Proprio nei giorni in cui stava festeggiando i suoi 150 anni l’Italia è stata trascinata in una guerra di aggressione contro uno stato sovrano membro dell’Onu.
Per di più contro uno stato, la Libia, con il quale aveva recentemente firmato un Trattato di Amicizia nel quale si impegnava a non prestare il territorio italiano per effettuare aggressioni militare contro il proprio partner.
L’Italia ha stracciato questo trattato. Ora si sa cosa vale la sua parola nel mondo. Una macchia di disonore ha infangato la nostra bandiera e non sarà facile lavarla. E si sa anche quanto vale la parola dell’attuale Presidente del Consiglio, e dell’attuale Presidente della Repubblica, che dall’alto della sua funzione di custode della Costituzione ha bellamente aggirato l’Articolo 11.
Perché è evidente a tutti, tranne forse a Napolitano, che l’Italia è in guerra.
Quanto agli interessi dell’Italia, è evidente che stanno da un’altra parte. L’Italia è una nazione euro-mediterranea, ha interesse alla stabilità e alla prosperità dell’intero bacino del Mediterraneo. Ha interesse a interloquire con paesi che, sull’altra sponda, godano delle migliori condizioni di sviluppo economico e sociale e della maggiore stabilità politica. Ha primariamente interesse per stringere rapporti di partnership con i paesi arabi e islamici produttori di materie prime di cui la nostra penisola scarseggia. L’Italia e i paesi come la Libia sono perfettamente complementari e sono destinati a raggiungere la più stretta integrazione possibile su un piede di parità e rispetto reciproco.
Il rapporto stabilito con la Libia di Gheddafi rispondeva al nostro interesse nazionale. La situazione attuale no. Non corrispondeva all’interesse dell’Italia accettare la destabilizzazione del nostro partner all’inizio della crisi, né tantomeno schierarsi contro la Libia sperando che il nostro servilismo ci procurasse almeno le briciole sulle fumanti macerie di una nazione devastata dai bombardamenti, dopo.
L’attuale centrosinistra ha addirittura sostenuto che l’Italia è intervenuta tardi. Casomai dalla parte sbagliata, potremmo aggiungere! A nulla serve la tragicomica richiesta dell’ultima ora di “rispettare gli interessi italiani” da parte di un governo che non ha avuto gli attributi di reagire per tempo all’evolvere della situazione prendendo una posizione netta. Ora i buoi sono fuori dalla stalla e la Libia deve morire, così ha deciso il premio Nobel per la pace Barak Obama. Gli interessi degli Usa e della Gran Bretagna, anche in questo caso, stanno da una parte e quelli dell’Italia da un’altra. La Libia rende evidente questo semplice fatto.
Se l’America ha lasciato il pallino in mano (ma fino a che punto?) alla Francia e all’Inghilterra è solamente per le forti resistenze che i politici hanno trovato negli apparati militari, piuttosto restii a imbarcarsi in un’altra avventura che aumenterebbe la sovraesposizione degli Stati Uniti dopo l’Afghanistan e l’Iraq. La soluzione ideale per loro sarebbe stata la vittoria dei ribelli. Ma l’avanzata dei rivoltosi, tanto reclamizzata dai media che facevano apparire questione di ore la caduta del regime di Gheddafi, si è rivelata un flop.
La controffensiva delle forze governative stava invece avendo la meglio. A quel punto gli anglo-americani erano andati troppo in là nel loro avventurismo, non potevano assistere a un’altra Baia dei Porci. Quindi hanno chiesto aiuto alla Francia di Sarkozy, l’americano a Parigi da tempo impegnato a liquidare l’eredità gollista. E questi è stato ben contento di aiutarli, in stretta sintonia con gli inglesi. Questa dinamica rivela sia la forza che resta agli Usa, lanciati in un grande piano di destabilizzazione di un paese che figurava sulla loro lista nera da tempo, sia la loro debolezza, visto che hanno dovuto cercare la collaborazione delle due Potenze europee, le stesse che aggredirono proditoriamente l’Egitto nel 1956, durante la crisi di Suez.
Resta comunque evidente che il potenziale distruttivo messo in campo dagli Stati Uniti non ha eguali. Devono ancora affiancarsi all’imponente forza schierata altri mezzi di assalto anfibio, non certo concepiti per scopi umanitari. Senza contare che la regia dell’assalto alla Libia è gestita dall’Africom, il comando Usa per lo scacchiere africano.
L’Italia a questo punto era già fuori gioco. Il governo ha nicchiato quando una chiara presa di posizione da parte nostra avrebbe potuto avere un certo peso. Proprio perché gli Usa avevano problemi ad intervenire in prima persona sin da subito era scontato che le basi del nostro paese avrebbero avuto un particolare ruolo in un’eventuale azione militare contro la Libia. E’ necessario sottolineare che nulla obbligava l’Italia a metterle a disposizione per una guerra d’aggressione che non corrisponde né ai nostri valori, né ai nostri interessi e nemmeno alla carta e allo spirito delle Nazioni Unite. All’epoca dell’invasione dell’Iraq nel 2003 la Turchia rifiutò l’uso delle sue basi.
Invece l’Italia ha agito nel solito solco della sudditanza atlantica, anzi ha pure chiesto la tutela della Nato contro l’invadenza francese, evidentemente non comprendendo bene le reciprocità in gioco nella vicenda. In ogni caso, qualsiasi sia l’evoluzione della crisi, l’Italia ha già perso. Non ha protetto, nemmeno nel senso più gretto, né i suoi investimenti né i suoi interessi.
Non si è mossa per evitare l’internazionalizzazione del conflitto; non ha nemmeno tentato di puntare i piedi per prendere tempo proprio mentre la crisi si stava spegnendo; non ha saputo rilanciare le proposte di trattative diplomatiche provenienti dal Sudamerica.
Sbigottita, ondivaga, esitante, confusa. Ha finito per fare il peggio che poteva accodandosi a un intervento che è contro la Libia e il popolo libico ma che è anche, per le conseguenze che avrà, contro sé stessa.
E’ inoltre importante sottolineare che l’attuale intervento non è sotto l’ombrello ONU, perché il Consiglio di sicurezza ha votato una risoluzione di imposizione del non-sorvolo senza alcun particolare tecnico per farlo valere ma soprattutto contro lo spirito e la carta delle stesse Nazioni Unite. La Libia non era in guerra con nessuno né minacciava di farla. Per definizione uno stato non attacca sé stesso, quindi la sua sovranità (il bene più sacro) deve essere garantita. Le Nazioni Unite riconoscono il problema dell’aggressione e non si devono ingerire nelle vicende interne di un paese membro. La risoluzione è dunque illegittima ed è stata approvata solo grazie alla forza di ricatto di cui dispone la coalizione degli aggressori anglo-franco-americana.
Gli italiani possono farsi un’idea di quello che è passato al Palazzo di Vetro guardando alle tante leggi anticostituzionali fatte approvare negli ultimi 20 anni. Sono legali ma non legittime. La loro forza consiste nel fatto di essere state votate anche se non dovrebbero esistere in quanto in contraddizione con la Carta suprema alla quale dovrebbero riferirsi. Ma mentre la sinistra sinistrata italiana ha tenuto gli occhi aperti su ogni gesto di Berlusconi, ha finito con il perdere la vista sulla vicenda libica. Come è stato possibile?
L’opinione pubblica si è dimostrata ancora una volta sensibile alle frottole della propaganda mass-mediatica. Impressionata da inesistenti fosse comuni e da improbabili bombardamenti sulla popolazione civile, smentiti ma spacciati per fatti inoppugnabili, si è lasciata tirare per il naso fino ad accettare come male minore l’intervento militare occidentale che, paradosso solo apparente, finirà davvero per produrre tutti i crimini di cui è stato un po’ troppo frettolosamente accusato Gheddafi. Ma è noto che gli Usa sono maestri nel’arte di accusare gli altri dei propri stessi crimini. Fosse la prima volta si sarebbe anche potuta comprendere tanta credulità, ma dopo il Kosovo e l’Iraq…!
Come scriveva Messali Hadj a proposito della guerra d’Algeria: “gli avvenimenti attuali hanno scatenato il colonialismo. La stampa, a suo gusto, presenta il problema […] a modo suo […] ed evita scrupolosamente di cercare le cause degli avvenimenti, non sa che spingere allo sbigottimento e suscitare l’indignazione”.
Il problema è che coloro che sono subalterni nella (in)capacità di leggere gli eventi internazionali non possono rappresentare alcuna alternativa. La sinistra sinistrata vede ciò che vorrebbe esistesse: una grande sollevazione democratica del popolo libico contro il tiranno. Ma non vede ciò che accade in realtà: la ribellione armata di intere tribù e la defezioni di interi apparati militari che hanno precipitato il paese più avanzato e prospero dell’Africa nell’abisso della guerra civile. Molti elementi lasciano intendere che questa sollevazione era stata preparata con cura. Dato che il contesto è la guerra civile i morti non possono essere messi solo sul conto del governo libico.
Coloro che vengono dipinti come inermi cittadini vittime della repressione mostrano alle telecamere il gesto poco rassicurante dei tagliagole. Non aprono un nuovo capitolo nelle presunte “rivoluzioni” del mondo arabo ma chiudono quello della rivoluzione libica del ’69, che tra luci ed ombre qualcosa aveva pure realizzato. I rivoltosi dietro le bandiere di re Idris aprono il capitolo della reazione nel mondo arabo, reclamizzati dalle televisioni degli emirati del Golfo che subito dopo iniziano il bagno di sangue in Bahrein nell’indifferenza più totale della sinistra filo-occidentale nostrana.
Ma il giudizio su Gheddafi non è l’argomento forte della crisi libica. Né un buon punto di partenza per trattarla. Qualsiasi giudizio si dia sul vecchio colonnello è evidente il contesto in cui è precipitata la crisi: una guerra civile nella quale si sono ingerite le Potenze occidentali. Sempre dando per scontato che la stessa sedizione della Cirenaica non sia stata aizzata ad arte. Perché la crisi libica si è configurata da subito come una insurrezione violenta e armata. Nel momento in cui una Potenza imperialista aggredisce un paese del sud del mondo che non costituisce una minaccia per nessuno è evidente che non lo fa per chiedere il rispetto di quei dritti che lei è la prima a violare sistematicamente. Lo fa per interesse. Occorre chiedersi allora quali dinamiche si innescano, quali conseguenze si producono. Se ci si limita a giudicare Gheddafi, dando per scontato che sia il mostro dipinto dai media, perché dare torto a Mussolini quando ha ordinato l’invasione dell’Etiopia schiavista di Hailé Selassié?
Ho già avuto modo di scrivere all’inizio della crisi che il problema adesso attiene alle prospettive:
“La Libia del dopo Gheddafi avrà di fronte a sé due prospettive, entrambe terribili. La prima è diventare uno “stato fallito” implodendo in una guerra civile perpetua tra le sue tribù e tra le bande armate che ormai, si dice, abbiano il controllo di interi villaggi. Altro che democrazia in questo caso: ciò che si vede all’orizzonte è una Somalia nel cuore del Mediterraneo. Un caos nel quale scomparirà qualsiasi ombra di società civile, di strutture sanitarie, qualsiasi forma di istruzione. Oppure la Libia tornerà ad essere ciò che era prima di Gheddafi: una provinciale colonia degli anglo-americani: una vacca da cui mungere petrolio e da sfruttare, per lasciare le briciole ad una ristretta élite di parassiti e traditori del proprio popolo, come erano Ben Alì e Mubarak. Come era re Idris. Come sono gli oppositori libici all’attuale regime che vengono coccolati dagli Usa. Se, invece, questa operazione di normalizzazione non dovesse funzionare ciò che attende i libici è l’inferno irakeno” .
Qualsiasi sbocco avrà la crisi libica è evidente che sarà in ogni caso devastante, sia per il popolo libico che per quello italiano. Nel votare l’intervento i nostri parlamentari hanno dimostrato tutto, fuorché responsabilità. L’intervento aumenterà esponenzialmente il numero dei morti e ha di fatto ravvivato la fiamma di un conflitto che si stava spegnendo.
Le questioni politiche non possono essere trattate in modo astratto. Occorre tenere conto del contesto concreto nel quale si collocano, chiedersi che ricadute potranno avere certe scelte. E’ chiaro che si tratta di mettere le mani sulla Libia e sulle sue ricchezze mettendo a tacere un paese non certo asservito all’Occidente e ponendo la testa di ponte per l’assoggettamento del continente africano da parte degli Usa. In un contesto di spietata corsa al controllo delle principali riserve di idrocarburi e materie prime Washington aveva iniziato a guardare con estremo interesse al continente nero da diverso tempo. Può suggerire qualcosa il fatto che il documento che pone ufficialmente le risorse africane nel mirino statunitense sia stato nominato “Cheney Report”, cioè che sia stato chiamato col nome del vice di Bush Jr?
Con il colpo contro la Libia gli Usa possono aggiungere un altro tassello all’accerchiamento dell’Europa e un altro scalpo alla loro collezione, per il controllo delle fonti energetiche. Un altro passo sulla strada dell’egemonia planetaria.
Se qualcuno avesse dei dubbi il colpo ricevuto dagli interessi italiani in questa crisi dovrebbe rivelare quale è il posto dell’Italia nel nuovo ordine voluto dalle democrazie occidentali: nessuno!
1. S. A. Puttini, La crisi libica e i suoi sciacalli; www.eurasia-rivista.org
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