Youssef Hindi, Il conflitto israelo-palestinese, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2024, pp. 160, € 19,00

“Tuttavia l’antisemitismo, che è una grande forza inconscia nelle masse, non nuocerà agli ebrei. Io lo considero come un movimento vantaggioso per il carattere ebraico”. Questa citazione, estratta dai diari di Theodor Herzl (padre fondatore del sionismo politico) ed inserita da Youssef Hindi nelle prime pagine di questo lavoro, bene spiega il pragmatismo col quale il sionismo si è rapportato con alleati e/o avversari per raggiungere i propri scopi. Di fatto, è assai curioso notare come diplomatici di lungo corso quali Mark Sykes (artefice dei celebri accordi Sykes-Picot coi quali le potenze coloniali si spartirono il Levante) o Lord Balfour (autore dell’altrettanto celebre “Dichiarazione” che dava il consenso di Sua Maestà alla nascita di un “focolare nazionale ebraico in Palestina”), da convinti assertori dell’esistenza di un complotto giudaico internazionale siano divenuti rapidamente altrettanto convinti sostenitori del sionismo. Ancora, negli anni ‘30 del XX secolo, attraverso il Patto Haavara la Germania nazionalsocialista, desiderosa di liberarsi della componente ebraica della propria popolazione, acconsentì alla sua immigrazione verso la Palestina, previo accordo con le autorità sioniste. E più o meno nello stesso periodo Benito Mussolini – prima di indirizzare la traiettoria della politica mediterranea del fascismo su binari filoarabi (e prima delle leggi razziali del 1938) – nel corso di un colloquio con Nahoum Goldmann (al vertice del Movimento sionista dalla fine degli anni ’20) dichiarò: “Ma voi dovete creare uno Stato ebraico. Io sono sionista, io. L’ho già detto al dottor Weizmann. Voi dovete avere un vero Stato e non il ridicolo Focolare Nazionale che vi hanno offerto gli Inglesi”. Ancora, negli anni ‘40, Iosif Stalin (che costruì le sue fortune politiche sull’eliminazione degli elementi “giudaizzanti” all’interno del Comitato Centrale del PCUS), dopo aver cercato di creare uno Stato sovietico “ebraico” nell’Estremo Oriente, sostenne in modo chiaro (e forse decisivo) la nascita dell’entità sionista in Palestina. Certo, è doveroso sottolineare come le posizioni del Duce del fascismo quanto quelle del Vozd sovietico siano state il prodotto di errati calcoli geopolitici. A loro modo di vedere, infatti, un’entità sionista in Palestina (con le sue tendenze pseudosocialiste à la Ben Gurion per Stalin, o l’enfasi etnico-settaria del revisionista Jabotinsky per Mussolini, due fra le tante maschere ideologiche del sionismo odierno) avrebbe finito per essere una spina nel fianco dei Britannici prima e dell’Occidente in generale poi. La realtà storica ha mostrato qualcosa di ben diverso. Paradossalmente, solo Adolf Hitler intese da subito che l’impresa sionista si sarebbe trasformata in un “luogo d’asilo per tutti i furfanti mascherati” ed avrebbe finito per essere “dotata di sovranità e sottratta all’intervento degli altri Stati” (così egli scrisse nel Mein Kampf). Tali affermazioni non sembrano molto lontane dalla realtà, se si prendono in considerazione: a) la politica particolarmente estensiva con la quale Israele ha scelto di attribuire la cittadinanza anche a lontani discendenti di ebrei; b) il fatto che l’attuale dirigenza dello “Stato ebraico” sia composta da fanatici religiosi messianisti con interessi ramificati in diversi settori economico-finanziari.

Ora, quest’opera di Youssef Hindi, pubblicata in Francia con il titolo Comprendre le conflit israélo-palestinien des origines à nous jours (Kontre Kulture, Dijon 2024) e tradotta in italiano da Claudio Mutti, con ogni probabilità non verrà recensita dai “grandi giornali”, vale a dire da quei “mezzi di informazione” generalisti che nella quasi totalità si occupano di introiettare nella coscienza collettiva specifiche percezioni della realtà o altrettanto specifici orientamenti geopolitici. Non accadrà per il semplice fatto che un sistema egemonico di dominio si fonda essenzialmente sul monopolio dell’informazione. Ed in un Occidente atlantista e sionista, come è accaduto per quanto concerne il conflitto in Europa orientale, proporre un racconto dei fatti che non tenga in considerazione esclusivamente gli eventi dell’ultimo anno viene considerato quasi alla stregua di una minaccia (senza considerare il fatto che Youssef Hindi smonta alla radice i tanti miti infestanti attraverso i quali il sionismo si è propagato obnubilando le menti di tanti, troppi europei). Di conseguenza, ricordare (come fa Hindi in modo assai preciso e documentato) che in Palestina il terrorismo è stato importato dal sionismo (i sionisti arrivarono a rappresentare un serio pericolo anche per gli ebrei palestinesi) e che la pulizia etnica della Palestina iniziò ben prima del conflitto del 1948 e tra massacri, distruzione di villaggi ed epidemie di tifo indotte non fu un esito di quest’ultimo, viene recepito come una provocazione e una sfida dal sistema di potere occidentale. Quest’ultimo infatti vede nel suo avamposto nel Levante il proprio stendardo, utile a (ri)produrre periodicamente gli schemi dello “scontro tra civiltà” e della geopolitica del caos, ossia quella crisi permanente da cui possono trarre profitto specifici potentati politico-finanziari che, in larga parte, hanno le loro sedi negli Stati Uniti d’America ma sono strettamente interconnessi con l’entità sionista.

C’è un passaggio dell’opera di Hindi che merita di essere qui riportato: “Nel 1916 la Gran Bretagna, incalzata dal Reich tedesco, si trovava in difficoltà ed era in procinto di firmare l’armistizio proposto dal Kaiser; allora una delegazione sionista si recò dalla Germania in Gran Bretagna, al British War Cabinet, e assicurò che gli Stati Uniti sarebbero stati portati in guerra al fianco dei Britannici, se questi si fossero impegnati a consegnare la Palestina agli ebrei dopo aver vinto la guerra […] Avvenne puntualmente ciò che era stato stabilito. Il 2 aprile 1917 gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania e vennero in aiuto dei Britannici. L’avvocato ebreo Louis D. Brandeis, all’epoca presidente della Corte suprema degli Stati Uniti, e il rabbino Stephen Wise (cofondatore della Federazione sionista di New York nel 1897 e presidente del Congresso ebraico americano dal 1922 al 1946) avevano pesantemente influito sulle decisioni del Presidente Woodrow Wilson”.

Questo estratto, secondo chi scrive, andrebbe riletto alla luce del fatto che (come ha sottolineato a più riprese il pensatore di scuola marxista Costanzo Preve) la Prima Guerra Mondiale è stata vinta da quello che fu il lato peggiore in assoluto della barricata. Una “coalizione” che acconsentì allo smantellamento dei sistemi imperiali europei e diede inizio alla penetrazione (ormai secolare) dell’Estremo Occidente nel cuore dell’Europa. Alla luce di ciò il sionismo dovrebbe essere considerato come un “nemico dell’Europa” e non come una sua estensione. L’entità sionista è lì perché utile ad un preciso disegno geopolitico che vuole l’Europa priva di sovranità nel suo “mare interno”. E la stessa forma mentis sionista è parte integrante di quella sovrastruttura ideologica che, artificiosamente costruita ed introiettata nei popoli europei, mira a mantenerli in una condizione di mera servitù.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).