Impossibilitato a realizzare un accordo tra le parti del conflitto russo-ucraino, ottenuta la visibilità e un successo propagandato solo dai media relativamente all’assedio e all’occupazione israeliana della striscia di Gaza, il presidente statunitense Donald Trump ha messo nel mirino, da diverse settimane, uno dei nemici più vicini alle coste degli USA: il Venezuela di Nicolas Maduro.

 

Benché privo di una precisa strategia, il presidente statunitense ha posto il proprio focus sul Venezuela, come fece già nel corso del primo mandato alla Casa Bianca. Questa volta, però, l’obiettivo è più ardito e conosce fasi alterne tra i mutamenti intercorsi alla guida della nazione bolivariana e le difficoltà di un attacco deliberato ad una nazione sovrana in cui l’alleanza civico-militare[1], senza precedenti nel continente indiolatino, costituisce il vero deterrente all’ennesimo piano di sovversione sostenuto dagli USA.

 

Quali sono i veri obiettivi di Trump?

Perché proprio il Venezuela o, se si vuole, perché nuovamente il Venezuela? È questa la domanda che sorge spontanea ad un primo inquadramento. Passando in rassegna le motivazioni, se ne trovano molte che possono fornire una risposta molto ben articolata.

La prima, di carattere economico, è collegata alla vastità delle riserve di greggio di cui è in possesso la nazione sudamericana. Un petrolio, quello venezuelano, sporco e bisognoso di raffinazione per l’immissione sul mercato internazionale, ma terribilmente vicino alle coste statunitensi e lontano dagli alleati dei BRICS e dal resto delle potenze regionali del Sud del mondo. Se si fa eccezione per il confinante Brasile, con cui i rapporti si sono normalizzati dopo il ritorno del progressista Lula da Silva alla presidenza della potenza verde-oro, anche se non sono destinati a sposarsi in pieno, le coste del Venezuela si affacciano dal lato “sbagliato” del continente: quello atlantico. Russia e Cina, che pure garantiscono un’alleanza per nulla banale, operano come possono in quanto agli acquisti, mentre gli accordi bilaterali collegano l’industria estrattiva venezuelana con i servizi, i finanziamenti e il know-how di cui essa ha bisogno. Resta insormontabile il problema della geografia, dato che per chi arriva dal Pacifico i porti venezuelani si trovano tutti sull’oceano al di là del canale di Panama.

Detto questo per quanto concerne la risorsa principale di cui è ricco il Venezuela e per la quale gli USA hanno scatenato guerre fino all’altro capo del mondo, non bisogna dimenticarsi del frangente storico. Le ultime tornate elettorali, all’alba di un biennio intensissimo per i cittadini del centro e del sud del continente americano, stanno andando tutte nella stessa direzione, premiando le destre liberiste che si riconoscono nel progetto occidentalista rappresentato da Trump. In Argentina, dalle elezioni di medio termine è arrivata un’inaspettata vittoria del partito del presidente Milei, che con i nuovi numeri di cui dispone nei due rami del Parlamento potrà dare il via con maggior facilità agli intenti dichiarati nella campagna presidenziale due anni fa. In Bolivia il socialismo, storicamente alleato di quello bolivariano, si è sciolto come neve al sole consegnando il Paese alla destra dopo vent’anni; e anche il Cile, dopo il fallimento della presidenza di sinistra, potrebbe virare a destra. Di pari passo il populismo latinoamericano fatica a ritrovare la maggioranza in altri Stati in cui è stato lungamente al governo (come nel caso dell’Ecuador), motivo per cui Nicolas Maduro può contare, ad oggi, più sulla neutralità e sulla mancata ingerenza dei confinanti Brasile e Colombia che non sulle alleanze che si profilavano in un tempo neanche troppo lontano.

Se il momento storico-politico sorride alle destre protestanti, che vedono in Israele un baluardo della lotta per la difesa dei “valori occidentali” e accusano il populismo di politiche comuniste fuori tempo massimo, non è da meno l’impatto che questa lotta assume sul fronte interno negli stessi Stati Uniti. Donald Trump e il partito repubblicano hanno fatto del voto ispanico un serbatoio dal quale attingere a piene mani, facendo appello alla comune matrice religiosa cristiana e valoriale in contrapposizione al progressismo in salsa woke, artefice, tra l’altro, della gender theory e delle politiche permissive sull’aborto fino al nono mese di gravidanza.

Alcuni Stati un tempo considerati in bilico sono diventati, per effetto delle strategie intraprese da Trump, roccaforti dell’elefantino conservatore; è il caso della Florida, da decenni luogo di sbarco e approdo di latinos abbienti che lasciano volontariamente il paese d’origine per sfuggire alle politiche redistributive messe in atto dai governi socialisti (dalla Cuba castrista al Venezuela chavista e non solo).

Non è un caso che, Marco Rubio, ispanico nativo di Miami, dopo essere stato un fiero oppositore della scalata del tycoon al Grand Old Party nel corso delle primarie del 2016, che li vide candidati l’uno contro l’altro, oggi abbia ottenuto la carica di segretario di Stato.

In mezzo a tanti uomini non si può dimenticare il ruolo di vero e proprio cavallo di Troia assegnato alla nuova guida dell’opposizione antichavista Maria Corina Machado, di cui si è ampiamente ed esaustivamente occupato, in questo stesso sito, Daniele Perra[2].

In definitiva il profilo di Nicolas Maduro[3], contro il quale è in atto anche una manovra tesa ad attribuirgli un ruolo nell’espansione del narcotraffico (piuttosto che alla tutela garantita a membri di organizzazioni rientranti nella “lista nera” di associazioni considerate terroristiche da Washington, come Hamas e Hezbollah), è oggi quello del principale ostacolo che impedisce il ripristino della Dottrina Monroe, cosicché la sua caduta segnerebbe il match point sognato dalla Casa Bianca dopo i ripetuti falliti tentativi contro Fidel Castro a Cuba.


NOTE

[1] A tal riguardo si veda: Daniele Perra, Scontro aperto Usa-Venezuela, “Eurasia”, 25 agosto 2025 e Norberto Ceresole, Caudillo, esercito, popolo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2025.

[2] Daniele Perra, Il Nobel per la pace è una dichiarazione di guerra, Eurasia, 12 ottobre 2025.

[3] Fabrizio Maronta, Maduro, il nemico utile, Limes, 21 ottobre 2025.


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Luca Lezzi nasce a Salerno il 22 febbraio 1989, laureato in Scienze politiche si è specializzato in Storia contemporanea e geopolitica dell’America Latina. Collabora con diverse testate, fra le quali ElectoMagazine e Diorama letterario oltre ad aver fondato, nell’autunno 2019, la rivista di approfondimento politico-culturale Il Guastatore, di cui è editore e coordinatore di redazione. Coautore del libro “Il socialismo del XXI secolo. Le rivoluzioni populiste in Sudamerica” (Circolo Proudhon edizioni, 2016), è autore del saggio biografico “Juan Domingo Perón” (Fergen, 2021). Cura per le case editrici milanesi Oaks e Iduna una collana sulle guide dell’antimperialismo. Studioso del sindacalismo e delle tematiche ad esso affini è autore del saggio storico "Filippo Corridoni. La vita e le idee dell'Arcangelo Sindacalista" (Passaggio al Bosco, 2021) e caporedattore della testata “Partecipazione”, organo dell’istituto Stato e Partecipazione.