Fonte: ÉPÉE – http://www.epee.fr
Xénophon – Les cahier de ÉPÉE
Cahier n. 14 – settembre 2009
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Benché sia divenuta molto più familiare agli occidentali durante gli ultimi decenni, conseguenza inevitabile della riduzione delle distanze prodotta dalla globalizzazione, l’India conserva gran parte del suo mistero millenario e spesso essa è percepita solamente tramite qualche generalizzazione o luogo comune più o meno esatto: esotismo, miseria, spiritualità, magia, vetustà, allo stesso tempo primitiva e fastosa. Immagini più contemporanee sono venute ad aggiungersi a questo repertorio, legate al recente successo del paese per quanto riguarda l’informatica, l’esplorazione spaziale, la finanza, la letteratura e l’arte contemporanea. Ma manca una visione d’insieme, tanto difficile da stabilire per un paese gigantesco, la più diversa entità geografica ed antropologica dopo il continente africano, con cifre incredibili: più di un miliardo di abitanti (più della Cina tra trent’anni), senza parlare degli altri quattrocento milioni popolanti il resto dell’Asia del sud, che fece un tempo parte dell’India e che essa comanda senza problemi, poiché ne costituisce il 75% della superficie, il 70% della demografia e l’80% dell’economia.
Qualche altra cifra notevole: 6000 anni di storia; 400 lingue di cui 23 ufficiali (con relativa letteratura) e 1652 dialetti; tutte le grandi religioni del mondo rappresentate, oltre un gran numero di culti locali molto spesso indigeni; terzo paese islamico dopo l’Indonesia ed il Pakistan per numero di fedeli; tanti Stati quanti sono i membri dell’Unione Europea; una topografia che comprende altipiani himalayani dal clima polare e centinaia di atolli tropicali passando per deserti di tipo sahariano e foreste vergini tra le più ricche al mondo per la loro biodiversità; circa 500 000 villaggi dove vive ancora il 65% della popolazione; 40 000 antichi templi indù nel solo Stato del Tamil Nadu all’estremo sud e, in solo tempio, quello di Madurai, svariate decine di migliaia di statue censite; trenta milioni di manoscritti sanscriti sopravvivono, sparsi, la cui maggior parte non è ancora stata catalogata o tradotta…e così via.
Un gigante a misura umana
Eppure, nonostante la diversità e l’eterogeneità, una strana unità va a stabilirsi al di là dei divari religiosi, comunitari e linguistici: essa non si fonda realmente né su una lingua parlata, né su un alfabeto, né su una storia condivisa da tutti, ma piuttosto su un modo di vedere la vita e di concepire la realtà universale nella sua unità, eredità dell’antica gnosi indù, condivisa dal buddismo e la maggior parte della altre religioni nate nel paese e che vi hanno fondato santuari e luoghi di pellegrinaggio. Così, un indiano venuto da una regione lontana può sentirsi spaesato ma non per forza straniero, ovunque egli si trovi sul territorio nazionale. I processi politici, economici e tecnologici in corso dopo diversi secoli hanno fortemente contribuito all’unificazione nazionale poggiante su una memoria di civilizzazione comune.
La scelta di una democrazia parlamentare introdotta dai colonizzatori britannici ha sì premesso all’India di salvaguardare la sua unità compromessa dalla scissione del Pakistan, ma ha anche reso i meccanismi decisionali lenti, tortuosi e complessi, cosa che poi si è tradotta nell’inefficacia dell’amministrazione e delle imprese pubbliche indiane. La corruzione ha un ruolo in questa “viscosità”, ma non importante come si possa credere. La causa è soprattutto la lunghezza delle trattative tra gruppi d’interesse diversi – di cui bisogna tener conto prima di adottare un qualsiasi provvedimento – così come la pusillanimità dei funzionari che rifiutano di assumersi delle responsabilità pericolose per le loro carriere.
L’India è sfuggita alla dittatura, alla quale la sua dimensione e la sua complessità la rendono refrattaria, ma al prezzo dell’efficacia nelle decisioni e delle riforme di cui avrebbe spesso bisogno.
Il paese è anche penalizzato dal suo clima, molto spesso estremo e debilitante, favorente le malattie e le epidemie, dal suo sovrappopolamento e da una natura spietata che sovente distrugge il lavoro dell’uomo (strade, ponti, raccolti, case), senza poi parlare delle migliaia di vite umane.
Il sistema giuridico è desueto ed intasato poiché quasi trenta milioni di procedure sono o in corso o in attesa, alcune delle quali da più di mezzo secolo. Bisogna anche riconoscere la manifesta insufficienza dei servizi di ordine pubblico e di soccorso umanitario. Anche nelle grandi città, la polizia è raramente all’altezza dei suoi doveri ed il sistema di ambulanze ed ospedaliero può dolorosamente difettare benché l’India conti un gran numero di ottimi medici e diversi centri clinici d’eccellenza. Se l’insufficienza è quella ora descritta anche nella capitale federale, che dire delle zone rurali che son praticamente abbandonate a loro stesse e dove la presenza governativa è simbolica? Tale situazione riflette delle realtà sociali molto distanti da quelle dei paesi “sviluppati”: solo il 10% della popolazione è coperto dalla previdenza sociale, il restante è nel settore informale dell’economia e solo circa il 3% degli indiani paga l’imposta sul reddito. L’attuale governo ha adottato delle misure per rimediare a questo stato di cose, come il “sistema di garanzia dei lavoratori rurali” che permette e decine di milioni di contadini di sopravvivere senza aumentare il flusso di immigrazione verso le zone urbane che porta inevitabilmente all’esplosione delle bidonville.
La stabilità nazionale è minacciata
È in gran parte la carenza delle istituzioni pubbliche che ha portato all’espansione delle ribellioni contadine e tribali d’ispirazione maoista su quasi un quarto del territorio nazionale. Come molte altre nazioni uscite dagli impero coloniali europei, l’India ha mal assimilato le istituzioni “weberiane” dello Stato occidentale moderno che furono innestate sulle sue proprie cellule sociopolitiche tradizionali; è così che una superstruttura moderna tecnocratica urbana regge senza veramente poter trasformare la base popolare che continua a funzionare in parte secondo i suoi codici ancestrali, creati a partire da leggi autoctone senza memoria, modificate o influenzate nel corso dei secoli da apporti ellenici, sciiti, sino-tibetani, arabi, turco-iraniani, europei ed anglo-americani successivi, non sempre palesi.
Un effetto di questo enorme abisso tra l’élite e la massa è evidente nel sistema d’istruzione pubblica che è totalmente inefficiente a livello delle scuole primarie ma che ottiene degli eccellenti risultati nelle università e negli istituti nazionali anglofoni (le ITSA, l’IIS di Bangalore, l’IIM di Ahmedabad) mentre numerosissime università provinciali stagnano nella mediocrità per mancanza di risorse e di insegnanti qualificati.
Anche qui, si nota il divario tra i 200 milioni di una classe relativamente agiata, tra cui i portabandiera sono le poche dozzine di miliardari (in euro o in dollari, che perpetuano la tradizione di favolose ricchezze entrate nella leggenda dell’antichità) e i 900 milioni che vivono nella precarietà (la metà dei bambini soffre la carenza di nutrizione, secondo i criteri dell’OMS), sebbene un numero limitato di questi ultimi passi ogni anno, grazie a dei programmi di aiuto educativo pubblico o privato, nel rango dei più benestanti per criteri di merito o, più prosaicamente, in ragione del patrocinio accordato dai loro deputati parlamentari, o da chi ha fatto fortuna negli affari, alle comunità sfavorite.
Non c’è stata una rivoluzione sociale in India ma piuttosto un’evoluzione generalmente lenta, ineguale ed impercettibile che attraversa delle fasi di ristagno frammezzate da riforme decisive e talvolta traumatiche. La società dimostra in generale delle sorprendenti capacità di adattamento ed una flessibilità inaspettata per chi la osserva dal punto di vista delle caste e dei rigidi pregiudizi che vi si affiancano da secoli.
La congiuntura resta contrastata
Malgrado una rapida apertura sull’economia mondiale avviata all’inizio degli anni ’90 dopo decenni di autarchia dirigista nerudiana, l’India conserva un’economia mista e rimane un attore minore sulla scena del commercio internazionale sebbene essa sia al quarto posto mondiale per potere d’acquisto. La sua relativa autonomia l’ha parzialmente protetta dall’attuale crisi planetaria nata negli Stati Uniti. La crescita per il primo semestre 2009 è stimata leggermente al di sopra del 6%, ma il cattivo monsone di quest’anno avrà un effetto negativo sul secondo semestre per un paese dove l’agricoltura resta predominante, cosa che ritarderà probabilmente diversi grandi progetti.
Circondata da vicini turbolenti e fragili in una regione del mondo instabile e che il geopolitico neoconservatore americano Robert Kaplan ha definito come “quella che fu l’Europa all’inizio del ventesimo secolo”, ovvero una zona di crescente prosperità ma anche di grandi conflitti, l’India si è dotata di forze militari impressionanti (tra le prime quattro al mondo) al fine di dissuadere le velleità di conquista del Pakistan ma anche di mantenere la Cina rispettosa. Dotandosi di due porta-aerei e dieci sottomarini nucleari (il primo è stato varato lo scorso luglio), New Delhi intende conservare la predominanza nell’Oceano Indiano, ambito dalle potenze della NATO e dalla Cina, e in cui transita più del 60% dei carichi petrolieri e quasi la metà del commercio marittimo mondiale.
In totale lo Stato indiano prevede di spendere 55 miliardi di dollari per acquisti militari nei prossimi 5 anni, attirando le attenzioni di tutti i paesi produttori, oltre agli abituali fornitori più importanti: Russia, Israele, Francia, Inghilterra, Svezia e dei partner relativamente nuovi: Brasile, Africa del Sud, Stati Uniti. New Delhi vuole anche recuperare il suo ritardo in campo aerospaziale militare, ben sapendo che le guerre future saranno decise nello spazio a partire dai satelliti ed altri veicoli ed armi messi in orbita dai paesi belligeranti.
L’apertura al mondo come obiettivo
Al lungo isolata a causa della sua debolezza economica e del suo rifiuto di inserirsi in uno dei due blocchi della Guerra Fredda e poi della sua alleanza di fatto con la Russia, l’India ha in seguito moltiplicato le sua iniziative e gli accordi bi e multilaterali nel mondo, con regioni e paesi tanto diversi come l’Africa, l’America Latina, l’UE, l’ASEAN, Israele, Cina, Stati Uniti, Iran, gli Stati del Golfo Persico, Australia e Giappone. Cerca di rinforzare i suoi rapporti coi paesi che hanno tessuto con lei delle relazioni privilegiate dopo la sua indipendenza, tra cui Francia, Germania, Russia e Svezia senza dimenticare altre vecchie amicizie come la Corea del Nord, il Messico, Cuba, Singapore, il Vietnam, l’Egitto, l’Africa del Sud, la Tanzania ed il Ghana.
Senza poter rivaleggiare con l’enorme potenza industriale e commerciale cinese, l’India diviene gradualmente una nazione-chiave, mondialmente riconosciuta per la sua moderazione politica, la sua prudenza in materia economica e le sua eccezionali risorse intellettuali e tecnologiche in rapida espansione. Ottantamila giovani indiani studiano nelle università americane dove essi dimostrano generalmente delle competenze di alto livello; numerose diaspore studentesche sono ripartite tra i paesi europei, nel Regno Unito (23000), in Australia (63000), in Russia, in Giappone e sempre più in Cina e nei principali paesi dell’America Latina.
Solo la Cina forma più ingegneri, chirurghi, ricercatori in scienze fondamentali ed informatici del suo grande vicino transhimalayano, ma l’anglofonia (di cui l’India occupa il secondo posto mondiale dietro gli Stati Uniti) e la sua maggior vicinanza alle civilizzazioni occidentali, con le quali condivide l’eredità etnolinguistica indoeuropea, danno all’India un vantaggio non trascurabile in rapporto ai paesi arabi e estremo-orientali in un mondo che accusa ancora l’ascendente tecnico, finanziario e culturale delle potenze anglosassoni.
(Traduzione di Matteo Sardini)
* Come Carpentier de Gourdon è direttore della rivista indiana “World Affairs” e collaboratore abituale di “Eurasia”.
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