sigillato un’alleanza dei fratelli nemici turchi, siriani e iraniani. Tutti si resero conto che dovevano unirsi per sopravvivere, e che uniti avrebbero potuto esercitare la leadership regionale. Infatti, tre di questi stati coprono la maggior parte della scena politica regionale. La Turchia, erede dell’impero ottomano, rappresenta il sunnismo politico. La Siria, solo Stato baathista, dopo la distruzione dell’Iraq, incarna la laicità. Infine l’Iran, che dopo la rivoluzione khomeinista, incarna la sciismo politico.
In pochi mesi, Ankara, Damasco e Teheran hanno aperto le frontiere, ridotto le loro tariffe e ha gettato le basi per un mercato comune. Questa apertura ha portato a una boccata d’ossigeno e a una crescita economica improvvisa. Improvvisamente, incontra un reale sostegno popolare, nonostante il ricordo di faide passate.
Tuttavia, ciascuno di questi stati, a un suo tallone d’Achille con cui, non solo gli Stati Uniti e Israele, ma anche alcuni dei loro vicini arabi, sperano di colpirli; tuttavia, ogni stato ha il suo tallone d’Achille.
Ugualmente a Mahmoud Ahmadinejad, Vladimir Putin è diventato per Washington “l’uomo da abbattere.”
© Mehdi Ghasemi, agenzia Isna
Il programma nucleare iraniano
Per diversi anni, Tel Aviv e Washington hanno accusato l’Iran di violare i suoi obblighi, in quanto firmatario del trattato di non proliferazione nucleare, e di perseguire un programma segreto di armi nucleari. Al tempo di Shah Reza Pahlevi, le stesse capitali –più Parigi-, avevano organizzato un vasto programma per sviluppare la bomba atomica dell’Iran. Nessuno pensava allora che un Iran nucleare rappresentasse una minaccia strategica, dal momento che questo paese non ha avuto un comportamento espansionista, nel corso degli ultimi secoli. Una campagna propagandistica, basata su informazioni volutamente false, ha allora obiettato che gli attuali dirigenti iraniani sono fanatici che potrebbero usare la bomba, se ne avessero una, in modo irrazionale, e quindi pericoloso per la pace mondiale.
Tuttavia, i funzionari iraniani affermano di non volere produrre, conservare o utilizzare la bomba atomica, proprio per motivi ideologici. E sono credibili su questo punto. Ricordiamoci la guerra dichiarata dall’Iraq di Saddam Hussein contro l’Iran di Ruhollah Khomeini. Quando Baghdad ha lanciato missili contro le città iraniane, Teheran non rispose allo stesso modo. I missili in questione erano proiettili non guidati che venivano sparati in una direzione e di una certa potenza, e che colpivano alla cieca. L’Imam Khomeini intervenne per denunciare l’uso di tali armi da parte del suo stato maggiore. Secondo lui i buoni musulmani non potevano prendere il rischio morale di uccidere in massa dei civili, mirando ai militari. Ha poi vietato il lancio di missili contro le città, cosa che squilibrò le forze, allungando la guerra, aggiungendo sofferenze al suo popolo. Oggi, il suo successore, il leader supremo della rivoluzione, Ali Khamenei, difende la stessa etica riguardo le armi nucleari, e non è chiaro quale fazione dello stato potrebbe annullare la sua autorità e produrre in segreto la bomba.
In realtà, l’Iran, dopo la fine della guerra che ha combattuto con l’Iraq, ha anticipato l’esaurimento delle riserve di idrocarburi. Ha voluto sviluppare un’industria nucleare civile per garantire il suo sviluppo a lungo termine, e quella di altri stati del Terzo Mondo. Per fare questo, le Guardie Rivoluzionarie hanno costituito un corpo di funzionari pubblici dedicati alla ricerca scientifica e tecnica, organizzato secondo linee sovietiche, in città segrete. Questi ricercatori stanno lavorando anche su altri programmi, tra cui armi convenzionali. L’Iran ha aperto tutti i suoi impianti di produzione nucleare agli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), ma si rifiuta di aprire i centri di ricerca sulle armi convenzionali. Ci si ritrova, quindi, in una situazione già vista: gli ispettori dell’AIEA hanno confermato che nessuna prova può incolpare l’Iran, mentre la CIA e Mossad hanno affermato, senza fornire prove, che l’Iran stia nascondendo attività illegali all’interno del suo vasto settore della ricerca scientifica. Questo assomiglia notevolmente alla campagna di lavaggio del cervello dell’amministrazione Bush, che accusava gli ispettori dell’ONU di non fare il loro lavoro correttamente, e d’ignorare i programmi di armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Nessun paese al mondo è stato così oggetto d’ispezioni dell’AIEA, ed è irresponsabile continuare ad accusare l’Iran, ma ciò non erode la malafede di Washington e Tel Aviv. L’invenzione di questa presunta minaccia è vitale per il complesso industriale militare, che attua da anni il programma di Israele per uno “scudo antimissile”, con i dollari dei contribuenti statunitensi. Senza la minaccia iraniana, niente budget!
Teheran ha effettuato due operazioni per uscire dalla trappola che le hanno teso. Per primo ha organizzato una conferenza internazionale per un mondo libero dalle armi nucleari, durante la quale -finalmente!- ha spiegato la sua posizione ai suoi principali partner (17 aprile). Inoltre, ha accettato la mediazione del Brasile, il cui Presidente Lula da Silva, punta a diventare segretario generale delle Nazioni Unite. Lula ha chiesto al suo omologo statunitense, quali misure dovrebbero servire per ripristinare la fiducia. Barack Obama ha risposto per iscritto, che il compromesso raggiunto nel novembre 2009 e mai ratificata, lo sarebbe stato. Il Presidente Lula giunse a Mosca per assicurarsi che il suo omologo russo era sulla stessa linea. Il presidente Dmitrij Medvedev ha pubblicamente confermato che dal suo punto di vista, il compromesso di novembre sarebbe stato sufficiente per risolvere la crisi. Il giorno successivo, 18 maggio, Lula ha firmato con il suo omologo iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, un documento corrispondente su tutti i punti, alle esigenze statunitensi e russe. Ma la Casa Bianca e il Cremlino, hanno improvvisamente fatto un voltafaccia, e tornati alle loro posizioni, hanno denunciato l’insufficienza di garanzie.
Eppure non vi è alcuna differenza significativa tra il testo ratificato nel maggio 2010, e il negoziato nel novembre 2009.
Il Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan (a sinistra) cerca di ripristinare l’indipendenza del suo paese dalla tutela degli Stati Uniti. Aprendo il suo paese al commercio russo, vuole riequilibrare le relazioni internazionali. Il suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu (a destra) cerca di risolvere i conflitti del passato, che ostacolano le manovre di Ankara.
© Servizio stampa del Cremlino
La responsabilità della Turchia
La Turchia ha ereditato molti problemi con le sue minoranze e i suoi vicini, che per decenni sono stati suscitati dagli Stati Uniti, per mantenerla in una situazione di dipendenza e di vassallaggio. Il Prof. Ahmet Davutoglu, teorico del neo-ottomanismo e nuovo ministro degli Esteri, ha sviluppato una politica estera che mira soprattutto a liberare la Turchia dai conflitti infiniti, in cui era impantanata, e quindi a moltiplicare le sue alleanze attraverso una quantità di istituzioni intergovernative.
La disputa con la Siria è stata la prima a essere risolta. Damasco ha smesso di giocato con i curdi, e ha rinunciato alle sue rivendicazioni irredentiste sulla provincia di Hatay. In cambio, Ankara ha ceduto sulla questione della spartizione delle acque fluviali, l’ha aiutata rompere l’isolamento diplomatico e ha persino tenuto colloqui indiretti con Tel Aviv, che occupa il Golan siriano. In ultima analisi, il Presidente Bashar al-Assad è stato ricevuto in Turchia (nel 2004) e il presidente Abdullah Gul in Siria (nel 2009). Un Consiglio di cooperazione strategica è stato stabilito tra i due paesi.
Riguardo l’Iraq, Ankara era contro l’invasione anglo-sassone (2003). Ha proibito agli Stati Uniti l’uso delle basi NATO sul suo territorio, per attaccare Baghdad, provocando l’ira di Washington e ritardando la guerra. Quando gli anglosassoni hanno formalmente passato il potere agli autoctoni, Ankara ha favorito il processo elettorale e incoraggiato la minoranza turkmena a parteciparvi. Poi, la Turchia ha alleggerito il controllo delle frontiere e facilitato gli scambi bilaterali. La solo ombra persistente nella tabella: se i rapporti con il governo nazionale a Baghdad sono ottimi, quelli con il governo regionale curdo a Erbil sono caotici. L’esercito turco ha anche avuto concesso il diritto di inseguire i separatisti del PKK in territorio iracheno, certamente, con l’approvazione e sotto il controllo del Pentagono. Tuttavia, un accordo è stato firmato per garantire l’esportazione di petrolio iracheno attraverso il porto turco di Ceyhan.
Ankara ha preso una serie di iniziative per porre fine al conflitto secolare con gli Armeni. Utilizzando la “diplomazia del calcio”, ha ammesso il massacro del 1915 (ma non la sua classificazione come “genocidio”), è riuscita a stabilire rapporti diplomatici con Jerevan e cerca una soluzione per il Nagorno-Karabakh. Tuttavia, l’Armenia ha sospeso la ratifica dell’accordo bipartito di Zurigo.
Il passivo è anche molto pesante con la Grecia e Cipro. La condivisione del Mar Egeo non è ancora chiaro e l’esercito turco occupa la parte settentrionale di Cipro. Anche in questo caso, Ankara ha proposto diverse misure per ripristinare la fiducia, anche la reciproca riapertura di porti e aeroporti. Tuttavia, i rapporti sono ancora lontani dalla normalizzazione, e attualmente, Ankara non sembra voler abbandonare l’auto-proclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord.
Il presidente Medvedev è venuto in Siria a negoziare il rinnovo e l’ampliamento degli impianti per la flotta russa. Entro tre anni, il porto di Tartous potrebbero ricevere cacciatorpediniere e sottomarini. Per servire quale strategia?
© Servizio stampa del Cremlino
L’isolamento diplomatico della Siria
Washington accusa la Siria di proseguire per procura la guerra contro Israele: con l’intelligence iraniana, Hezbollah in Libano e Hamas palestinese. Gli Stati Uniti hanno quindi finto di considerare il presidente Bashar al-Assad come sponsor dell’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri, e hanno stabilito un tribunale penale speciale, per processarlo.
Con abilità sorprendente, Assad, che si presenta come un “figlio-di-papà” incompetente, è riuscito tirarsene fuori senza mollare, e senza sparare un colpo. Le testimonianze dei suoi accusatori si sono sgonfiate e Saad Hariri, figlio del defunto, ha cessato di sostenere che lo si controlla, per venire a fare visite amichevoli a Damasco. Nessuno vuole finanziare il Tribunale speciale ed è possibile che l’ONU lo smantelli prima che abbia una seduta, a meno che non venga utilizzato per accusare Hezbollah.
Infine, a Hillary Clinton, che gli ha ingiunto di rompere con l’Iran e Hezbollah, Bashar al-Assad ha risposto organizzando un vertice improvvisato con Mahmoud Ahmadinejad e Hassan Nasrallah.
E la Russia?
L’affermazione del triangolo Turchia-Siria-Iran corrisponde al declino della potenza militare di Israele e degli Stati Uniti. La natura ha orrore del vuoto, lo spazio vuoto si apre alle altre potenze.
La Cina è diventata il principale partner commerciale dell’Iran, e si avvale delle competenze della Guardia Rivoluzionaria per rimuovere le trappole della CIA in Africa. Inoltre, fornisce un sostegno militare a Hezbollah discreto ed efficace (a cui probabilmente ha consegnato missili terra-mare, e dei sistema di guida resistenti ai disturbi) e Hamas (che ha aperto un ufficio di rappresentanza a Pechino). Tuttavia, si avventura con cautela e lentamente sulla scena mediorientale, e non intende svolgere un ruolo decisivo.
Tutte le aspettative si stanno rivolgendo a Mosca, assente dal crollo dell’Unione Sovietica. La Russia punta a diventare una potenza mondiale, ma è riluttante a impegnarsi fino a quando non ha risolto i suoi problemi nella area dell’ex Patto di Varsavia. Soprattutto, l’élite russa non ha una politica con cui sostituire il progetto statunitense di “rimodellamento” e si blocca sullo stesso problema degli Stati Uniti: essendo mutato l’equilibrio regionale di potere, non è più possibile attuare una politica equilibrata tra israeliani e arabi. Ogni investimento nella regione implica, più o meno a lungo termine, una rottura con il regime sionista.
L’orologio di Mosca si fermò nel 1991, alla conferenza di Madrid. Non ha assimilato che gli accordi di Oslo (1993) e Wadi Araba (1994) non sono riusciti ad attuare la “soluzione dei due stati”. E’ cosa ormai impossibile. L’unica opzione possibile pacifica è quella che è stata attuata in Sudafrica: l’abbandono dell’apartheid e il riconoscimento della nazionalità unica agli ebrei e ai nativi, istituendo una vera democrazia basata su “un uomo, un voto”. E’ già la posizione ufficiale della Siria e dell’Iran, e senza dubbio presto sarà quella della Turchia.
La grande conferenza diplomatica sul Medio Oriente, che il Cremlino ha voluto si tenesse a Mosca nel 2009, annunciato al vertice di Annapolis e confermata dalle risoluzioni dell’ONU, non ha mai avuto luogo. In questo gioco, la Russia ha passato la mano.
L’élite russa, che continua a godere di grande prestigio in Medio Oriente, non frequenta più questa zona e la sogna più di quanto non la capisca. Negli anni ’90, si era infatuata delle teorie romantiche dell’antropologo Lev Gumiljov, e sono stati in linea con la Turchia, l’unica altra nazione dalla natura europea e asitica. Poi, hanno ceduto al carisma del geopolitico Alexander Dugin, che aborriva il materialismo occidentale, pensava la Turchia contaminata dall’alleanza atlantica, e si estasiava davanti all’ascetismo della Rivoluzione iraniana.
Ma questi sentimenti sono stati spezzati in Cecenia, prima di trovare una concretizzazione. La Russia ha dovuto affrontare una brutale forma di estremismo religioso, sostenuta segretamente dagli Stati Uniti e alimentato dai servizi segreti turchi e dell’Arabia Saudita. Di colpo, ogni alleanza con uno stato islamico sembrava compromessa e pericolosa. E quando la pace tornò a Grozny, la Russia non ha potuto, o voluto, assumere la sua eredità coloniale. Come ha analizzato Geidar Dzhemal, il presidente della commissione islamica della Russia, non poteva pretendere di essere una nazione eurasiatica, facendo finta di niente e continuando a considerarsi uno stato ortodosso che si protegge dalle piccole turbolenze dei fratelli musulmani. Doveva – deve sempre- ridefinirsi, pensando all’uguaglianza tra ortodossi e musulmani.
Invece di ritardare fino a domani la soluzione del problema delle minoranze, e dopo l’impegno del dopo-domani per il Medio Oriente, la Russia potrebbe invece contare su partner esterni musulmani, come fiduciari, per annodare un dialogo interno. Così, la Siria di Bashar al-Assad presenta un modello di stato post-socialista in via di democratizzazione, che ha conservato le sue istituzioni secolari e fa celebrare le grandi religioni, e le diverse correnti di queste religioni, tra cui il più intransigente l’Islam wahhabita, mantenendo la pace sociale.
L’attrattiva economica
Per ora, l’élite russa ignora gli avvertimenti dell’ex capo di Stato Maggiore, Gen. Leonid Ivahov, sulla necessità di alleanze asiatiche e nel Vicino Oriente contro l’imperialismo statunitense. Preferiscono pensare come l’analista politico Gleb Pavlovsky, che gli antagonismi geopolitici si dissolveranno nella globalizzazione economica. Perciò si avvicinano al Medio Oriente soprattutto come un mercato.
Il presidente Dmitrij Medvedev ha appena iniziato un tour che l’ha condotto a Damasco e Ankara. Ha eliminato l’obbligo del visto, e aperto il mercato comune in formazione (Turchia, Siria, Iran, e Libano) alle imprese russe. Ha promosso la vendita di un impressionante arsenale all’uno e agli altri. Soprattutto, ha negoziato dei cantieri decennali per la costruzione di centrali nucleari. Infine, ha sfruttato l’evoluzione strategica della Turchia, affinché prenda in considerazione le esigenze di transito del petrolio russo. Un gasdotto terrestre russo collegherà il Mar Nero al Mediterraneo. E Ankara potrebbe essere tentata dal progetto del gasdotto South Stream.
I limiti dell’impegno della Russia
Al di fuori del campo economico, Mosca s’afferma a stento. Le basi navali sovietiche in Siria sono state restaurate e aperte alla flotta russa nel Mediterraneo, che ne fa solo un uso limitato, tanto più che la marina nel Mar Nero sarà ridotta. Tutto passa come se Mosca stia guadagnando tempo e ritardando il problema israeliano.
È che ogni condanna del colonialismo ebraico potrebbe rivitalizzare i problemi interni. In primo luogo, perché in un modo poco lusinghiero e caricaturale, l’apartheid israeliano rinvia al trattamento dei ceceni. In secondo luogo, perché la Russia sta agendo sotto il peso di una storia complessa, quella dell’antisemitismo. Vladimir Putin ha ripetutamente cercato di voltare pagina con gesti simbolici, come la nomina di un rabbino nell’esercito, ma la Russia non è ancora a suo agio con questo argomento.
Ma l’attendismo non è più consigliabile: il dado è tratto. Bisogna trarne le conseguenze. Israele ha giocato un ruolo determinante nella formazione e nell’armamento delle truppe georgiane che hanno attaccato e ucciso dei cittadini russi, in Ossezia del sud. In cambio, il ministro della Difesa georgiano Davit Kezerashvili, dalla doppia cittadinanza georgiana-israeliana, aveva affittato due basi aeree militari all’esercito israeliano. Così, i bombardieri israeliani avrebbero avvicinato l’Iran e avrebbe potuto colpirlo. Mosca ha incassato il colpo stoicamente, senza adottare ritorsioni contro Tel Aviv.
Il Presidente della Federazione Russa, Dmitrij Medvedev, discute del possibile accoglimento dei rifugiati israeliani ex sovietici, con il governatore dell’Oblast autonomo ebraico del Birodijan, Aleksandr Vinnikov (2 luglio 2010).
© Servizio stampa del Cremlino
Questa mancata reazione sorprende il Medio Oriente. Certo, Tel Aviv ha molti contatti nell’élite russa e non ha esitato a creare reti per persone influenti che ofrrono facilitazioni materiali in Israele. Ma Mosca dispone di ben più legami in Israele, con oltre un milione di emigrati ex-Sovietici. Si potrebbe mettere in lizza una persona in grado di giocare, nella Palestina occupata, il ruolo di Frederik de Klerk nel Sud Africa: liquidare l’apartheid e instaurare la democrazia in seno a un unico stato. In questa prospettiva, Dmitrij Medevedev prevede un esodo di israeliani che non vorrebbero accettare la nuova situazione. Il a donc bloqué la fusion annoncée du kraï de Khabarovsk et de l’ oblast autonome juif du Birobidjan. Ha bloccato la fusione annunciata del Krai di Khabarovsk con l’Oblast autonomo ebraico del Birobidzhan. Il Presidente, proveniente da una famiglia ebraica convertita all’Ortodossia, pianifica di riattivare tale unità amministrativa fondata da Stalin nel 1934, come alternativa alla creazione dello Stato d’Israele. Ciò che fu, all’interno dell’Unione Sovietica, una repubblica ebraica, potrebbe accogliere i rifugiati. Sarebbero tanto più i benvenuti, in quanto la demografia russa sta precipitando.
Camminando sulle orme dei suoi antenati, il presidente Medvedev ha visitato il Birobidzhan per riattivare le tradizioni dell’Oblast autonomo ebraico.
© Servizio stampa del Cremlino
E’ vero che i clienti iraniani hanno continuato a contestare le fatture per la costruzione della centrale di Busher. E’ anche vero che i persiani sono divenuti suscettibili a forza di subire l’interferenza anglosassone nella loro vita. Ma il Cremlino ha smesso di provocare docce scozzesi. Dmitrij Medvedev parla con gli occidentali e assicura il sostegno della Russia al voto per le sanzioni del Consiglio di sicurezza. Mentre Vladimir Putin garantisce agli iraniani che la Russia non li lascerà indifesi, se giocano il gioco della trasparenza. A livello locale, i funzionari si chiedono se i due leader si siano suddivisi i ruoli in relazione agli interlocutori, e che quindi stiano alzando la posta in gioco. Oppure, se la Russia sia paralizzata da un conflitto al vertice. In realtà, sembra che succeda questo: il tandem Medvedev-Putin s’è lentamente degradato e il rapporto tra i due è divenuta bruscamente una guerra fratricida.
La diplomazia russa ha suggerito ai paesi non allineati, che una quarta risoluzione del Consiglio di Sicurezza di condanna dell’Iran, sarebbe preferibile alle sanzioni unilaterali da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Questo è falso: Washington e Bruxelles senza dubbio appoggeranno la risoluzione delle Nazioni Unite, per giustificare ulteriori sanzioni unilaterali.
Il presidente Medvedev aveva detto, durante la sua conferenza stampa congiunta con il suo omologo brasiliano, il 14 maggio, che aveva adottato una posizione comune via telefono con il presidente Obama: nel caso in cui l’Iran avesse accettato la proposta che era stata fatta [nel novembre 2009] per arricchire il suo uranio all’estero, non ci sarebbe stato alcun motivo di prendere in considerazione le sanzioni del Consiglio di sicurezza. Tuttavia, quando contro ogni evidenza, l’Iran ha firmato il protocollo di Teheran con il Brasile e la Turchia, Washington ha fatto un voltafaccia e Mosca ha seguito l’esempio, a dispetto della parola data.
Il 14 maggio 2010, il presidente Medvedev dà pubblicamente il suo sostegno all’iniziativa del suo omologo brasiliano, Lula da Silva, per risolvere la crisi iraniana. Pochi giorni dopo, si unirà agli Stati Uniti e istruirà il suo ambasciatore all’Onu a votare per la risoluzione 1929, a dispetto della parola.
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Certo, il rappresentante permanente della Russia al Consiglio di Sicurezza, Vitalij Churkin, ha svuotato la risoluzione 1929 che respinge l’embargo totale dell’energia, ma che ha votato. Sebbene mancante di efficacia, è degradante sia per l’Iran, che per il Brasile, la Turchia e tutti i paesi non allineati che sostenevano il processo di Teheran. Questa risoluzione è stata particolarmente risentita, poiché contravviene ai termini del trattato di non proliferazione nucleare. Questo garantisce che ogni firmatario ha il diritto di arricchire l’uranio, mentre la risoluzione delle Nazioni Unite lo vieta all’Iran. Fino ad ora, la Russia era vista come il custode del diritto internazionale, ma non in questo caso. A torto o a ragione, i paesi non allineati, in generale, e l’Iran, in particolare, hanno interpretato il voto russo come la volontà di una grande potenza d’impedire alle potenze emergenti di raggiungere l’indipendenza energetica, necessaria per il loro sviluppo economico. Sarà difficile dimenticare questo passo falso.
Beirut (Libano) 28 luglio 2010
Traduzione di Alessandro Lattanzio
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