Come è noto, la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 produsse la nascita di 15 repubbliche indipendenti animate – nella maggior parte dei casi – da sentimenti fortemente ostili nei confronti di Mosca.

La Russia ereditò da tale catastrofe geopolitica un’economia dilaniata dalla recessione e gravata da tassi inflazionistici e occupazionali del tutto inadeguati a un paese intenzionato a gettarsi alle spalle il passato riaffermandosi al rango di grande potenza.

Le gravissime condizioni in cui versava il paese spinsero i grandi istituti finanziari esteri a pretendere l’immediato rientro dei capitali che erano stati concessi a Mikhail Gorbaciov per sostenere i colossali piani di ristrutturazione economica (Perestroijka) improntata alla trasparenza (Glasnost).

Ciò privò il governo del sostegno popolare e provocò un vuoto politico che venne colmato dopo svariate vicissitudini da Boris El’cin, che ereditò da Gorbaciov la carica di Presidente.

El’cin si fece immediatamente promotore di un vasto programma di riforme economiche di forte vocazione neoliberale atte ad aprire le frontiere russe al mercato mondiale, accompagnato da un simmetrico progetto di privatizzazione dell’ingente patrimonio pubblico ereditato dall’Unione Sovietica.

I piani di El’cin si rivelarono ben presto per quello che erano, mera opera di preparazione all’imminente smantellamento dell’apparato industriale russo a beneficio di un manipolo di facoltosi uomini d’affari russi – i cosiddetti “oligarchi” – connessi alla grande finanza occidentale.

El’cin incontrò numerose difficoltà nel portare avanti il proprio programma politico, scontrandosi con la riottosità del Congresso che giunse a progettare di destituirlo.

Nell’ottobre del 1993 El’cin promise solennemente che avrebbe provveduto a pagare gli stipendi arretrati delle forze armate in cambio dell’appoggio dei vertici dell’esercito.

Non appena l’esercito gli accordò la propria fedeltà, El’cin ordinò, nell’ottobre del 1993, di cannoneggiare il Parlamento al fine di reprimere l’attività antigovernativa del Congresso e riaffermare la propria leadership.

Nel 1995 l’irragionevole gestione monetaria tenuta da El’cin prosciugò le casse dello stato e favorì l’applicazione del sistema “prestiti per azioni”, mediante il quale lo Stato si sarebbe avvalso dei finanziamenti concessi da investitori privati che avrebbero a loro volta ottenuto come garanzia le partecipazioni e i pacchetti azionari di maggioranza delle grandi aziende strategiche pubbliche.

Come era logico attendersi, le scarse risorse su cui il governo di Mosca poteva contare si rivelarono ben assolutamente insufficienti a far fronte agli impegni presi con gli investitori.

La data di scadenza entro la quale il governo di Mosca si era impegnato a saldare il debito contratto venne eloquentemente fissata, di comune accordo con gli investitori, nel settembre del 1996, poche settimane dopo che venissero celebrate le elezioni presidenziali.

Siccome la popolarità di El’cin aveva toccato i minimi storici, il leader del Cremlino e gli investitori che avevano aderito al progetto “prestiti per azioni” decisero di approfittare del vertice del World Economic Forum di Davos del 1995 per discutere i termini della strategia elettorale finalizzata a favorire la conferma di El’cin al potere.

A Davos presenziò anche il segretario del Partito Comunista Ghennadij Zjuganov, che dinnanzi alla platea internazionale raccolta per discutere l’ordine del giorno, ovvero le “sfide oltre la crescita”, si propose come credibile riformatore dell’arrancante federazione russa.

Zjuganov si era circondato di una classe dirigente proveniente dalle fila dell’Unione Sovietica fermamente contraria alla politica neoliberale propugnata da El’cin e godeva di un consistente apprezzamento popolare.

Gli investitori privati decisero allora di formare un fronte unito schierato a sostegno di El’cin e avviarono una poderosa campagna propagandistica atta a screditare Zjuganov descrivendolo come un reazionario intenzionato a ripristinare l’autoritarismo statalista sovietico.

Si giunse alle elezioni, che decretarono la vittoria di El’cin.

Le modalità mediante le quali si svolsero quelle elezioni sono state ampiamente descritte e denunciate da innumerevoli osservatori, le cui proteste sono state regolarmente fatte cadere nel vuoto.

El’cin, fresco di rielezione, dichiarò l’impossibilità da parte dello stato di adempiere agli impegni presi con gli investitori, che nell’arco di pochi mesi si appropriarono di un’ampia fetta del gigantesco patrimonio industriale ed energetico russo.

La svalutazione del rublo direttamente legata alle sue scelte dissanguò i risparmi di un’intera popolazione, la colossale frode dei “prestiti per azioni” prosciugò le casse dello stato e consegnò il paese in mano a un manipolo di affaristi in odor di mafia pronti a realizzare ingenti profitti da trasferire massicciamente nei paradisi fiscali stanziati nelle isole del Pacifico o nelle grandi banche d’affari anglosassoni.

Mikhail Khodorkovskij usufruì dell’appoggio finanziario dei Rotschild di Londra per fondare una propria banca d’affari, la Menatep, e aggiudicarsi all’asta il 20% dell’impresa mineraria Apatit.

Il valore dell’impresa era stimato in 1,4 miliardi di dollari ma a Khodorkovskij fu sufficiente versarne 225.000 ed impegnarsi solennemente ad investirne ulteriori 283 milioni nel potenziamento della stessa.

Quando la giustizia russa gli intimò di versare la cifra stabilita o di restituire le azioni ottenute egli, forte dell’appoggio del Presidente Boris El’cin, oppose un secco rifiuto senza incorrere in alcun provvedimento legale.

Lo stesso metodo fu applicato da Khodorkovskij nei riguardi dell’azienda Avisma, colosso nella produzione di titanio, che venne acquisita da una società offshore connessa alla Menatep.

A quel punto le attenzioni dell’oligarca si concentrarono sul gigante energetico Yukos, il 78% della quale fu acquistato per la cifra di 309 milioni di dollari.

La capitalizzazione della società al momento dell’iscrizione alla borsa deciso da Khodorkovskij giunse a lambire i 6 miliardi di dollari.

Una volta acquisito il controllo della Yukos, Khodorkovskij e Vagit Alekperov versarono 160 milioni di dollari erogati dalla Menatep per aggiudicarsi il pacchetto azionario di maggioranza della Lukoil, colosso energetico del valore di 6 miliardi di dollari.

Boris Berezovskij fu un altro facoltoso uomo d’affari che dovette le sue fortune al metodo “prestiti per azioni” adottato da El’cin, attraverso il quale riuscì ad assumere la quota di controllo della Sibneft, il cui valore complessivo ammontava a 5 miliardi di dollari, grazie a un prestito non risarcito di 110 milioni di dollari.

Roman Abramovich concesse il proprio aiuto a Berezovskij nella scalata a Sibneft, ottenne una consistente fetta del pacchetto azionario della compagnia aerea di bandiera Aeroflot appena privatizzata e creò il colosso metallurgico Rusal, frutto della fusione di numerose aziende minori.

Mikhail Prokhorov e Vladimir Potanin pagarono 250 milioni di dollari per ottenere il controllo della Norilsk Nichel, compagnia specializzata nella metallurgia il cui valore era stimato in 2 miliardi di dollari.

Tuttavia, mentre gli investitori che avevano approfittato del sistema “prestiti dietro azioni” si accingevano a trasformarsi in oligarchi, il PIL della Russia diminuì di un terzo nel giro di pochi mesi, nell’arco di un quinquennio il 35% della classe media si attestò al di sotto della soglia di povertà, le casse dello Stato si vuotarono e centinaia di migliaia di dipendenti pubblici si ritrovarono senza stipendio né pensione.

I disastri provocati dalla sua politica connessi agli evidenti problemi fisici e psichici che attanagliavano la sua persona spinsero El’cin ad abbandonare l’incarico di Presidente nel dicembre del 1999.

Prima di uscire di scena egli indicò pubblicamente l’uomo che avrebbe raccolto la sua eredità, un anonimo, freddo e lucido animale politico proveniente dalle fila del KGB di nome Vladimir Putin.

Gli oligarchi erano consci del fatto che la copertura politica alle loro azioni di rapina fornita da El’cin sarebbe progressivamente svanita e che la nomina di un Presidente ostile ai loro interessi avrebbe potuto minare i loro ingenti patrimoni.

Ciò li spinse a tutelarsi trasferendo gran parte dei capitali dalla Russia ai forzieri delle grandi banche d’affari svizzere e anglosassoni che riciclarono i loro fondi.

Non a caso Putin giunse al potere grazie al loro sostegno – oltre a quello di El’cin – esternando enigmatiche e sibilline affermazioni dietro le quali si celava però un progetto politico che nessuno di loro fu in grado di decifrare in tempo utile.

Una volta insediatosi, Putin tracciò immediatamente una netta rete di demarcazione tra potere politico e potere economico/finanziario, proclamando l’indiscutibile autonomia e sovranità del Cremlino.

Certo del fatto che dichiarare una guerra aperta ai potenti oligarchi avrebbe condotto inesorabilmente il paese nel caos, Putin promise che avrebbe rinunciato a dichiarare illecite le privatizzazioni selvagge degli anni ’90 qualora gli oligarchi si fossero impegnati a non interferire nelle scelte politiche.

La sua intenzione era quella di limitare il potere dei privati all’interno delle aziende operanti nei settori strategici dell’energia, della metallurgia, dei trasporti e delle telecomunicazioni.

Il valore delle imprese petrolifere era pari al 60% della capitalizzazione alla borsa di Mosca e rappresentava il 20% circa delle entrate fiscali statali.

Controllare questi settori significava manovrare un potere capace di influenzare pesantemente tutte le attività sia pubbliche che private interne alla Russia e di sortire significative ripercussioni sul più ampio scenario internazionale.

Per adempiere a questo obiettivo, i ruoli chiave della politica e dell’economia vennero gradualmente occupati da uomini di fiducia di Putin, che scalarono rapidamente le posizioni di potere.

Sergej Ivanov, ex membro del KGB, fu nominato Primo Ministro e divenne direttore della compagnia aeronautica UABC.

Igor Secin, uomo dell’FSB di stanza in Africa, ricoprì l’incarico di vicecapo dello staff governativo ed entrò nel consiglio di amministrazione dell’azienda petrolifera Rosneft.

Molti altri ex membri del KGB e dell’FSB si insinuarono tra le maglie della politica e dell’economia, riducendo progressivamente lo spazio di manovra degli oligarchi.

Alcuni di essi, allarmati dall’ostinazione con cui Putin portava avanti i propri programmi, decisero di sfidarlo in campo aperto provocando la dura reazione del Cremlino.

Mikhail Khodorkovskij fu incarcerato per evasione fiscale e frode nel 2003 dopo aver opposto un secco rifiuto all’ingiunzione di versare 10 miliardi di dollari di imposte arretrate, mentre si accingeva a trattare con le compagnie americane Chevron ed ExxonMobil i termini della cessione di consistenti quote della Yukos.

Il suo arresto provocò il congelamento delle trattative e l’immediata immobilizzazione del 40% dell’intero pacchetto azionario.

La Yukos, decapitata dei propri dirigenti di vertice, fallì nel 2005 e Lukoil, Rosneft e Yuganskneftgaz – aziende, queste ultime due, controllate direttamente o indirettamente dallo Stato – ovviarono alla voragine apertasi con il suo crollo.

Sia Rosneft che Yuganskneftgaz confluirono poi in Gazprom che in tal modo assunse il controllo di un quarto della produzione energetica nazionale.

Boris Berezovskij riparò in Inghilterra per sfuggire ai numerosi mandati di cattura pendenti sul suo capo.

Gli uffici di Vladimir Gusinskij furono sottoposti a ripetute ispezioni finché non emersero prove del suo coinvolgimento in un giro di corruzione che lo spinsero a scappare a Gibilterra per poi ottenere la cittadinanza in Israele.

L’attacco agli oligarchi e rappresenta la volontà di Putin e dei suoi stretti collaboratori di riportare i settori strategici sotto il controllo dello Stato e di utilizzarli come arma politica per riaffermare la centralità della Russia nello scacchiere internazionale.

Il rilancio di un capitalismo di Stato fondato sull’immenso patrimonio energetico sottratto alle lobbies degli oligarchi e favorito dall’aumento prorompente dei prezzi di petrolio e gas appagò la volontà di riscatto della popolazione russa fortemente segnata dalla smania privatizzatice di El’cin e restituì prestigio internazionale alla Russia.

Putin si mostrò però consapevole dei limiti e conscio delle avversità che il suo paese era costretto ad affrontare.

Dietro la sua celebre affermazione pubblica secondo cui il crollo dell’Unione Sovietica sia stata la principale “catastrofe geopolitica” del Ventesimo Secolo si celava infatti la consapevolezza del fatto che la Russia è in grado di mantenere la propria integrità e sovranità solo assestandosi su posizioni di potenza che non possono prescindere dal ruolo cruciale dell’energia.

Non è un caso che il più ambizioso progetto di Putin consista nel promuovere lo sviluppo delle tecnologie necessarie a prolungare il ciclo storico degli idrocarburi, con particolare attenzione al gas che è una fonte pulita di cui la Russia copre il 30% circa delle riserve mondiali.

Gas e petrolio hanno consentito a Mosca di proiettare la propria influenza sui paesi europei e centroasiatici con i quali Putin ha stabilito rapporti di amicizia e stretto quelle alleanze strategiche indispensabili per una riaffermazione della Russia al rango di grande potenza internazionale.

Putin ha intessuto ottimi rapporti in Europa, con governi e compagnie con le quali ha intavolato e concluso trattative relative a progetti riguardanti la sicurezza e l’approvvigionamento energetico.

Tuttavia i suoi piani sono insidiati dall’allargamento della NATO verso est, oltre che dalle turbolenze che scuotono parte del “rimland”, quella fascia territoriale posta a ridosso dei confini russi che si estende dall’Estonia alla Georgia e che annovera nazioni come quelle baltiche o come Romania e Bulgaria recentemente entrate nell’Unione Europea, la cui espansione graduale lambirà le coste del Mar Nero e produrrà un compattamento tra quei paesi che Mosca considera inaffidabili.

Uno dei paesi strategicamente fondamentali è l’Ucraina, teatro della “rivoluzione arancione” del 2004 c ulminata con l’ascesa al potere del candidato atlantista Viktor Yushenko.

Yushenko fu da subito protagonista di una serie di scontri diplomatici piuttosto duri con la Russia, opponendo un cospicuo aumento delle tasse derivanti dal transito del gas russo attraverso il corridoio energetico ucraino alla pretesa della Gazprom – avanzata nel periodo in cui correvano voci sull’entrata dell’Ucraina nella NATO – di portare il prezzo del gas destinato all’Ucraina ai normali livelli di mercato.

La diatriba tra i due paesi si protrasse per diversi anni e culminò nel gennaio 2009, in corrispondenza della scadenza del contratto che regolava i termini del transito, quando Gazprom decise di interrompere il flusso di gas destinato all’Europa.

Si trattò di una mossa strategica che da un lato portò gli europei a comprendere appieno l’urgenza di individuare vie di approvvigionamento energetico stabili e indipendenti dalle turbolenze interne ai singoli paesi, dall’altro provocò una pesante crisi economica in Ucraina che favorì il crollo politico di Yushenko che preluse all’elezione, nel febbraio del 2010, del filorusso Viktor Yanukovich.

Yanukovich si fece immediatamente promotore di una politica di distensione dei rapporti tra Kiev e Mosca, ripristinando una cordialità che ha reso possibile la ratifica di un accordo in base al quale all’Ucraina è stato accordato il diritto di usufruire del 30% di sconto sulle forniture di gas russo in cambio di una serie di concessioni economiche e militari al Cremlino.

La necessità di creare nuove strutture per il transito degli idrocarburi non fu però intaccata dalla riappacificazione tre Mosca a Kiev; per troppo tempo Russia ed Europa erano rimaste “ostaggio” delle contorte manovre politiche ucraine.

I progetti relativi alla costruzione dei gasdotti North Stream e South Stream nacquero da questa esigenza e più in generale dalla volontà di rompere il vincolo di dipendenza che condizionava il rifornimento energetico dei paesi europei dalle turbolenze politiche (come l’endemica russofobia polacca fomentata a suo tempo da Lech Aleksandr Kaczynski) che persistono in altri paesi dell’est, largamente diffidenti nei confronti del Cremlino.

Il North Stream dovrebbe solcare i fondali del Baltico e giungerà direttamente ai terminali tedeschi, mentre il South Stream (in cui l’Eni è chiamata a svolgere un ruolo primario) attraverserebbe il Mar Nero e dalla Bulgaria si snoderebbe a sud verso Grecia e Puglia e a nord verso Austria e Ungheria.

E’ su questo punto che si concentrano i timori di numerosi analisti statunitensi che si sono fatti promotori di una forte campagna di strumentalizzazione del problema consistente nell’agitazione ossessiva dello spauracchio relativo alla presunta “schiavitù energetica” europea sotto il giogo della Russia.

Per scongiurare tale pericolo, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno patrocinato alla progettazione del gasdotto Nabucco, considerato da molti osservatori un’alternativa credibile al South Stream poiché bypasserebbe svariate nazioni turbolente e diversificherebbe l’offerta sul mercato energetico europeo mediante l’afflusso di gas proveniente dai paesi dell’Asia Centrale.

La messa a punto di tale gasdotto è però enormemente condizionata dai cattivi rapporti che Washington intrattiene con l’Iran di Ahmadinejad.

Da un punto di vista più strettamente politico, numerosi analisti affermano invece che assecondando i progetti del Cremlino l’Europa si ritroverebbe a subire l’oppressiva egemonia russa.

I toni apocalittici costantemente impiegati da costoro per dispiegare le loro tesi sono però indice di una contaminazione ideologica che si scontra inesorabilmente con la realtà dei fatti.

A differenza di quanto avviene negli USA, gran parte delle nazioni produttrici di idrocarburi ha un’economia pesantemente condizionata dalle esportazioni; al netto dei profitti derivanti dalla vendita di idrocarburi, il PIL dei paesi dotati di questo tipo di economia rischierebbe di scomparire in un colpo solo.

La Russia ha un’economia ampiamente strutturata che non può però prescindere dalle esportazioni di petrolio e gas ed è condizionata da un bisogno di vendere i propri idrocarburi probabilmente maggiore rispetto a quanto l’Europa non ne abbia di rivolgersi a Mosca per far fronte alla propria domanda energetica.

Gli Stati Uniti erano ben consci dei limiti propri all’economia sovietica (alcuni dei quali vigono ancora in un paese come la Russia) già agli sgoccioli della Guerra Fredda, quando (correva l’anno 1986) liberalizzarono la vendita del petrolio dell’Alaska e misero le proprie tecnologie d’avanguardia al servizio delle potenze europee affiliate alla NATO allo scopo di favorire l’estrazione del petrolio dal Mare del Nord.

Immettendo enormi quantitativi di petrolio sul mercato internazionale si produsse un vertiginoso abbassamento dei prezzi al barile (che toccò i 10 dollari nel mese di maggio) che sortì ripercussioni devastanti sull’arrancante economia sovietica.

Questo precedente storico costituisce un affresco sufficientemente rispondente alla struttura economica della Russia, che presenta numerosi punti di contatto con quella su cui era incardinata l’Unione Sovietica.

E’ un fatto che pochi oseranno contestare, inoltre, che non esistono alternative credibili in grado di sopperire all’eventuale sganciamento da Mosca.

Il progressivo calo di estrazioni gasifere nei giacimenti del Mediterraneo e del Mare del Nord è indice del fatto che l’Europa sta esaurendo le proprie risorse, e le forniture provenienti dai paesi nordafricani non sono sufficienti a coprire l’intero fabbisogno del Vecchio Continente.

L’apertura alla Russia si rivela allora una soluzione difficilmente evitabile per l’Europa.

Se l’Europa scegliesse di voltare le spalle, anche parzialmente, alla Russia, Putin e Medvedev – uomo politico estremamente ambiguo – potrebbero volgere il proprio sguardo ad est, verso il gigante cinese, letteralmente affamato di approvvigionamenti energetici.

Con il Turkmenistan, gli strateghi di Pechino hanno siglato accordi estremamente importanti, che hanno permesso la costruzione di un gasdotto che apporterà 40 miliardi di metri cubi di gas per 30 anni e di un oleodotto di capacità pari a 200.000 barili di petrolio al giorno.

Al momento la Cina produce circa 75 miliardi di metri cubi di gas l’anno e ne consuma circa 80, ma diverse stime rivelano che entro il 2030 un terzo del fabbisogno di gas della nazione verrà integralmente coperto dalle importazioni estere.

Il gasdotto in questione subirà presto un corposo potenziamento e sarà agganciato anche alla rete gasifera del Kazakistan, altro grande paese produttore.

L’aspetto inedito della vicenda è che per la prima volta Mosca ha lasciato carta bianca a un paese storicamente gravitante attorno alla sua orbita, consentendo all’abile Primo Ministro turcomanno Gurbanguly Berdimuhamedov di trattare direttamente con la Cina, nazione potenzialmente concorrente nel medio periodo.

Nei confronti dell’Iran non fu riservato lo stesso tipo di trattamento quando, nel giugno del 2010 Russia e Cina espressero in sede ONU il proprio voto favorevole all’applicazione di ulteriori sanzioni a Teheran.

All’epoca Ahmadinejad stava siglando accordi con Chavez e Erdogan estromettendo Putin e Medvedev dalle trattative.

E’ possibile che l’atteggiamento tenuto dalle due potenze nei confronti dell’Iran sia legato al fatto che i loro governi non intendono rinunciare alla propria centralità strategica e al ruolo di interlocutori obbligati per ogni questione che attenga i punti geopoliticamente cruciali.

Tuttavia le mosse diplomatiche compiute da quei paesi sprovvisti della forza coercitiva necessaria per pretendere repentini riallineamenti da parte dei propri alleati seguono disegni scarsamente lineari e spesso difficilmente comprensibili.

Putin (su Medvedev è obbligato sospendere il giudizio) e Hu Jintao sanno di non poter rinunciare a combattere l’egemonia statunitense sul Vicino e Medio Oriente e profonderanno poderosi sforzi per promuovere l’integrazione continentale di contrasto all’espansionismo delle potenze atlantiste.

Il governo di Mosca, inoltre, continua a considerare apertamente (nel corsi di molti discorsi Putin ha ribadito questo concetto) l’Europa un partner privilegiato, impegnandosi a favorire la realizzazione del “gasdotto della pace” escogitato con l’intento di far affluire il gas iraniano attraverso i corridoi energetici di Pakistan ed India fino ai terminali cinesi, in modo da consentire alla Russia di concentrarsi esclusivamente sul mercato europeo.

Tuttavia la vocazione eurasiatica della Russia è da tempo entrata in rotta di collisione con le reticenze delle burocrazie di Bruxelles, che nemmeno di fronte agli aperti richiami alla collaborazione spesi da Putin in occasione della storica conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco il 7 febbraio 2007 hanno manifestato segnali positivi in tal senso.

 

Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie


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