Risale al marzo 2013 la crisi cipriota, la cui deflagrazione, unitamente alle misure adottate dalla “troijka” allo scopo di mitigarne gli effetti, rappresentò di fatto un segnale premonitore circa cosa sarebbe accaduto in seno all’Eurozona, con particolare riferimento alla cosiddetta “unione bancaria”.
Come è noto, dopo una lunga fase di incertezza, la Banca Centrale cipriota, incalzata da Commissione Europea, Banca Centrale Europea (BCE) e Fondo Monetario Internazionale (FMI), ruppe gli indugi rivelando l’intenzione di convertire in titoli della Bank of Cyprus il 40% circa dei depositi non garantiti superiori ai 100.000 euro – per quelli inferiori ai 100.000 euro garantì l’Unione Europea –, e di inserire un ulteriore 22-23% degli stessi in un fondo speciale sgravato da interessi. In totale, il prelievo forzoso sui depositi più cospicui ammontò quindi al 60% circa. Le autorità europee, dal canto loro, spinsero inoltre Nicosia a mettere in vendita 10 delle circa 14 tonnellate di riserve auree (per un valore di 400 milioni di euro) detenute dallo Stato allo scopo di rastrellare i fondi necessari a sbloccare il piano di salvataggio concordato con la “troijka”, comprensivo anche di un cospicuo “taglio” (haircut) nei confronti dei creditori alla luce del continuo incremento del “costo stimato” del bail-out. Fin dall’inizio, le stime più accreditate hanno rivelato che il prezzo da pagare per Cipro sarebbe stato salatissimo, poiché il Paese sarebbe stato chiamato a sopportare una grave depressione economica in grado di contrarre il Prodotto Interno Lordo dell’8,7% nel 2013 e del 3,9% nel 2014. Un portavoce del governo di Nicosia rivelò peraltro che nel 2013 la perdita avrebbe determinato una compressione del 13% del PIL cipriota, compromettendo inevitabilmente i programmi escogitati dalla “troijka”, i cui rappresentanti avevano sostenuto che le restrizioni sui movimenti finanziari volte ad impedire fuoriuscite di capitale sarebbero state eliminate al più presto nonostante fosse chiaro che sarebbero rimaste in vigore finché i prelievi sui depositi dei correntisti non si fossero rivelati sufficienti a rimborsare il debito contratto con BCE e FMI.
Il “Financial Times” ha sostenuto che l’idea relativa prelievo forzoso fosse il risultato di fortissime pressioni esercitate dai tedeschi, i quali avrebbero imposto le proprie pretese ai commissari europei. Il ministro delle Finanze di Berlino Wolfgang Schäuble deterrebbe la paternità del “piano di salvataggio”, e sarebbe frutto dei suoi sforzi l’intesa raggiunta tra il FMI e la BCE in relazione all’affaire cipriota. La “tassa” sui depositi, imposta senza che fosse stata nemmeno ventilata l’ipotesi di adottarne una complementare sulle transazioni finanziarie, era evidentemente finalizzata a scaricare sui correntisti ciprioti e i contribuenti europei i costi di rifinanziamento del settore bancario dell’isola, senza ristrutturare, differentemente rispetto a quanto è stato fatto nei confronti della Grecia, il debito accumulato dal Paese.
La tesi relativa alla “strada tedesca” indicata dal “Financial Times” è sostenuta dalla proposta avanzata da Jörg Krämer, capo economista dalla banca tedesca Commerzbank (controllata dallo Stato in seguito alla nazionalizzazione), il quale ha suggerito di effettuare un prelievo del 15% sui conti correnti italiani allo scopo di garantire il valore dei titoli di debito emessi dallo Stato; un salasso che porterebbe il debito pubblico al di sotto del 100% del Prodotto Interno Lordo e consoliderebbe la prassi operativa inaugurata con l’esperimento cipriota. Secondo Krämer, dal momento che secondo le statistiche pubblicate dalla Bundesbank la ricchezza privata degli italiani ammonterebbe a 164.000 euro pro capite, a fronte dei 76.000 di media dei tedeschi, i cittadini italiani potrebbero agevolmente sopportare una simile imposta. Ciò che sia Commerzbank sia Bundesbank hanno omesso di chiarire è tuttavia il fatto che tali cifre comprendono sia il patrimonio finanziario che quello immobiliare, e che il 70% degli italiani possiede una casa, contro, grosso modo, il 40% dei tedeschi. Per quanto riguarda il reddito, si può invece constatare come i 19.655 euro di reddito medio annuo pro capite degli italiani spariscano a confronto degli oltre 30.000 guadagnati dai tedeschi. La soluzione implicita promossa dalla Commerzbank prevedrebbe quindi che gli italiani vendessero le proprie abitazioni per accumulare e depositare quella rilevante ricchezza privata su cui lo Stato sarebbe chiamato ad effettuare il prelievo.
Non appena cominciarono a circolare voci accreditate relative al “prelievo forzoso” dai conti correnti ciprioti, il presidente russo Valdimir Putin lanciò un serio ammonimento parlando di “tassa” «Ingiusta, poco professionale e pericolosa» (1), allo scopo di scongiurare la diffusione del panico e l’automatica corsa agli sportelli da parte di tutti i clienti di banche in crisi di solvibilità che sarebbe verosimilmente potuta essere innescata dalla decisione targata “troijka”. I destinatari di tale monito erano chiaramente i promotori tedeschi, i quali erano seriamente sospettati di star sotterraneamente gettando le basi per l’imposizione di una tassa patrimoniale europea a danno dei cittadini-correntisti appartenenti agli Stati debitori (il fatto che non fosse stata immediatamente introdotta una garanzia sui depositi a livello europeo conferiva notevole credibilità a questa ipotesi). Ma tassare pesantemente i depositanti, come sosteneva Putin, avrebbe pericolosamente spalancato le porte a una prospettiva micidiale, poiché si sarebbe corso, per l’appunto, il concreto rischio di insinuare il panico bancario ed innescare fughe di capitali dai Paesi in difficoltà (come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia) verso quelli più solidi, i quali avrebbero tutto l’interesse a richiamare i patrimoni stranieri abbandonando le nazioni più deboli a se stesse, come è puntualmente accaduto specialmente in seguito ai segnali d’allarme lanciati da JP Morgan Chase.
Il colosso di Wall Street diramò infatti un rapporto in cui si evidenzia che i depositi sprovvisti di coperture assicurative ammontano a quasi la metà dei depositi totali di tutta l’Unione Europea, e ciò fu sufficiente, nonostante le reiterate rassicurazioni fornite da Bruxelles e dai vari governi nazionali, per fare in modo che i depositi cominciassero a spostarsi dai Paesi periferici (Cipto, Italia, Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna) verso mete più sicure (Germania in primis), mettendo a repentaglio la solidità dell’intero sistema bancario. Riflettendo sul caso cipriota, Jim Reid di Deutsche Bank ha invece avuto l’ardire di sostenere che: «Forse la lezione che dobbiamo trarre da tutto questo è che se si è abbastanza fortunati da avere molto denaro, sarebbe meglio cominciare a spenderlo» (2).
Letta sotto quest’ottica sembrerebbe che l’intera vicenda fosse rivolta a spingere, attraverso una particolare forma di “terrorismo economico”, tutti i risparmiatori europei a smettere di risparmiare per far girare soldi, cosa che avrebbe ipoteticamente potuto contribuire ad uscire dalla “trappola della liquidità” responsabile dello stallo del sistema nonostante i fiumi di denaro iniettati nelle banche. Anche se finora non si è giunti a un prelievo indiscriminato da tutti i depositi come era presumibilmente nelle idee originarie della “troijka” e di alcuni alti esponenti di Berlino, lo stesso presidente dell’Eurogruppo Jerön Dijsselblöm non ci pensò due volte a dichiarare pubblicamente che il modello-Cipro, attuato con la partecipazione coatta di investitori e titolari di depositi nella ristrutturazione delle banche, costituisce un paradigma di riferimento per gestire i problemi che il settore bancario europeo si troverà ad affrontare in futuro – in primo luogo, quello relativo alle critiche condizioni in cui versa l’economia slovena. L’esperimento cipriota potrebbe quindi essere considerato alla stregua di una prova tecnica volta a testare la reazione delle forze popolari ed individuare il punto di rottura oltre il quale scatterebbe la rivolta sociale. Per sventare questo genere di prospettiva, i Paesi dell’Europa mediterranea guidati dalla Francia hanno esercitato forti pressioni fino ad ottenere il riconoscimento generale del principio di “unione bancaria”, volta a porre l’intero comparto creditizio europeo sotto un unico sistema normativo e a stabilire un preciso modello di riferimento per la gestione delle crisi bancarie. I passi compiuti verso questa direzione hanno suscitato l’entusiasmo di governi, parlamenti e dell’intero circuito informativo, nonostante il meccanismo di supervisione della BCE previsto dagli accordi preliminari relativi alla “unione” riguardi meno di 150 banche sulle 6.000 operanti all’interno dell’Eurozona (tra quelle che sfuggono al sistema di controllo figurano naturalmente le casse di risparmio regionali tedesche, che finanziano l’industria nazionale e in cui si intrecciano i riservati legami tra politica e imprese) e malgrado il “fondo di risoluzione delle crisi” cui tutti i Paesi saranno chiamati a contribuire – Germania in primis, vista e considerata la sua potenza economica – ammonti a 55 miseri miliardi di euro (che impallidiscono di fronte ai 241 miliardi concessi senza alcun risultato alla Grecia). In altre parole, la decantata “unione bancaria” non riguarda gli istituti di credito tedeschi e vincola la Germania a mettere a disposizione una quota finanziaria assai ridotta per il “fondo di risoluzione delle crisi”. Questo sembra essere l’esito dello scontro tra i “capitali forti” del centro e i “capitali deboli” situati nelle zone periferiche dell’Unione Europea. L’aggravarsi della crisi ha comportato un incremento dei fallimenti imprenditoriali, che a sua volta si è ripercosso sul settore bancario aumentando esponenzialmente in numero di “sofferenze”, le quali a loro volta hanno creato le condizioni favorevoli per l’innesco di un processo di ristrutturazione bancaria di tipo darwiniano, in cui le economie più forti saranno presumibilmente destinate a fagocitare quelle deboli originando una drastica concentrazione di potere e una sovversione dell’ordinamento democratico che rischia di privare i Paesi periferici del controllo sugli assetti proprietari del capitale bancario nazionale.
Di fatto, la Germania e gli Stati gravitanti attorno alla sua orbita hanno fatto valere la loro supremazia rivoltando il progetto di “unione bancaria” proposto dalla Francia e dai Paesi mediterranei, in modo che prevedesse la messa al bando di ogni possibilità relativa al ricorso al denaro pubblico per far fronte alle crisi bancarie, rinnegando implicitamente gli impegni assunti solennemente con il Meccanismo Europeo di Stabilità, che permetteva di destinare i fondi a beneficio di tutte le banche, a prescindere dal loro Paese di appartenenza.
Il che conferisce ulteriore credibilità alla tesi secondo cui toccherà ai depositanti delle banche in crisi il gravoso compito di sborsare denaro per risolvere la situazione, come sperimentato nei confronti di Cipro. Come ha evidenziato qualche osservatore (3), si tratta di un risultato impareggiabile, specialmente dopo che per anni è stato ripetuto allo sfinimento che l’euro, nonostante i suoi difetti, rappresentava una protezione formidabile del risparmio dalla svalutazione. Di fatto soltanto all’interno dell’ Eurozona si è deciso di violare il risparmio, minando la fiducia dei depositanti.
1) “Ansa”, 18 marzo 2013.
2) Cit. in Is this the diabolical “master plan” behind crushing Europe’s depositors, “Zero Hedge”, 26 marzo 2013.
3) Maurizio Blondet, Renzi sveglia: Merkel si tiene l’euro ma ha buttato la UE, “Rischio Calcolato”, 7 gennaio 2013.
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