Quando nel 1950, anno della pubblicazione dell’opera Il nomos della terra, Carl Schmitt si affrettava a dichiarare la fine dello jus publicum Europaeum, la Repubblica Popolare Cinese era appena sorta dalle ceneri della guerra civile e iniziava ad affacciarsi sulla scena mondiale quale paese finalmente indipendente dopo il cosiddetto “secolo delle umiliazioni”. Oggi quel paese, tramite il rafforzamento del colossale progetto denominato “Una cintura, una via”, punta ad inaugurare quella che si potrebbe definire in termini schmittiani una “rivoluzione spaziale”, rispolverando l’eredità degli antichi tracciati centro-asiatici e potenziando le vie di commercio transasiatiche al fine di rafforzare la propria ascesa a potenza globale e coinvolgere l’Europa, e in generale tutta l’Eurasia, in una nuova stagione di crescita economica mondiale.
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Apertura di nuovi spazi e fine dello jus publicum Europaeum
Secondo Carl Schmitt l’epoca del dominio dell’Occidente sulla scena internazionale, ovvero il sistema eurocentrico fondato su un rapporto egualitario tra stati e sulla tradizionale guerra inter-statale (lo jus publicum Europaeum appunto), capitola definitivamente con il fallimento del progetto hitleriano e la crisi del ruolo dell’Europa nel mondo, stretta tra i due giganti del potere mondiale durante la guerra fredda, l’Unione sovietica e gli Stati Uniti. Una tesi questa non isolata nel panorama filosofico tra le due guerre, quando i sostenitori della Kriegsphilosophie sostenevano lo sforzo bellico tedesco contro le potenze alleate e l’URSS come lotta della civilizzazione occidentale contro l’imbarbarimento, il nichilismo, la tecnica.[1]
Durante il secondo conflitto mondiale quella che su un fronte del conflitto, ad Est, appare come una guerra di sterminio condotta al di fuori dello jus publicum Europaeum e in violazione del rispetto dello justus hostis, sull’altro, ad Ovest, si svolge secondo le regole di un duello “cavalleresco” che rispetta i prigionieri e le popolazioni civili, senza degenerare in una “guerra totale”, il cui germe, già incubato nell’Europa lacerata dalle guerre di religione sin dal XVI secolo, viene imputato da Schmitt e dalla scuola revisionista alla tradizione rivoluzionaria, anziché alla conflagrazione interimperialistica e intercapitalistica scatenatasi con il primo conflitto mondiale[2].
Lo jus publicum Europaeum, in definitiva, se era sembrato tenere nella prima fase della Seconda guerra dei trent’anni (il conflitto che agita l’Europa tra il 1914 e il 1945), crolla nella seconda con la disfatta dell’Asse di fronte alle armate anglo-americane e sovietiche, che non applicano alla Germania le regole di un conflitto regolato tra potenze civili, benché Hitler avesse teso a rispettare tale principio sul fronte occidentale (fatta eccezione naturalmente per la sorte riservata agli ebrei e alle altre etnie o minoranze, nonché alla resistenza partigiana).
L’unità dell’Europa si sgretola, cessando di proiettare la propria influenza sul mondo. La contesa, condotta al di fuori di uno jus in bello, ne ha frantumato l’unità e solidità, infrangendo l’unità dell’antica respublica christiana. Quest’ultima, che ha rappresentato il cardine dell’ordine internazionale europeo medievale, non era stata scalfita neanche dal confronto tra imperatore e pontefice nel Medioevo, i quali tra loro reclamavano non già il monopolio di una somma auctoritas, che apparteneva di diritto all’imperatore o qualsiasi regno territorialmente autonomo, ma una diversa declinazione tra auctoritas e potestas spiritualis all’interno della comune appartenenza religiosa all’Occidente cristiano medievale, essendo essi parte di diversi ordines all’interno dello stesso ordinamento cristiano medievale. Le guerre condotte nell’ambito della respublica christiana erano paragonabili a faide che rappresentavano l’attivazione di un «diritto di resistenza», senza intaccare l’unità dell’ordinamento cristiano complessivo. Vere e proprie guerre di annientamento potevano essere condotte solo verso popoli non cristiani: la discriminante decisiva già nel diritto internazionale del Medioevo cristiano, secondo Schmitt, è nel diverso status riconosciuto ai popoli non cristiani, fossero essi pagani, musulmani o ebrei, che li privava della qualifica di justus hostis.[3]
La separazione tra nuovo e vecchio mondo maturata nel corso dell’età moderna aveva inaugurato anche una sospensione della limitazione della guerra al di là della linea dell’Europa: al termine della linea territoriale del Vecchio mondo, che passava poco oltre le Azzorre, cessava il diritto europeo e con esso le «valutazioni giuridiche, morali e politiche riconosciute al di qua di essa».[4] Il cesarismo e la guerra civile scatenati dalla Rivoluzione francese avrebbero successivamente posto fine all’unità europea, inaugurando un’epoca di conflitto civile culminato nella fase conclusiva della Seconda guerra dei trent’anni. La delimitazione spaziale di una zona di lotta extraeuropea per l’accaparramento del nuovo mondo era servita, in altri termini, a scongiurare proprio il rischio di una guerra europea generalizzata.
La conquista di un nuovo mondo sconosciuto nel XV secolo ha rappresentato, per Schmitt, il passaggio determinate nella storia del diritto internazionale, contribuendo a definire i confini di quella «rivoluzione spaziale planetaria del mondo» e di quel «primo stadio della nuova coscienza planetaria dello spazio» da cui comincia una «conquista di terra altrettanto sorprendente e senza precedenti» da parte dei popoli europei e la cui portata impallidisce di fronte ad altri mutamenti spaziali di rilevanza globale come la conquista di Alessandro Magno della Persia, la creazione e l’allargamento dell’impero romano nel I secolo e infine la rinascita economica medievale del XII secolo.[5] La fase di conquista dei territori americani raggiunge il proprio apice nella costruzione di un nuovo mondo che si costituisce progressivamente come «entità autonoma» rispetto al diritto internazionale eurocentrico.[6] Grazie a tale passaggio, ovvero all’apertura di nuovi spazi spalancati alla libera conquista, l’Occidente europeo ha potuto realizzare il proprio irraggiamento coloniale nel mondo nel corso dei secoli XVI-XVIII, ponendo le permesse per una vera e propria spartizione colonialistica del mondo extraeuropeo nel secolo XIX. Da questo evento epocale poté iniziare inoltre a erigersi una separazione netta e una gerarchia antropologica tra colonizzatori e colonizzati.
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Antiche e nuove rotte eurasiatiche
Se per Schmitt l’epoca aurea del dominio dell’Occidente conosce il suo preludio negli anni dell’apertura delle rotte atlantiche e con la proiezione sui mari di una potenza (l’Inghilterra) un tempo terranea, l’inizio di una nuova era cinese può dirsi aperta oggi, da parte di una potenza da sempre terranea (la Cina), con la rivitalizzazione degli antichi tracciati delle vie della seta che interconnettono le due estremità dell’Eurasia. Il progetto di Pechino comporta la realizzazione di una imponente rete infrastrutturale che va sotto il nome di “One Belt, One Road” (OBOR nell’acronimo inglese), altrimenti detta “Belt and Road Iniziative” (BRI). Complementare al progetto delle nuove vie della seta è la Banca asiatica di investimento per le infrastrutture (AIIB), che ha il compito di promuovere lo sviluppo delle opere infrastrutturali in Asia e quindi anche di favorire la realizzazione del progetto BRI[7].
Nel corso della storia la via della seta ha costituito un asse privilegiato dei rapporti culturali, commerciali e politici tra Europa e Asia. Prima dell’avvio della predominanza europea cinque secoli fa il cuore dell’Eurasia era appunto la Cina, che deteneva il dominio dell’economia mondiale e lo esercitava per mezzo della via della seta, a partire dalla dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.). Questa rete di collegamenti irregolari tra le due sponde del continente, faceva dell’Eurasia un’area dal punto di vista della vitalità economica e culturale unitaria. Ma già prima, sin dall’epoca ellenistica, la storia di Europa e Asia è stata fortemente intrecciata come dimostrano Cardini e Vanoli in un libro di recente pubblicazione[8].
La via della seta, tra il 130 a.C. e il 300 d.C. si articolava lungo due direttrici, una marittima, l’altra terrestre, interconnettendo l’impero cinese con l’India, l’impero Kushana, il regno dei Parti e l’impero romano. La prima direttrice, quella marittima, partiva dal porto di Canton, passava per l’istmo di Kra e poi, dopo gli scali di Poduca e Mizeris in India, giungeva a Barbaricon, nell’attuale Pakistan, per poi sboccare nel Mar Rosso fino a Berenice e Alessandria. Una seconda diramazione da Barbaricon, passando per il Golfo Persico, giungeva alla foce del Tigri e dell’Eufrate, per poi risalire lungo il loro corso verso Ctesifonte, capitale dell’impero persiano, e Seleucia. Di qui, così come ad Alessandria e Berenice, o a Tiro e Petra, le merci asiatiche e cinesi venivano smerciate in tutto il mondo conosciuto. Il ramo terrestre della via della seta partiva dalla Cina, in particolare da Chang’an e Luoyang, e attraversata la porta di Giada (che univa la Cina all’Asia centrale), dopo aver transitato nel deserto del Taklamakan, giungeva lungo alcuni corridoi nel Turkestan, fino a Bukhara e di qui si congiungeva a Seleucia e Ctesifonte.
Lungo i tracciati delle vie della seta si produsse un vero e proprio sincretismo culturale, come appare evidente nell’arte del Gandhara, a cavallo di Pakistan e Afghanistan attuali, tra il I a.C. e il IV-V secolo d.C. Lo stile dell’arte buddista del Gandhara si distingue per un repertorio che unisce influssi greci e romani a quelli tipici della cultura delle steppe: le rappresentazioni del Buddha presentano vesti greco-ellenistiche e atteggiamenti caratteristici dell’arte mediterranea, accanto a elementi tipici dell’iconografia indiana buddista (i lobi delle orecchie allungati, oppure i gesti delle mani) o che ricordano, per mezzo del riferimento al cavallo, il sostrato nomadico della cultura del Gandhara.[9]
Con la conquista islamica delle regioni orientali dell’impero bizantino e la contestuale caduta dell’impero persiano sasanide, il tratto occidentale della via della seta entrò a far parte dei circuiti commerciali musulmani che inglobarono, oltre alle regioni che erano state parte dell’impero bizantino (Egitto, Siria, Nordafrica), la macro-regione mesopotamico-iranica. Quest’ultima saldò direttamente l’Europa con le direttrici commerciali centroasiatiche. Se ai tempi dei bizantini le conoscenze geografiche erano ferme all’area persiana, con la conquista musulmana tutta l’area mediorientale viene coinvolta all’interno di una rete commerciale unitaria che giunge fino alle estreme propaggini orientali, nel Sind, ai confini con l’India e oltre. L’oceano indiano divenne un vasto bacino commerciale, il più grande al mondo almeno fino all’arrivo dei portoghesi, dominato dai mercanti musulmani, persiani ed ebrei e aperto ai commerci e ai contatti tra India, Cina, penisola arabica, Africa ed Europa.
Mentre negli stessi secoli dell’espansione islamica è in atto il “rinascimento carolingio”, che tuttavia ignora pressoché la sapienza greca, in Oriente il califfato abbaside (e poi anche quello fatimita) si fa erede della tradizione greca. Lungo tutto l’arco dell’impero una ricca e articolata cultura filosofica (dal Maghreb al Kazakistan), grazie ai contatti costanti con il mondo indiano e cinese, riscopre il valore dei classici greci, reinterpretandone il significato e spesso integrandone l’eredità in una nuova sintesi greco-araba che sarà fondamentale per la storia culturale del mondo.[10] Come sostengono Cardini e Vanoli, senza la via della seta il Canone di medicina di Avicenna semplicemente non esisterebbe[11].
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La via cinese a una globalizzazione del XXI secolo
Il progetto cinese di una nuova via della seta è stato paragonato al Piano Marshall promosso dagli Stati Uniti alla fine della Seconda guerra dei trent’anni, per usare un’espressione cara ad Arno Mayer. Il piano di ricostruzione americano, oltre a non essere paragonabile in termini finanziari a quello cinese, segnò l’integrazione subalterna nel mercato mondiale capitalistico dell’Europa e dei paesi che vi aderivano. Le differenze tra i due progetti sono evidenti, sia sul piano ideologico, sia su quello delle relazioni internazionali. Innanzitutto, se il piano Marshall avviava, di fatto, l’inizio della guerra fredda, il progetto cinese “Una cintura, una via” serve, al contrario, a sventare il pericolo che una nuova guerra fredda, innescata magari da una guerra commerciale, esploda tra Cina e suoi alleati da un lato e Stati Uniti e Europa dall’altro.
In secondo luogo, la Cina non si propone di attuare alcuna influenza ideologica sui paesi che sono chiamati a far parte del suo progetto, né di attuare alcun tipo di egemonia. L’intento principe è, semmai, sulla scorta degli orientamenti formulati alla Conferenza di Bandung (1955), di promuovere uno sviluppo comune di Asia, Europa e Africa, proponendo una alternativa al mercato occidentale. [12] Il progetto BRI ha la funzione di incoraggiare una forma di globalizzazione eurasiatica che integri maggiormente i paesi e le aree economiche del continente al fine di rafforzarne i rapporti pacifici e la collaborazione, oltre a favorire lo sviluppo economico condiviso, ponendo al centro di questi la Cina come perno di un blocco commerciale indipendente e fondato sullo yuan[13].
Se l’intento degli USA è stato, ed è tutt’ora, quello di impedire un’ascesa definitiva della Cina al rango di potenza mondiale, contrapponendo ad essa alleanze economiche tese a escludere il paese asiatico o brandendo contro di essa l’apparato militare più potente al mondo (attraverso la strategia del “Pivot”), la strategia della Cina è di apertura all’Europa e ai paesi coinvolti nel progetto BRI. La creazione del GATT nel 1947, che si proponeva di superare il rigido bilateralismo allora in atto e promuovere il multilateralismo, aveva proprio l’intento di contrapporre ai paesi socialisti un blocco economico guidato dall’Occidente e dagli Stati Uniti. Il GATT è, come noto, antesignano del WTO, nato nel 1995 e al quale la Cina è stata ammessa solo nel 2001, dopo 15 anni di negoziati. Fino a tale data gli Stati Uniti potevano essere in grado di attuare un ricatto economico formidabile ai danni della Cina, minacciando il blocco delle sue importazioni.[14]
Il ricorso ad organizzazioni commerciali di tipo chiuso appartiene alla tradizione statunitense, così come la tendenza periodica all’isolazionismo e al protezionismo. Quest’ultimo in particolare precede di almeno un paio di secoli l’elezione di Trump alla Casa Bianca. Nel corso del ripiegamento autarchico degli anni Venti lo Smoot-Hawley Act del 1930 contribuiva a inaugurare la fase protezionista degli USA, esacerbando le tensioni commerciali mondiali e la grande depressione. Solo nel secondo dopoguerra gli USA sarebbero passati a una politica liberoscambista ispirata alla “reciprocità”, di cui alfiere fu anche il partito repubblicano.[15] Reagan fu un sostenitore convinto del libero scambio, mentre Bush padre portò avanti il NAFTA (l’accordo di libero scambio tra Messico, Canada e Stati Uniti), che sarebbe stato approvato dall’amministrazione Clinton. Con l’epoca di Bush figlio la sfiducia verso il liberoscambismo comincia ad accrescersi per poi venire sposata anche da Obama. La tradizione protezionistica è di fatto proseguita nei giorni nostri con i progetti di TTIP e TPP che sono (o meglio erano) chiaramente diretti all’esclusione e al boicottaggio della Cina. Tali aree di libero scambio vengono messe in discussione dall’amministrazione Trump in favore di un diverso approccio aggressivo fondato su un rinnovato bilateralismo e su un rigido protezionismo economico che minaccia l’appartenenza stessa degli USA al WTO.
La ventilata applicazione da parte americana di barriere doganali sulle merci cinesi, che pare in via di effettiva attuazione, giustificata dall’intento di riequilibrare il passivo nella bilancia dei pagamenti, alla lunga non può che sfociare in una guerra commerciale tra Cina e USA con conseguenze imprevedibili sugli assetti globali. Un tale approccio, innanzitutto pericoloso perché minaccia gli equilibri commerciali e politici mondiali, è inoltre privo di giustificazione verso la Cina, dal momento che quest’ultima ha attuato negli ultimi anni una riforma economica profonda, passando dalla focalizzazione sulle esportazioni (10% del Pil nel 2008) al ruolo di compratore di ultima istanza (il surplus cinese nel 2017 è pari all’1,3 % del Pil), stimolando inoltre fortemente la domanda domestica tramite la rivalutazione dei salari (ormai al livello europeo o superiore)[16]. Per di più il già ridimensionato surplus cinese viene di gran lunga riequilibrato dai flussi di capitali cinesi verso gli USA.[17]
Ad una via cinese alla globalizzazione, fondata sul multilateralismo, anziché su bilateralismo e protezionismo, che apre l’Europa e l’Eurasia al mercato cinese tramite le direttrici transasiatiche delle vie della seta, gli USA sono tentati di contrapporre una politica di chiusura commerciale e la minaccia dell’inasprimento di misure economiche protezionistiche dalle cui conseguenze tutto il mondo (non solo l’Europa e la Cina) deve guardarsi con circospezione e attuando le dovute contromisure. Queste ultime non possono che passare per una revisione dei rapporti con Washington e, nel contempo, da una maggiore apertura alla Cina, al “Beijing consensus” e al suo progetto di rilancio della globalizzazione tramite la cooperazione multilaterale.
NOTE
[1] Sul tema si veda Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente: Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
[2] Domenico Losurdo, Tramonto e trasfigurazione dell’Occidente. Heidegger e la filosofia tedesca tra le due guerre, in “Tramonto dell’Occidente?”, Atti del Convegno (Cattolica, 19-21 maggio 1988), Quattroventi, Urbino 1989, p. 143.
[3] Carl Schmitt, Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum Europaeum”, Adelphi edizioni, Milano 1991, p .51.
[4] C. Schmitt, Il nomos della Terra, cit., pp. 92-93.
[5] Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002, pp. 66, 74. C. Schmitt, Il nomos della Terra, cit., p. 82.
[6] C. Schmitt, Il nomos della Terra, cit., p. 102.
[7] A questo fondo si aggiungono anche la Nuova Banca di Sviluppo dei Brics e il Fondo di Investimenti della Via della Seta.
[8] Franco Cardini, Alessandro Vanoli, La via della seta. Una storia millenaria tra Oriente e Occidente, il Mulino, Bologna 2017.
[9] F. Cardini, A. Vanoli, La via della seta, cit., pp. 93-95.
[10] Loris Sturlese, Filosofia nel Medioevo, Carocci, Roma 2014, p. 29.
[11] F. Cardini, A. Vanoli, La via della seta, cit., p. 138.
[12] Giorgio Grappi, Il confucianesimo logistico che cambia il mondo, in Limes, “Cina-Usa. La sfida”, n. 1/2017, p. 164.
[13] Francesco Maringiò, Cinque punti sul dibattito politico cinese, in “Marx in Cina. Appunti sulla Repubblica popolare cinese oggi”, n. 2-3, 2015, p. 99.
[14] Domenico Losurdo, La nuova via della seta e il dialogo tra le civiltà, testo presentato al Forum «Cina e UE. I nodi politici ed economici nell’orizzonte della “nuova via della seta” e di una “nuova mondializzazione”», Roma 13 ottobre 2017, p. 3.
[15] http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2018-03-13/i-demagoghi-nazione-183016.shtml?uuid=AEhExbBE
[16] http://www.marx21.it/index.php/internazionale/cina/28780-il-nuovo-paradigma-cinese
[17] L’imposizione di misure commerciali protettive non è solo limitata agli Stati Uniti, che già vi avevano fatto ricorso sotto la presidenza Obama, ma è ormai allargata alle maggiori economie del mondo.
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