Pubblichiamo la seguente intervista realizzata a margine della conferenza “Palestina: geopolitica di un conflitto”, svoltasi a Torino il 29 maggio scorso e co-organizzata da “Eurasia” e dal Centro Italo-Arabo “Dar al-Hikma”. Enrico Galoppini è redattore della rivista “Eurasia”.


Palestina: geopolitica di un conflitto”. In che modo una questione che a molti sembra circoscritta a un’area ben precisa, in realtà riguarda tutti noi?

La “questione palestinese”, a ben vedere, non è circoscritta ai soli palestinesi come fa intendere tale definizione ormai data per scontata. Se si considera la posizione geografica della Palestina, al crocevia di Eurasia e Africa, si comprende come una perenne destabilizzazione di quella precisa zona del mondo sia stata incoraggiata dalle “potenze marittime”, Gran Bretagna e Stati Uniti, che considerano catastrofico per i loro interessi un’integrazione – politica, economica, culturale e, perché no, militare – della massa di terre emerse che gli Stati Uniti stessi chiamano “Vecchio mondo” (come dire che essi sono il “progresso”).

Alla luce di questo, si spiegano i vari strumenti che queste potenze gestite da élite estranee ed ostili alla “unità spirituale dell’Eurasia” (G. Tucci) hanno sin qui utilizzato, non ultimo la Nato, che non serve affatto a “difenderci” (da cosa?), ma a coinvolgerci in conflitti fratricidi (vedasi quello che si è cercato di far scoppiare con la “crisi georgiana”) contrari ai nostri interessi.

È sempre in questo quadro che si spiega il fenomeno dell’islamofobia, teso a creare una giustificazione di tipo “culturale” ad azioni militari e non (si pensi alle “rivoluzioni colorate”) mirate in quella parte di mondo abitata da popolazioni (arabe e) musulmane.

La “questione palestinese” è, pertanto, l’aspetto più evidente di una “questione mondo”, che vede da almeno un paio di secoli il tentativo delle “potenze marittime” (si consideri anche l’occupazione del “Mare Nostrum” con un loro dispositivo di basi, da Gibilterra a Cipro, passando per la Sicilia) di controllare il mondo per imporre il loro modello e i loro valori (mercantili).

In tutto ciò, la Palestina è finita vittima, in virtù della posizione che occupa, di un’operazione funzionale alla destabilizzazione del “Vecchio mondo”, ovvero la creazione di una base politico-territoriale dell’ideologia sionista, a sua volta sostenuta dalle “potenze marittime” e mercantili.

Obama chiede il “congelamento” delle colonie. George Mitchell lo pone come base per avviare il processo di pace. Netatnyahu non ne vuole nemmeno sentir parlare. Paiono esserci frizioni fra gli Usa e Israele. Come si risolverà la cosa?

Di quale “processo di pace” stiamo parlando? Tutti gli analisti più seri sanno che il “processo di pace”, i “negoziati” eccetera sono un espediente per procrastinare all’infinito la “questione palestinese” (che ho spiegato brevemente non essere tale), poiché tale “questione” funge da ‘ipoteca’ posta sulla possibilità di integrazione – questa sì “pacifica” – delle popolazioni dell’Eurasia e dell’Africa, col Mediterraneo che così tornerebbe a svolgere la sua funzione naturale.

Fintantoché gli sponsor del sionismo – il quale evidentemente è utilizzato come paravento – avranno carte da giocare (e mi riferisco alla concreta forza sul terreno), assisteremo a estenuanti quanto inconcludenti tira e molla sulle “colonie” ed altro, senza mettere in questione la legittimità di una situazione che dal 1948 (ma già ai tempi del “Mandato britannico” andava creandosi) ha provocato immani sofferenze, in primis alla popolazione palestinese stessa, resa in buona parte profuga, ma anche a molte comunità ebraiche sparse per il mondo, le quali sono state strumentalizzate dai dirigenti sionisti per costituire una base demografica alla loro impresa.

Le “potenze marittime”, adesso, devono fronteggiare un’alleanza geopolitica (non ideologica, quindi, checché ne dicano i loro “media occidentali”) tra Paesi del mondo intero che, da un lato, stanno tessendo alleanze regionali (si pensi alla Turchia, alla Siria all’Iran, che aboliscono i visti, stipulano accordi commerciali ecc.), dall’altro, operano ad un livello mondiale (Brasile-Turchia, Venezuela-Iran, Brasile-Russia-India-Cina: BRIC ecc.) perché hanno compreso che il “pericolo” riguarda tutti.

Ecco, se esiste una reale possibilità di “pace”, anche in Palestina, direi che essa passa per un ridimensionamento di Stati Uniti e Gran Bretagna e una rafforzamento di quella che noi di “Eurasia” chiamiamo “pax eurasiatica”.

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Enrico Galoppini scrive su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” dal 2005. È ricercatore del CeSEM – Centro Studi Eurasia-Mediterraneo. Diplomato in lingua araba a Tunisi e ad Amman, ha lavorato in Yemen ed ha insegnato Storia dei Paesi islamici in alcune università italiane (Torino ed Enna); attualmente insegna Lingua Araba a Torino. Ha pubblicato due libri per le Edizioni all’insegna del Veltro (Il Fascismo e l’Islam, Parma 2001 e Islamofobia, Parma 2008), nonché alcune prefazioni e centinaia di articoli su riviste e quotidiani, tra i quali “LiMes”, “Imperi”, “Levante”, “La Porta d'Oriente”, “Kervàn”, “Africana”, “Rinascita”. Si occupa prevalentemente di geopolitica e di Islam, sia dal punto di vista storico che religioso, ma anche di attualità e critica del costume. È ideatore e curatore del sito "Il Discrimine".