Anche il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato la vicinanza della Turchia al popolo egiziano e ha auspicato l’allontanamento di Mubarak dalla scena politica. Recentemente, le relazioni tra la Turchia di Erdogan e l’Egitto di Mubarak erano state positive; i due paesi rappresentano due importanti poli di stabilità per l’intera regione mediorientale ed hanno recentemente consolidato la loro partnership con importanti accordi economici. Tuttavia, Ankara si è accorta dell’impossibilità’ di difendere il presidente egiziano davanti agli avvenimenti degli ultimi giorni.
Cosa, in realtà, la Turchia potrebbe temere o a cosa potrebbe aspirare in un’eventuale fase del dopo – Mubarak?
La conduzione della politica interna ed estera di Mubarak piace ad Ankara per diversi motivi, e viene criticata per altrettanti. Prima di tutto, una delle maggiori preoccupazioni di Mubarak è mantenere i Fratelli Musulmani – reputati, dall’occidente, i più pericolosi attori sociali per quanto riguarda la creazione di un potere statale estremamente islamizzato in Egitto – fuori dall’arena politica. L’Egitto non ha l’impostazione di stato laico che ha la Turchia, tuttavia la forte alleanza tra Egitto e Stati Uniti ha fatto del regime di Mubarak un forte difensore dell’assenza di correnti religiose estremiste negli organi di governo e parlamentari. Mubarak ha fondato parte della sua alleanza con gli Stati Uniti sulla paura del “senza di me, i Fratelli Musulmani”, e Ankara ha sempre approvato – soprattutto negli anni in cui la sua politica estera era rivolta maggiormente agli USA – l’esclusione di forze sociali che propagandavano, tra le altre, un forte uso del diritto islamico.
Una possibile ascesa dei Fratelli Musulmani nel dopo – Mubarak potrebbe essere nocivo alla stabilità mediorientale, non come fatto in sé ma poiché Israele potrebbe sentirsi eccessivamente minacciato da un potente vicino fortemente schierato contro di lui, e la perdita di sicurezza nella regione non piacerebbe ad Ankara. Se si abbandona, però, l’aut aut – spesso ripetuto dai media occidentali – “un dittatore forte e alleato con l’occidente, oppure l’estremismo islamico”, e si guarda alla complessa realtà degli attori in gioco nella rivoluzione egiziana, è possibile ridimensionare il potere dei Fratelli Musulmani, che costituiscono solo uno dei tanti attori sociali coinvolti. E il filo-islamismo moderato non è certo sgradito al governo di Erdogan, guida di un partito democratico e filo-islamico. Questo la Turchia potrebbe decidere, ora che la sua politica estera sta acquisendo maggiore indipendenza dagli Stati Uniti e che sta creando una propria immagine influente e credibile in Medio Oriente: di staccarsi dall’immagine che Mubarak vuole dare dell’Egitto e che l’Occidente ha ricevuto, sostenendo la sua dittatura pur di tenere gli islamisti lontani dal potere.
La Turchia guidata dal filo-islamico e moderato AKP sarebbe probabilmente capace di comprendere la situazione egiziana senza cadere nella fobia dell’islamismo che è per forza incompatibile con la democrazia. Perché questo accada, però, i Fratelli Musulmani dovrebbero dimostrare di essere intenzionati a mantenere una linea di islamismo moderato e accettare riforme di democratizzazione dello stato egiziano, come pare proporre El Baradei non escludendo i Fratelli Musulmani nella riorganizzazione dell’opposizione a Mubarak. Nonostante il partito al governo in Turchia sia, comunque, filo-islamico, lo stato turco ha una forte impronta laica; l’esercito – che difende tale laicità – ha un ruolo ancora politicamente consistente nella vita pubblica, nonostante il graduale indebolimento dovuto sia alle riforme di Erdogan sia alle condizioni politiche imposte dall’Unione Europea. La Turchia, infatti, nonostante il recente spostamento della politica estera verso il Medio Oriente, aspira ancora a entrare nell’Unione Europea e non ha ufficialmente rotto i rapporti con gli Stati Uniti, nonostante le tensioni dovute soprattutto alla questione israeliana. Per tutti questi motivi sarebbe difficile pensare a una Turchia che accetti dal nuovo potere egiziano – qualunque esso sia – una maggiore islamizzazione dello stato, mentre non è escluso l’appoggio da parte del governo di Erdogan a movimenti riformistici moderatamente filo-islamici.
L’idea che le rivoluzioni tunisina e egiziana si ispirino nell’organizzazione politica del ‘dopo-rivoluzione’ al modello di stato turco non e’ estranea ai commenti turchi sugli ultimi avvenimenti di questi paesi: dopo essersi imposta in Medio Oriente come modello di economia in crescita e di stabilità, quando non addirittura di mediatore nelle relazioni di politica estera, ora la Turchia aspira a porsi come modello politico; il modello di uno stato islamico, con un notevole grado di democrazia e che, nonostante il laicismo su cui e’ basato lo stato, e’ capace di coniugare secolarismo e religione al governo. La Turchia, quindi, proprio in virtù della sua particolare storia, è consapevole che una convergenza di democrazia e partiti filo-islamici sia possibile, e sarebbe pronta a sostenere un nuovo Egitto che si ispiri al modello Erdogan nella sua ricostruzione politica.
La domanda è: in che misura sarebbe disposta a sostenere un governo egiziano moderatamente islamico nel caso in cui gli Stati Uniti decidessero di non farlo? E nella risposta, probabilmente, si misurerebbe la consistenza del cambiamento di rotta della politica estera turca verso una posizione di influente indipendenza nella regione mediorientale. Un altro aspetto per cui si guarda al modello turco è quello della funzione dell’esercito nella fase di transizione del dopo – Mubarak. Dopo il colpo di stato militare del 1980, infatti, l’esercito turco ha mantenuto il potere il tempo necessario per scrivere una nuova costituzione e organizzare nuove elezioni democratiche, coinvolgendo in questo processo la società civile, cosa che anche l’Egitto potrebbe auspicare nel caso in cui il potere passasse a Omar Suleiman o ad altri vertici dell’esercito. Nonostante le differenze tra le ideologie di fondo dei due eserciti – espressamente difensore del secolarismo kemalista quello turco, più interessato alla difesa dell’autoritarismo del sistema quello egiziano –, infatti, un ruolo moderato dell’esercito come bilanciamento delle spinte di estremismo islamico in politica potrebbe essere una soluzione a cui l’Egitto potrebbe aspirare. Soluzione già consolidata e funzionante in Turchia.
C’e’, comunque, una differenza da tenere in conto tra le due situazioni: nel 1983 la Turchia ha ricostruito in fretta nuovi partiti politici, poiché aveva un sistema multi-partitico funzionante prima del colpo di stato, mentre l’Egitto no, e questo ovviamente rende più difficile il percorso verso libere elezioni democratiche. Per quanto riguarda l’aspetto politico-economico delle relazioni turco-egiziane, poi, sia Turchia che Egitto sono sempre stati profondamente coinvolti nel mantenere la pace in Medio Oriente, assumendo spesso il ruolo di mediatori. Entrambi i paesi hanno, infatti, economie in forte crescita, economie per il cui ulteriore sviluppo e’ necessaria la stabilità mediorientale. Tuttavia, i recenti sviluppi della politica turca in direzione anti – USA e anti – Israele hanno fatto sì che la Turchia assumesse una posizione più rigida nei confronti di Israele e, pur non arrivando ad intaccare i rapporti commerciali in crescita con l’Egitto, accusasse Mubarak di mantenere una posizione troppo passiva davanti alla politica estera aggressiva israeliana. Alla luce di questo recente sviluppo dei rapporti Turchia – Israele, dunque, la Turchia potrebbe sperare in un nuovo Egitto che assuma una posizione più critica verso Israele, senza comunque voler compromettere la stabilità della regione. Sarebbe in questo caso, quindi, più favorevole a una possibile successione di El Baradei piuttosto che di Omar Suleiman, preferito, invece, da Israele.
Chiunque sia il successore di Mubarak, comunque, questa è la fondamentale lezione del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) turco: senza riforme economiche e di democratizzazione della sfera politica che migliorino gli standard di vita della popolazione, nessuna stabilità di lunga durata è raggiungibile, ne’ e’ possibile acquisire credibilità e relativa indipendenza in politica estera. A parità di popolazione, infatti, l’Egitto soffre di enormi problemi di povertà rispetto alla Turchia, ed esce da trent’anni di dittatura filo-statunitense. Coniugare democratizzazione e apertura alle correnti filo-islamiche senza eliminare il ruolo politico dell’esercito e’ possibile. Rendere la propria politica estera più indipendente rispetto agli Stati Uniti anche, e senza dover necessariamente ‘voltare le spalle all’Occidente’.
Resta da vedere, comunque, in che modo le potenze globali direttamente coinvolte e gli Stati Uniti in particolare, decideranno di sostenere la transazione di poteri in Egitto e, a seconda dell’importanza che verrà data al ‘modello turco’, la Turchia stessa avrà un riscontro del successo del suo modello – o della paura che esso fa se potenzialmente esteso al mondo arabo.
*Erica Aiazzi è studente in Storia e Politica Internazionale (Università di Pavia)
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