A distanza di molti mesi dall’inizio dello stato d’agitazione in Siria, nel febbraio 2011, che ha seguito a catena tutte le altre sollevazioni che hanno interessato molti Paesi arabi, la situazione non tende a migliorare, sicché l’attenzione internazionale ha cominciato a concentrarsi sulla regione che gli arabi chiamano Bilâd ash-Shâm.

Le manifestazioni di protesta in Siria sono andate aumentando e si sono diffuse in diverse città del paese vicino-orientale. Esplicatesi sin da subito in atti violenti, sono sfociate in sanguinosi scontri tra esercito e “attivisti” (progressivamente sostituiti da “gruppi armati”), ed hanno come obiettivo quello di fare “pressione” sul presidente Bashâr al-Asad affinché realizzi riforme in senso “democratico”.

Queste rivolte nascono dieci anni dopo l’inaugurazione di “programmi di sviluppo” attuati attraverso grandi finanziamenti volti allo sviluppo di città come Aleppo e Damasco: nonostante tutti i problemi, secondo una recente relazione congiunta di ambasciate e consolati sull’analisi socio-economica e del mercato turistico, la Siria ha visto una chiara crescita (1).

L’opposizione è alquanto divisa al suo interno.

Il gruppo di opposizione principale è il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), una coalizione di sette gruppi di opposizione, la quale, sebbene abbia ottenuto un “riconoscimento internazionale” (vale a dire occidentale), è molto criticato per essere frammentato al suo interno, non riuscendo tra l’altro ad ottenere l’approvazione dei gruppi di minoranza.

L’Esercito Libero Siriano si è trasformato in un gruppo di coordinamento per coloro che hanno deciso di andare nelle strade con le armi per combattere il governo. Allo stesso tempo è molto criticato negli stessi ambienti dell’opposizione per non essere capace di darsi un comando unificato.

Il Comitato di Coordinamento Nazionale invita al dialogo con al-Asad e, a differenza di alcuni membri del CNS, si oppone fortemente all’intervento straniero in Siria.

Il 26 febbraio un “Gruppo patriottico siriano” è nato dalla scissione operata da ex membri del Consiglio Cittadino Siriano.

La divisione tra le varie componenti non permette consente all’opposizione di ricevere l’appoggio internazionale necessario per far cadere il regime ba’thista. Molti inoltre vedono che il CNS non ha un programma economico o una “visione” per il futuro della Siria, mentre le dispute interne al Consiglio e la conseguente mancanza di un capo minacciano di lasciare il Consiglio privo della capacità di agire.

Il quadro regionale e internazionale è molto complesso ed esiste il rischio che il tentativo di  rivoluzione si converta in una guerra civile di lunga durata. Le condizioni per infiammare una regione turbolenta (per fattori endogeni ed esogeni) ci sono tutte, e possono trovare plastica rappresentazione nell’attuale fermento di tutto il mondo arabo.

In Siria, come in tutti i paesi interessati dalla “primavera araba”, si gioca una partita tra fazioni opposte che hanno visioni differenti rispetto alle alleanze internazionali. Per questo, interventi diretti armati come avvenuto in Libia sono molto difficili da portare a termine; di fatto la Libia aveva, e ancora oggi ha, una configurazione tribale che prescinde in buona parte dal dibattito tra le diverse interpretazioni dell’Islam.

Analizzando poi la composizione della popolazione siriana, si può notare che il 70% è sunnita, mentre il restante 30%, invece, è sciita; in questo 30% rientra la comunità alawita, considerata da molti come la corrente più eterodossa dell’Islam, che occupa gran parte dell’esercito e dei servizi segreti.

In base all’art. 3 della Costituzione, l’appartenenza religiosa del Presidente deve essere quella musulmana (non è precisato se debba essere sunnita o sciita) e la legislazione ha come fonte principale la giurisprudenza islamica. La Siria non è dunque, come vorrebbe un abusato luogo comune, uno “Stato laico”. E’ un paese costituzionalmemnte musulmano che, proprio in quanto tale, prevede la convivenza di diverse comunità confessionali. E su questa varietà confessionale si innesta la rete delle solidarietà con gruppi e governi di altri paesi del Vicino Oriente.

La Turchia sostiene i sunniti in generale; i paesi del Golfo appoggiano politicamente e finanziariamente le correnti wahhabite e salafite; le tribù sunnite dell’Iraq si mobilitano per fornire armi ai ribelli, compresi i gruppi radicali come quelli “vicini ad al-Qâ‘ida”. Dall’altra parte, tanto Hezbollah quanto la Repubblica Islamica dell’Iran sostengono principalmente gli sciiti, il che giustifica la simpatia iraniana per l’attuale dirigenza siriana (il presidente Asad appartiene alla minoranza alawita).

La Siria ricopre un’area strategica di 185.180 kmq al centro del Vicino Oriente; confina a nord con la Turchia, ad est con l’Iraq, a sud con la Giordania e ad ovest con Israele e il Libano. Ad ovest la Siria si affaccia sul Mediterraneo. Questo territorio costituisce perciò un elemento fondamentale nello sviluppo degli avvenimenti presenti e futuri in tutta l’area vicino-orientale e anche a livello internazionale. Con il passare dei giorni, il rischio che la Siria si trasformi nel nuovo Iraq è sempre più concreto. La confusione che si è creata negli ultimi mesi non fa sperare in qualcosa di buono, e ogni giorno arrivano notizie sempre più preoccupanti.

La Lega Araba intanto prova a gestire la crisi per ridurre il ruolo delle Nazioni Unite e dell’Occidente in generale, provando a cementare il mondo arabo sotto un’unica guida; ma l’invio dei suoi osservatori sul territorio siriano si è dimostrato più difficile del previsto, con il conseguente fallimento della missione dovuto in buona parte alla sua disorganizzazione (2).

Nonostante le condanne delle Nazioni Unite e delle grandi potenze mondiali, sia le sanzioni inflitte al governo siriano – quali, ad esempio, la decisione di ritirare tutti gli ambasciatori dalla capitale Damasco, di bloccare i trasporti o di “congelare” i fondi siriani all’estero – sia i passi compiuti dal governo – quali il referendum costituzionale (3), dall’esito positivo, che dovrebbe aprire la porta al multipartitismo con il conseguente cambio della costituzione e le annunciate elezioni legislative – non sono stati sufficienti per frenare le violenze e calmare gli animi.

I combattimenti si sono concentrati soprattutto in alcuni quartieri della città di Homs, occupati dai guerriglieri “ribelli”, ed altre rivolte vanno propagandosi a poco a poco in tutta la Siria, nonostante buona parte del paese continui a essere favorevole al presidente.

Nei mesi scorsi, dopo la caduta del regime libico e la cattura di Gheddafi, l’attenzione si era spostata verso la Siria. Considerando l’esito “positivo” della missione in Libia, l’opinione pubblica, soprattutto quella israeliana, riteneva che il governo di al-Asad avesse le ore contate. Forse, però, non si era tenuto conto di fattori interni ed esterni, soprattutto del fatto che l’esercito siriano ha un’organizzazione e una forza nettamente superiore a quella che avevano i Libici.

Intanto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite continua a discutere senza trovare una soluzione, così nessuna risoluzione viene adottata a causa del veto di Russia e Cina che non desiderano interferenze negli affari interni siriani. Queste due potenze, oltre a rifiutare la destituzione del presidente siriano, perseguono l’obiettivo di una tregua, in modo che le violenze si fermino e le due fazioni, governo e opposizione, valutino la fine dello sterminio di civili innocenti.

La scelta russa e cinese è naturalmente dettata da valutazioni d’ordine geopolitico e militare: così l’Onu appoggia il piano della Lega Araba, incluse le dimissioni di al-Asad e probabili nuove sanzioni, mentre le proposte russe esposte dall’ambasciatore Vitalij Ciurkin vengono ignorate. Russia e Cina difendono con particolare convinzione il principio di sovranità; le visite dell’ex ambasciatore cinese in Siria, Li Huaqing, e del ministro degli Affari esteri russo e responsabile dei servizi segreti Lavrov, ne sono la prova: qualsiasi risoluzione che preveda un cambio al potere non potrà essere accettata.

La Siria ospita nel porto di Tartus l’unica base navale della Marina russa fuori dal territorio dell’ex Unione Sovietica, che è rifornita di armamenti russi (4): negli ultimi mesi sono giunte navi cariche di munizioni ed è stato firmato un contratto da 550 milioni di euro per 36 aerei militari YAK 130, velivoli ultraleggeri utilizzati per addestrare i piloti militari o per attacchi leggeri. Inoltre sono stati acquistati AK-47, RPG ed armi ad alta tecnologia, ossia missili antinave Yakhont, KH-31A e KH-31P. Questi missili, codice NATO SS-N-26 e OTAN AS-17 Krypton, sono sistemi balistici di alta tecnologia. Il Yakhont è un sistema ad alta tecnologia che viaggia a una velocità intorno ai 2000 Km/h a tratti variabili tra i 5 – 10 metri della superficie marina fino ad un altezza di alcune migliaia di metri, in grado di essere lanciato da un unità di superficie, aerei o batterie costiere ad alta mobilità, con una visibilità ai sistemi radar estremamente bassa e capace di raggiungere distanze come 120 kilometri e una velocità supersonica di 3 Mach, quasi tre volte la velocità del suono, procedente a filo della superficie marina e molto difficile da neutralizzare. I KH-31P, invece, nascono come missili antiradar costruiti per distruggere i radar Phased-Array del sistema Aegis della marina americana, cioè per la difesa contro i radar che guidano gli aerei, i velivoli o i missili.  Quindi, queste armi non sono solo capaci di difendere da attacchi esterni per mare, ma anche di contrattaccare, arrivando a obiettivi strategici lontani, contro paesi come la Turchia o Israele.

Nel frattempo s‘inizia a valutare anche l’ipotesi di un eventuale intervento militare in Siria per “porre fine alle violenze”. Ma sarebbe davvero la soluzione migliore? Che rischi comporterebbe questa scelta? Le conseguenze potrebbero avere un effetto devastante su tutta la regione vicino-orientale, causando reazioni a catena e destabilizzando tutta l’area, perché dal destino della Siria dipende l’intero equilibrio regionale.

Partendo dal quadro politico interno, oltre ai sostenitori del partito Baath, che ormai sono al potere da tre decenni, ed al fronte degli “Amici della Siria”, troviamo vari gruppi pronti a contribuire al “cambiamento” nel paese; i combattimenti non sarebbero quindi solo “tra alawiti e sunniti”.

La Siria, in questo contesto, dovrebbe affrontare anche chi, approfittando della situazione, creerebbe uno scenario di assoluta confusione come i gruppi terroristici “affiliati ad al-Qâ‘ida” (5), che dal vicino Iraq, secondo fonti dei servizi d’informazione siriani, hanno iniziato a combattere la loro presunta “guerra santa”, in realtà un’azione armata settaria.

Un altro problema regionale sarebbe quello dei Curdi. Il PKK, dopo essere stato messo al bando dalla Turchia, dov’è dichiarato “gruppo terrorista”, negli ultimi anni avrebbe trovato appoggio e rifugio in Siria. Un centro di studi strategici turco è arrivato alla conclusione che la Siria sta fornendo libertà di manovra ai membri curdi del PKK. L’Orsam (6)  è giunto a tali conclusioni esaminando informazioni della stampa turca, valutando le agenzie vicine al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e dichiarazioni del capo del Partito dell’Unione Democratica (PYD), il referente della stessa formazione indipendentista in Siria.

“Negli ultimi mesi la Siria ha lasciato all’organizzazione del PKK uno spazio d’azione, anche se non allo stesso livello che negli anni Ottanta e Novanta”, scrive il Centro, sintetizzando le proprie conclusioni. Analizzando in particolare le dichiarazioni “dei leader del PKK e PYD”, si conclude che c’è “un crescente avvicinamento tra la Siria e il PKK”; l’altra conclusione è quella che “dentro un quadro di sforzi per esercitare un’influenza sui curdi siriani, c’è stata una rivalità tra PKK il nord dell’Iraq (in particolare con il KPD)”.

Le valutazioni confermano una delle preoccupazioni che per molto tempo hanno frenato la Turchia prima di mettersi contro il presidente Bashar al-Asad: oltre al pericolo di una guerra civile dai tratti settari e all’esodo di profughi verso i propri confini, Ankara teme la questione dell’indipendentismo curdo, antico problema che ha in comune con Damasco fino alla parte orientale, lungo 900 km di frontiera. Nell’ottobre del 1998, la Turchia e la Siria firmarono l’accordo di Adana, in base al quale Damasco allontanava il PKK dai suoi territori. La firma arrivò dopo che i due paesi erano stati vicini al punto di rottura, con le minacce turche di un intervento militare se la Siria avesse continuato a dar rifugio ai membri del PKK: pertanto, l’appoggio attuale, riportato dal centro Orsam, sarebbe una replica di tali accuse.

Furono le minacce belliche turche a dare il via all’odissea del leader del PKK, Abdullah Ocalan, che finì in mano degli agenti turchi un anno dopo, vicino all’aeroporto di Nairobi. Con l’ondata di proteste e la crisi in Siria, Ankara ha dissolto qualsiasi “vincolo fraterno” con Damasco, che era stato firmato dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan con al-Asad negli, e alla fine dell’estate ha così assunto una posizione contraria al governo siriano, consacrando tale divergenza  con delle sanzioni annunciate a Novembre. La stampa turca ha lanciato più volte l’allarme riguardo una strumentalizzazione del Pkk da parte di al-Asad ed una strategia filosiriana pilotata da Ocalan dall’ isola-carcere di Imrali.

Secondo informazioni del controspionaggio turco, il PKK avrebbe anche provato a promuovere un’ondata migratoria verso la Turchia. A livello ufficiale, le avvertenze o inquietudini turche rispetto alla Siria circa il fatto che quest’ultima potrebbe usare la carta dell’indipendentismo curdo per creare problemi alla Turchia erano sorte in autunno per bocca del ministro degli esteri Ahmet Davutoglu e del presidente della Commissione degli Affari esteri del parlamento di Ankara, Volkan Bozkir.

L’intervento militare in Siria quindi trascinerebbe tutta l’intera regione meridionale in un conflitto irrefrenabile. È plausibile che da tre decadi, ormai, il governo siriano sia in strette relazioni con i Pasdaran (Esercito dei Guardiani della Rivoluzione islamica), e perciò con la milizia libanese di Hezbollah e quella palestinese di Hamas. Si scatenerebbe perciò una guerra civile su molti fronti, ed inevitabilmente si troverebbero implicati altri paesi.

Secondo fonti d’intelligence, sembra che da alcuni mesi i Guardiani della Rivoluzione iraniana starebbero addestrando i generali siriani e fornendo armi alla Siria, offrendo cosi un aiuto all’esercito siriano. Però non sembrano essere gli unici stranieri operanti in Siria, perché rimettendosi a quello che riporta la pagina web dell’intelligence israeliana Debka file (7), dentro al territorio siriano ci sarebbero, oltre a vari gruppi armati procedenti dalla Libia, Turchia, Iraq ecc., anche unità di forze speciali britanniche e del Qatar, infiltrate in città come Homs, anche se non starebbero partecipando direttamente ai combattimenti, ma starebbero aiutando con assistenza tecnica e militare i “ribelli”.

Lo stesso Israele non è rimasto impassibile, e si sta preparando a qualsiasi evenienza, anche se l’opinione pubblica è titubante: queste perplessità, dissimulate dallo stato ebraico, sono il risultato di una presa di coscienza della pericolosità di armare una parte della “ribellione” in Siria, molto vicina ad al-Qâ‘ida e ad altri gruppi estremisti. Tel Aviv  nutre forti timori rispetto a una possibile affermazione dell’Islam “fondamentalista” al posto del presente governo siriano, preferendo quasi l’attuale situazione di “stallo”.

Lo stesso capo uscente di Hamas, Khaled Mesh’al, ha annunciato che appoggerà tutti quelli che si opporranno al governo siriano. Simbolo di un movimento islamico sunnita che da molto tempo godeva della protezione e dell’appoggio di Damasco, Hamas ha deciso a sorpresa di tagliare i ponti con il regime siriano, senza fare passi indietro (8). Insieme a Mesh’al, molti dirigenti di Hamas in esilio si sono trasferiti a Doha, nel Qatar, che si è trasformato nel nuovo sponsor politico del movimento palestinese, assumendo un ruolo concorrenziale nei confronti dell’Iran. Anche il numero due dell’organizzazione, Musa Abu Marzuk, ha dichiarato dal Cairo che seguirà la linea di Mesh’al e sarà sempre favorevole alla “rivolta” in Siria, proprio mentre era in corso la riunione degli “Amici della Siria” a Tunisi.

Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha acclamato la rivolta contro il regime siriano: “Saluto tutti i popoli della primavera araba. Saluto l’eroico popolo siriano in lotta per la libertà, la democrazia e le riforme”, ha detto di fronte a una folla riunita davanti alla moschea al-Azhar al Cairo, la scuola di teologia sunnita più importante. “No all’Iran, no a Hezbollah, perché la Siria è islamica”, ha risposto la moltitudine con un evidente riferimento alla composizione alawita, e quindi sciita, del governo di Damasco. L’allontanamento di Hamas dal regime siriano non è solamente il risultato di una ricollocazione politica, più pragmatica e “moderata”, rispetto a quella della precedente direzione di Mesh’al. Hamas non ha alcuna intenzione di sostenere “la democrazia e le riforme” in Siria, visto che i capi di Hamas, per molti anni a Damasco, ben protetti, non hanno mai interferito con la politica interna del paese. Hamas ha dovuto prendere una decisione di fronte al conflitto siriano, che assume sempre più le caratteristiche di un conflitto tra settari di varia appartenenza e la maggioranza (sunnita, sciita, alawita, cristiana) della popolazione.

Nelle decisioni di Hamas, ha avuto un ruolo fondamentale anche il Qatar, stretto alleato degli Stati Uniti, che, dopo aver promosso l’intervento della NATO in Libia, ha visto rafforzato il proprio status nella regione. Doha finanzia i Fratelli Mussulmani ed altri movimenti settari in Siria, Egitto, Libia e Tunisia. Hamas – nata nel 1987 grazie ai Fratelli Mussulmani di Gaza – ha compreso che la sua “svolta moderata” godrà di un generoso contributo economico da parte dell’emiro del Qatar.

In tutto questo intreccio politico–militare, quali sarebbero le soluzioni della “crisi siriana” in grado di evitare un totale caos ed il massacro?

Senza dubbio la cosa più importante, in questo momento, è creare una situazione di fiducia per cui la Croce Rossa Internazionale (CICR), la Mezzaluna Araba Siriana e le associazioni umanitarie possano arrivare in tutto il paese, in una situazione di assoluta sicurezza, attraverso “corridoi” creati per la volontà di entrambe le parti, governo e opposizione, per poter assicurare la necessaria assistenza nei luoghi più colpiti e curare la popolazione evacuando i malati più gravi. Creare questi canali o una “zona cuscinetto” attraverso la Turchia o altri paesi circostanti dovrebbe però essere un’opportunità per poter aiutare a livello medico-sanitario la popolazione, non un’occasione per introdursi militarmente nel territorio siriano e dispiegarvisi logisticamente: è per questo che il governo siriano si è fatto sospettoso, e non è facile che accetti una situazione simile, specie di lunga durata. Inoltre non possiamo dimenticare che, come sottolinea l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, una questione molto delicata è quella dei profughi, che dopo molti mesi di conflitto hanno iniziato un esodo di massa, muovendosi verso le frontiere libanesi e turche. La stessa portavoce dell’organizzazione spiega che è stato organizzato un piano ben definito per la Siria (9), specie alle frontiere, per assistere con cibo e aiutare le persone in fuga, ed aggiunge che gli ultimi report contavano approssimativamente più di trentamila rifugiati.

Un’altra missione congiunta dei paesi della Lega Araba correrebbe il rischio di risolversi in un altro fallimento, sia per la disorganizzazione dimostrata in quella precedente, ma anche per la difficoltà di inviare persone in grado di valutare la situazione in maniera neutrale, senza influenze di alcun tipo. Per questo si è pensato a Kofi Annan: una personalità che potesse rappresentare l’ONU e allo stesso tempo la Lega Araba poiché visto come figura estranea da ogni tipo di pressione e interesse. La missione dell’inviato speciale, ex segretario generale delle Nazioni Unite, come osservatore nelle zone di guerra ha come obiettivo ufficiale quello di “fermare il massacro di civili”.

La missione di Annan si è rivelata più dura del previsto e non è facile ristabilire una situazione cosi complessa. Egli stesso ha esortato il governo e l’opposizione a lavorare insieme per una soluzione che rispetti le aspirazioni del popolo siriano per proporre, un poco per volta, un dispiegamento di “Forze di Pace” delle Nazioni Unite. Nelle sue dichiarazioni dal Cairo, dove si trovava in visita prima di viaggiare verso Damasco, Annan ha affermato che “i siriani sono un popolo ritrovatosi intrappolato nel mezzo di un conflitto”.

Così, in questo momento più che mai, vi è il bisogno di trovare una soluzione rapida poiché con la “riconquista” di Bab al-Amru da parte dell’esercito siriano che ritorna a controllare la zona strategica dei ribelli, il rischio di attentati verso i civili e militari, con lo scopo di destabilizzare il paese e creare confusione, è sempre più concreto.

Una soluzione interessante potrebbe essere quella di ottenere il consenso per dispiegare nel Paese forze speciali russe in collaborazione con l’esercito siriano, per aiutare a restaurare l’ordine e la tranquillità. Un’ipotesi questa che, secondo vari osservatori russi (10), potrebbe essere plausibile soprattutto dopo la “riconquista” del Cremlino da parte del presidente Putin. Questa sarebbe un’opzione da considerare perché l’alleanza tra le due nazioni è molto forte e la stima reciproca tra i due governi faciliterebbe la “pacificazione”.

Nelle ultime settimane ci sono stati movimenti nei vari territori confinanti con la Siria, dove secondo l’agenzia americana Nsnbc (11)  gli Stati Uniti hanno consegnato all’Arabia Saudita 84 nuovi Boeing F–15 Fighter con i quali andrà a potenziare significativamente la sua flotta già esistente. Allo stesso tempo, emerge attraverso un report giordano secondo il quale, negli ultimi mesi, un numero imprecisato di truppe statunitensi, ritiratesi dall’Iraq, sono state dispiegate nella base aerea militare giordana e nella zona di al-Mafrag, lungo la frontiera sirio-giordana (12). Notizia confermata anche da fonti vicine all’ex primo ministro giordano Marouf Bakhit, secondo il quale i militari statunitensi si sarebbero stabiliti in una zona cuscinetto vicino al confine nord, situata intorno alle città di al-Mafrag e Ramtha, che si estende approssimativamente per 30 Km di longitudine e 10 Km di profondità.

Come possiamo vedere, mentre si cerca di trovare una soluzione diplomatica al problema, si prende in considerazione anche qualsiasi altra eventualità. Questo, sempre con l’idea chiara che la Siria, militarmente parlando, non è una “preda facile” come la Libia.

L’esercito siriano è sicuramente più forte e organizzato di quello libico. A differenza di quello libico, la sua competenza lo avvicina a eserciti di rilievo come quello turco o iraniano. Arrivare al punto di dover intervenire militarmente sarebbe così un rischio troppo pericoloso per gli occidentali. Senza dimenticare che i costi di un intervento sarebbero troppo onerosi in tempi di “crisi”. E anche con l’appoggio di Israele, che sarebbe con molta probabilità coinvolto in un conflitto, c’è il rischio di perdere completamente il controllo della regione vicino-orientale in caso di mancato successo.

E mentre molti paesi occidentali continuano a lavorare sostenendo che la soluzione migliore per “fermare le violenze” sarebbe una “transizione politica” per “isolare il regime” – tagliando i flussi principali d’introiti e convincendo l’opposizione a unirsi nell’ambito di un piano di transizione che possa lasciare spazio a tutti i siriani di qualsiasi fede ed etnia -, il presidente siriano ripete alla nazione che “la Siria continuerà in maniera determinata a realizzare le riforme e a combattere il terrorismo appoggiato dall’esterno”, denunciando la “cospirazione straniera” contro il paese (13). Il presidente afferma infatti che “il popolo siriano, che in passato ha contrastato con successo le cospirazioni straniere, ancora una volta ha dimostrato la sua capacità di difendere la nazione e costruire una nuova Siria attraverso la determinazione per realizzare le riforme insieme con la lotta contro il terrorismo appoggiato dagli stranieri”.

In tutto questo, l’ipotesi più gradita da tutte le nazioni sarebbe quella d’inviare una “missione di pace ONU” in tutto il territorio, per garantire serenità ed equilibrio, ma per il momento mancano le condizioni per attuare qualcosa di simile.

Gli sforzi fatti dall’inviato speciale Annan sembrano aver avuto sinora un impatto relativamente positivo, dopo l’approvazione del suo Piano di Pace nel corso della II Conferenza degli Amici della Siria celebrata a Istanbul il 31 di marzo, la quale ha riconosciuto il CNS come interlocutore principale per la negoziazione nel paese e l’organizzazione dell’opposizione siriana.

L’ex Segretario delle Nazioni Unite ha dichiarato che, oltre all’appoggio di Russia e Cina, il presidente al-Asad ha accettato le sue condizioni chiedendo garanzie scritte in modo che anche l’opposizione sia costretta a rispettare le condizioni stabilite nel piano. Dopo aver analizzato dettagliatamente la proposta, il presidente siriano  ha deciso di seguire il “piano Annan” con i suoi sei punti chiave: l’apertura di un processo politico che includa le aspirazioni e le preoccupazioni del popolo siriano; la cessazione di ogni tipo di violenza da parte di tutte le fazioni e sotto la stretta sorveglianza delle Nazioni Unite; garanzie per l’accesso agli aiuti umanitari; la liberazione dei prigionieri politici incarcerati; libertà di lavoro per i giornalisti in tutto il paese; il rispetto da parte delle autorità verso qualsiasi associazione e le manifestazioni pacifiche.

Il Piano, che doveva entrare in vigore il 10 di aprile, e che è stato posticipato al 12 aprile, ha incotrato alcuni problemi e di conseguenza non è stato possibile attuarlo. Le violenze, anche se in quantità minore di quelle registrate prima della tregua, non hanno cessato in nessun istante dall’entrata in vigore del cessate il fuoco.

Solo in alcune zone del paese si è notato un lieve cambiamento; in altre, anche se le fonti si contraddicono, gli scontri armati sono aumentati. Secondo il Comitato di Coordinamento Locale dell’opposizione siriana – smentito categoricamente dal governo siriano, che, sebbene informi tramite i suoi canali, non viene assolutamente creduto dai media occidentali – “il regime continua ad uccidere le persone”, molte delle quali nella zona di Idlib, nel confine nord-est con la Turchia, a Daraa nel sud, e bombarderebbe anche la zona di Homs con carri armati ed elicotteri… Inoltre i combattimenti si sarebbero spostati sia verso la frontiera libanese, dove ufficiali libanesi confermano scontri a fuoco tra ribelli ed esercito siriano (14), sia all’interno del Libano con manifestazioni e scontri tra fazioni pro-Asad e gruppi contro il regime.

La Comunità Internazionale ed Annan cercano di operare pressioni sulle due fazioni affinché si rispetti il Piano di pace il prima possibile, sperando di ottenere passi in avanti verso una soluzione stabile. La paura che si tratti di mera retorica è grande e alcuni sostengono l’idea che la relativa pausa – interrotta dalla “strage di Houla” (attribuita a senso unico al governo dai media occidentali e da Aljazeera) – sia stata solo una possibile scusa, sfruttata dall’opposizione, per riarmarsi più e meglio di prima.

La preoccupazione tra i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite davanti alle difficoltà è crescente, soprattutto dopo che i primi membri appartenenti alla “equipe iniziale” di osservatori dispiegata in Siria, dopo aver approvato la risoluzione 2042, ha incotrato molte difficoltà.

Per questo, dopo aver verificato che il governo siriano non ha completato il ripiegamento delle forze militari e delle armi pesanti dalle città, le Nazioni Unite, dopo aver tenuto un colloquio con il governo siriano stesso, il 21 aprile, hanno elaborato e approvato, all’unanimità, una risoluzione che autorizzi l’invio di una missione di 300 osservatori militari disarmati in Siria per comprovare che venga rispettato il cessate il fuoco accordato tra le parti.

Il programma, denominato ufficialmente “Missione di Supervisione delle Nazioni Unite in Siria” (UNSMIS), ha come obiettivo il dispiegamento sul territorio di osservatori internazionali che abbiano accesso a tutto il paese senza restrizioni, per un periodo iniziale di 90 giorni, ed abbiano la libertà di dislocarsi nelle diverse città ed intervistare i cittadini, come prevede la risoluzione 2043 del Consiglio di Sicurezza (15).

Nel frattempo, i primi sei osservatori internazionali, dislocati nel paese a partire dal 16 aprile, hanno ammesso le difficoltà che hanno affrontato perché le violenze non si fermano.

Le reazioni della Comunità Internazionale non si sono fatte aspettare: i Paesi arabi riunitisi a Doha durante il congresso dei ministri degli Affari esteri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, criticano il regime siriano che temporeggerebbe ad applicare il Piano di Pace dell’ONU, minacciando di armare ulteriormente l’opposizione.

La diplomazia occidentale, che continua a programmare nuove riunioni, parla di ostruzionismo e avverte che, se la situazione non cambierà, si dovrà intervenire con la forza.

Molto dura la reazione del capo di Hezbollah. Nella sua prima intervista dopo sei anni, concessa a Julian Assange per la televisione russa “Russia Today” (16), Sayyed Hassan Nasrallah ha invitato l’opposizione siriana al dialogo con il governo siriano, il quale ha sempre appoggiato la causa palestinese. Nasrallah ha avvertito che “l’unica alternativa è la guerra civile, esattamente quello che vogliono gli Stati Uniti e Israele”.

Anche il ministro degli esteri russo Lavrov sostiene che ci sono “Stati che fin dal principio del Piano di Pace di Kofi Annan hanno fatto e stanno facendo molto per far sì che esso fallisca”, e che “gli oppositori armati sono i responsabili per la persistente violenza che finora non ha permesso di adempiere pienamente al Piano di pace”.

Allo stesso tempo, il suo omologo siriano, Walid Muallem, parlando da Pechino con il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi, durante una visita ufficiale, ha dichiarato che il governo siriano rispetterà il Piano di Pace di Kofi Annan: “La Siria – ha aggiunto Yang – lo seguirà impegnandosi nell’attuazione del Piano di Pace”.

Nonostante siano passati ormai molti mesi, le soluzioni al “problema siriano” stentano ad arrivare. Nemmeno la riunione di Chicago della NATO è riuscita a proporre qualcosa di concreto. Solo il presidente turco Gul, invitando i vari Stati a prendere una posizione decisa, ha proposto di aumentare notevolmente il numero degli osservatori per far sì che il piano Annan non fallisca.

Intanto gli scontri rischiano di trascinare anche il Libano in una guerra civile sempre più estesa.

Siamo vicini ad un intervento militare?

Vista la situazione attuale di totale confusione e di continua instabilità, soprattutto a causa degli attentati, la cosa da evitare ora anche se per molti potrebbe essere la “soluzione”, è un ristagno in una logorante guerra civile, la quale devasterebbe la vita dei siriani.

 

Fonte:  traduzione e riadattamento dal sito dell’IEEE, http://www.ieee.es/contenido/noticias/2012/04/DIEEEO34-2012.html

 
 

 

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