1. La borsa non è il mercato perfetto della teoria neoclassica, costituito da migliaia di operatori più o meno di pari forza (tanti atomi di un gas, la cui velocità e numero degli urti reciproci determinano pressione e temperatura dello stesso). Non vi è alcun incontro tra domanda e offerta attorno ad un prezzo di equilibrio, che esprimerebbe esattamente la media delle valutazioni (ottimistiche o pessimistiche) degli “attori in commedia” (anzi “in farsa”, puramente ideologica). Il mercato, nient’affatto “libero”, è la giostra in cui alcune enormi concentrazioni finanziarie, come i grandi pesci nel mare, si portano dietro sciami di pesci piccoli, mangiandosene un bel po’ durante le alterne vicende di “vivace” gioco al rialzo o al ribasso.
Se queste concentrazioni finanziarie (in definitiva, grandi banche come quelle americane) sono scontente di certe decisioni degli organi di controllo politico (ad esempio della recente tassazione voluta da Obama, sollecitato da una bruciante sconfitta elettorale), concertano, anche senza bisogno di incontri segreti, un’azione di diffida: iniziano ad esempio manovre ribassiste in modo tale da portare all’in giù, in media, il complesso dei titoli di borsa e dare così un “segnale di sfiducia” (attribuito dai “megafoni” del liberismo ai “risparmiatori”). Tuttavia, non è certo tramite questa via che le concentrazioni in oggetto possono battere le decisioni politiche dell’amministrazione centrale. Quando i ribassi hanno raggiunto certi limiti, pur nell’ambito di un gruppo decisionale (i pesci grandi) non troppo numeroso (non certo le “migliaia di risparmiatori” degli ideologi del liberismo), qualcuno rompe le righe, acquistando, perché l’occasione di futuro guadagno a prezzi rialzati diventa troppo allettante; e se uno trasgredisce, tutti gli altri infine seguono per non “restare con il cerino in mano”. Non parlo nemmeno dello sciame dei pesci piccoli, che segue sempre i grossi e quindi non fa testo alcuno, non conta un bel nulla; si tratta di “greggi di pecore” da “tosare” per incrementare gli utili dei grandi “giocatori”.
I ribassi consistenti, complessivi e prolungati si verificano in genere quando sussistono reali condizioni (congiunture) di crisi, legate alla periodica crescita abnorme del settore finanziario rispetto a quello reale; specialmente in situazioni di policentrismo, di acuita competizione interimprenditoriale con accentuazione dell’“anarchia mercantile” (nonostante le banalità dette dagli economisti in merito all’organizzazione dei mercati in regime oligopolistico, trattandosi di uno dei più tipici errori della concezione economicistica delle strutture sociali). Se la crisi è superata o in fase di stallo (come mi sembra attualmente), dopo una fase di caduta la Borsa valori riprende quota poiché il gioco al ribasso dura più o meno a lungo, ma mai così a lungo da impedire i guadagni dei grandi giocatori (salvo, ripeto, che in situazioni di crisi reale, quando allora non si tratta più di un gioco, bensì di un fenomeno prolungato causato da un “eccesso” che deve essere “riassorbito”). Quindi, se ne dovrebbe concludere che è sufficiente Obama tenga ben ferme le sue decisioni sulla tassazione; i banchieri starebbero conducendo un’ultima battaglia, un’ultima manovra prima della resa.
Non bisogna mai prendere alcun imprenditore, nemmeno finanziario, per uno scemo. Intanto, in assenza di decisioni politiche cogenti, salvo quelle dell’imposizione fiscale, con il gioco al ribasso i grossi finanzieri hanno avuto modo (se non tutti, una buona parte) di tosare un bel po’ di pecore, e questo è già un risultato positivo. Soprattutto, però, hanno lanciato un segnale sicuramente ben raccolto da coloro che li rappresentano in seno all’amministrazione centrale; e non mi consta che Obama abbia ancora avuto il coraggio (lo può avere? Non so) di liquidare e sostituire questi “agenti” del sistema finanziario, che sono in genere quelli delle precedenti amministrazioni. I repubblicani erano stati considerati, assai scioccamente (come dimostrato dai recenti test elettorali), battuti e rintanati negli “ultimi ridotti” per merito della “meravigliosa” azione di un “diverso”: il nero (e premio Nobel per la pace) che si sta invece dimostrando strategicamente abbastanza limitato, almeno finora.
Vi è però di più. La tassazione speciale delle banche – giusta punizione, in fondo, per le loro azioni senza alcun dubbio truffaldine e arroganti – è stata accompagnata da fumosi progetti di riduzione delle loro dimensioni (fino a quali?), dall’intenzione di spingere l’azione creditizia a favorire (o quanto meno non sfavorire) le piccole ma attive e vivaci intraprese produttive. Si vorrebbero bloccare le azioni puramente speculative, e separare le operazioni creditizie per investimenti (a medio-lungo termine) da quelle per spese di esercizio (“ordinarie”), ecc. Tutte impostazioni che ebbero largo corso già un secolo fa, in occasione di grandi fallimenti bancari, della crisi del 1907, ecc. Certe misure sono già state prese allora, almeno “formalmente”, e anche ripetute dopo il 1945 nel mondo capitalistico occidentale. Sempre, quando si verifica la sproporzione (speculativa) tra economia cartacea e quella reale si riformulano i soliti propositi. Non si tiene minimamente conto (nelle intenzioni espresse verbalmente, poiché in realtà poi ci si comporta in modo diverso e assai più sensato) di qual è l’intima struttura capitalistica.
2. Impossibile “avere la botte piena e la moglie ubriaca”. O, altrimenti detto, “se mia nonna avesse le ruote sarebbe un carretto”. L’economia capitalistica non conosce sviluppi – guardate che non sto parlando solo di crescita (il sopravvalutato Pil), ma di sviluppo, di trasformazione dei rapporti sociali con avanzamento, sebbene nel lungo periodo, del benessere medio e dello status di tutti o quasi i membri di una data società – se non tramite continui sconvolgimenti, distruzioni creatrici (non soltanto in senso schumpeteriano, ma anche per quanto concerne i vari comparti sociali), squilibri incessanti, ecc. Uno degli squilibri ineliminabili, se non nelle chiacchiere “etiche” di parolai che imbrogliano coscientemente il “popolo”, è quello dell’eccesso finanziario ricorrente, senza il quale (senza i rischi che comporta e che precipitano infine in sconquassi) non si verifica sviluppo alcuno. Si vuole la decrescita senza che sia possibile una radicale trasformazione delle strutture sociali (non chimerica com’è stato per il socialismo e comunismo, per non parlare di altre utopie del tutto infantili!)? Bene, ci si rassegni allora a ciò che afferma, con verità, Alice. Anche per stare fermi, bisogna correre sempre più forte; se si preferisce rallentare, si andrà indietro con decelerazione accelerata. “E’ l’eccesso che genera il necessario”; questa è la veritiera frase che scrive Zola, proprio in base all’esperienza di Borsa, e proprio nel corso di una delle speculazioni che provocano disastri.
Si è tentato di evitarli con la famosa pianificazione, pensata quale sinonimo di socialismo; una organizzazione matematica dell’equilibrio tra settori nel corso dello sviluppo. Un vero fallimento, alla fin fine null’altro che una sorta di accumulazione originaria accelerata, al cui termine si è rimasti senza equilibrio, senza crescita e senza sviluppo, in corsa verso lo sfacelo finale. L’unica verità del “liberismo”, una volta che sia sfrondata dalla falsità dell’equilibrio raggiunto tramite l’atomica azione e reazione di migliaia di soggetti agenti nel mercato (puro, cioè depurato da volontà e decisioni politiche), è quella della ricchezza e del benessere conquistati con la lotta, tanta fatica e perfino fallimenti e miseria; nel lungo periodo, sia pure con alti dislivelli di condizioni tra i diversi individui, la crescita complessiva riguarda la stragrande maggioranza della popolazione. Oltre alla crescita si ha pure sviluppo in quanto trasformazione degli status sociali (e dei rapporti interindividuali e intergruppi) sempre per questa maggioranza; pur, lo ripeto, nella differenziazione delle condizioni economiche e di status, e del potere decisionale.
L’unico modo non di evitare gli squilibri intersettoriali e le differenziazioni sociali, ma di renderli almeno funzionali ad uno sviluppo meno costellato di autentici terremoti economici e di intensi disagi sociali, è quello di una decisa prevalenza della politica nelle decisioni riguardanti le diverse sfere della società (economica, politica, ideologico-culturale). L’effettivo esito positivo del processo iniziato nel 1917, e che sembrava terminato definitivamente (così speravano gli “occidentali”) nel 1989-91, è quello di aver infine dato vita a formazioni sociali (Russia e Cina) meno sensibili (almeno così sembra finora) ai disastri provocati dagli eccessi finanziari – in rapporto all’economia reale – tipici delle “democrazie occidentali”. In nessun caso autentiche democrazie, solo pluralità di decisioni da parte di lobbies e gruppi di pressione, ormai attualmente incapaci di vera sintesi complessiva, per cui l’indecisionismo, il frequente mutare di strategie, è il portato naturale di società che sembrano aver fatto il loro tempo e che dovranno, nella fase storica multipolare e poi policentrica che avanza (non di breve durata), confrontarsi con formazioni sociali più congrue. Da questo scontro nascerà la formazione sociale del futuro (non certo equa e giusta, ma certo meno squilibrata e inefficiente nell’andamento dei processi decisionali; senza l’ipocrita e falsa ideologia che essi nascano “dal basso”, dal “popolo”, che i vertici siano solo gli esecutori della volontà di quest’ultimo).
Per questo, le decisioni di Obama appartengono ancora al libro dei desideri, che vengono talvolta esauditi, non però per la consapevole volontà di coloro che le hanno prese; solo per un concorso specifico di circostanze dipendenti dai rapporti di forza tra le varie lobbies e dall’affermarsi, più o meno celere, del vero multipolarismo, anch’esso legato a molteplici congiunture dei reciproci rapporti di forza tra formazioni sociali diverse. Non facciamoci dunque abbagliare dallo specchietto delle allodole che questo ancora incerto presidente ci mostra. Le decisioni prese sono al momento non giudicabili quanto agli effetti che potranno provocare; tutto dipende dalle scelte politiche effettive e da chi le prenderà e contro chi in realtà si rivolgeranno.
Quanto poi al ridimensionamento delle banche, alla separazione tra credito ordinario e di investimento, alla lotta alla speculazione (quella “sproporzione” che è inseparabile dallo sviluppo di questa formazione sociale), mi si consenta di essere assai perplesso data la ripetitività almeno secolare di simili intenzioni. A scanso di equivoci: non dico che non si possano avere banche più piccole (non abbiamo da un secolo assistito alla lotta antitrust, con formali soluzioni in linea con quanto voluto dall’“autorità”?), un’accanita lotta contro gli speculatori, una separazione tra varie tipologie di istituti di credito. Tutto questo è già stato, formalmente, ottenuto altre volte. La sostanza è sempre stata abbastanza diversa da quella voluta e perseguita; e per fortuna del “sistema”, che altrimenti avrebbe avuto “ottime” probabilità di fare flop. Bisogna correre sempre più velocemente perfino per restare nello stesso posto, poiché “è l’eccesso che genera il necessario”: non scordiamolo mai.
24 gennaio 20101
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