Se usato correttamente, il vocabolo “antisemitismo” dovrebbe indicare l’ostilità nei confronti dell’intera famiglia semitica, la quale ha oggi la sua componente più numerosa nelle popolazioni di lingua araba, cosicché la qualifica di “antisemita” dovrebbe logicamente designare chi nutre ostilità nei confronti degli Arabi, più che non coloro i quali provano avversione nei confronti degli ebrei, comunità internazionale formatasi da gruppi etnici diversi e parlante lingue diverse. Invece, come ben sappiamo, tali termini vengono usati in totale dispregio del loro significato etimologico, sicché la propaganda filosionista può tranquillamente e sfacciatamente tacciare di “antisemitismo”… i Semiti stessi, diffondendo l’assurdo concetto dell’ “antisemitismo arabo”.

A tale concetto pare particolarmente affezionato Alberto Rosselli, saggista e collaboratore di vari organi di stampa (tra cui il “Jerusalem Post” e “Maariv”), che nel suo recente Islam Nazismo Fascismo indica nella “condivisione dei programmi fortemente antisemiti” (p. 13) una base d’intesa politica tra “le dittature tedesca e italiana e (…) il ‘movimento indipendentista arabo'” (pp. 13-14). “Antisemita” (p. 17) è per Rosselli anche il fondatore dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani, Hassan el-Banna, che viene peraltro curiosamente definito “sedicente mistico sufi, ma anche filo-massone” (p. 47).

Ma l'”antisemita” principe, anzi, la vera e propria “bestia nera” della ricostruzione storica in esame, è il Gran Muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husayni. Il ritratto del Muftì che troviamo tracciato in queste pagine si basa in gran parte sulla pubblicistica ebraica (viene utilizzata in particolare una memoria del “Simon Wiesenthal Center” di Los Angeles riportata dal “Jerusalem Post”), ma è arricchito dalle preziose considerazioni di Rosselli. A suo giudizio, al-Husayni “si considerò sempre un ‘purista’ (sic)” (p. 81), ma fu in realtà un individuo “amorale” (p. 81), animato ciononostante da una “presunzione di superiorità morale di matrice tipicamente razzista” (p. 79); stando a Rosselli, egli agì, “forse, in nome di un comodo storicismo di memoria hegeliana secondo il quale non esisterebbero verità oggettive, ma dottrine (e modi di agire) veri (e giusti, quindi leciti) in ‘relazione alle fasi che le hanno prodotte in seno al processo di autodeterminazione della Storia” (p. 81).

L’immagine inedita di un Gran Muftì hegeliano è accompagnata da una sorta di fatwa dell’Autore stesso, che per l’occasione si autopromuove al rango di giudice dei giurisperiti: “Husayni – scrive testualmente Rosselli – non fu però un buon musulmano. In quanto privo di pietà, si macchiò, infatti, di ridda, e respinse, anzi ignorò, questo valore coranico per abbracciare una violenza spesso eccessiva e inutile” (p. 80). Siccome il lettore probabilmente stenterà a capire in che modo il Muftì possa essersi macchiato di un “valore coranico”, ci corre l’obbligo di avvertirlo che il malinteso sorge dal carattere tutto particolare della sintassi di Rosselli, il quale in compenso sembra avere maggior familiarità col lessico arabo e ritiene superfluo spiegare che ridda significa “apostasia”.

D’altronde, che Haj Amin al-Husayni meriti il titolo di “Apostata”, secondo Rosselli è dimostrato dal fatto che “non disdegnò di stipulare una stretta alleanza con una dittatura occidentale atea come quella nazista” (p. 29). Ne consegue che apostati come lui dovettero essere tutti quei militanti nazionalisti e anticolonialisti del mondo arabo e di altre regioni dell’area islamica che parteciparono ai “raduni runici di Norimberga” (pp. 16-17), nonché le masse dalle quali “Hitler incominciò (…) a essere acclamato come Abu Ali” (p. 16), nome che secondo Rosselli significherebbe… “il redentore” (ibidem).

Animato dal “desiderio di porre (…) fine all’esistenza del popolo di David” (p. 18), Amin l’Apostata “chiese esplicitamente a Hitler di aiutare il suo movimento ad acquisire tutte le metodologie tecnico-scientifiche utili per ‘eliminare’ definitivamente dalla Palestina gli elementi ebraici” (p. 75); anzi, per apprendere personalmente le tecniche di gassazione, accompagnò Eichmann “nella visita ad alcuni campi di sterminio, tra cui Auschwitz” (p. 92). Su ciò Rosselli non nutre il minimo dubbio, poiché sono autorevoli personalità sioniste (Marvin Hier, Zvi Alpeleg ecc.) ad affermare che “i leader arabi palestinesi volevano fare agli ebrei in Medio Oriente ciò che Hitler stava facendo agli israeliti in Europa” (p. 76).

Ma non è tutto. La nefasta influenza del Gran Muftì di Gerusalemme ha continuato a farsi sentire anche dopo la sua morte, poiché, secondo una geniale osservazione di Rosselli, egli fu “il precursore di personaggi come l’ayatollah iraniano Ruhollah Hendi Khomeini (1900-1989), il non vedente sceicco egiziano Omar Abdel Rahman e l’ormai noto leader saudita Osama bin Laden” (p. 79). Al pari di Bin Laden, infatti, Haj Amin al-Husayni “fu nella sostanza un autorevole rivoltoso e un sanguinario sobillatore di spiriti” (p. 80).

Come scrive il prefatore del libro, “quel che più si fa apprezzare in questo agile lavoro è proprio la mancanza sostanziale di parzialità e di accanimento ideologico” (p. 10). Tale qualità, sufficientemente testimoniata dal campionario che abbiamo riportato più sopra, indurrà il lettore a perdonare al Rosselli alcune veniali imprecisioni che infiorano la sua narrazione: ad esempio, l’aver inserito i Tagiki tra i popoli d’origine turca (p. 38) e il Tagikistan tra le ex repubbliche sovietiche “a maggioranza etnico-religiosa turanico-musulmana” (p. 21) o l’avere scambiato per Ceceni i Tatari del Waffengruppe der SS Krim.


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