Mosca – Quarto giorno di macelleria interetnica anti-uzbeka nel sud del Kyrgyzstan. I dati ufficiali attestano 117 morti ma i messaggi diffusi via internet dalla comunità uzbeka parlano di centinaia di più. Tutti i resoconti parlano di strade disseminate di cadaveri nella seconda città del paese Osh, e da ieri anche nei centri di Djalalabad Si susseguono gli appelli. Ad una comunità internazionale che, forse troppo presa dall’apertura dei mondiali, appare impotente a reagire. Ed ai vicini, soprattutto l’Uzbekistan, verso la cui frontiera, a migliaia, principalmente donne e bambini, si sono ammassati le vittime del pogrom in corso. Il Presidente uzbeko, I. Karimov, per anni aborrito quale sanguinario tiranno (nel 2005 nella vicina città d’Andijian Karimov fece sparare sulla folla provocando un’ondata di rifugiati nella direzione opposta a quella odierna) appare ora quale un’ancora di salvezza.
Lo scorso aprile, il secondo collasso del paese in cinque anni ha riaperto in modo fatale la frattura inter-etnica fra che da sempre divide la sua parte meridionale: nomadi (sedentarizzati) kirghizi ed i rappresentanti del mondo urbano “islamizzato”, uzbeki, quest’ultimi circa 800.000, un quinto della popolazione kirghistana.
La faida in corso è un dejà vu. Nel 1990, ai primi segni del collasso dell’URSS fra uzbeki e kirghizi scoppiarono violente faide che provocarono qualche migliaio di morti. Ma a quel tempo l’esercito sovietico era ancora una realtà e riuscì ad interporsi ed arginare la faida
Allora come oggi, le animosità inter-etniche non spiegano interamente lo scoppio di una tale inaudita violenza. Fra il 2005 ed il 2007 ho vissuto ad Osh e non mai incontrato, nemmeno una volta, una manifestazione pubblica di odio interetnico. Con ogni probabilità, la spirale di morte è stata innescata da gruppi facenti riferimento al deposto presidente K. Bakiev i quali dispongono ancora delle risorse accumulate in cinque anni di rapina della cosa pubblica e piuttosto che perderle a vantaggio della nuova élite preferiscono giocare la carta del caos. Inoltre, va tenuto presente che il sud del Kirghizstan costituisce uno dei principali corridoi del narcotraffico proveniente dall’Afghanistan, per il quale la situazione di caos costituisce un’opportunità insperata – d’altronde è cosa assodata che membri del clan Bakiev fossero direttamente collegati ai narco-baroni.
Le autorità emerse dal crollo del regime ad aprile hanno ammesso sabato la loro impotenza a controllare la situazione. Esito obbligato l’appello alla Russia, che in Kyrgyzstan dispone di una base area e dal 2001 conduce un braccio di ferro con gli USA per il controllo del Centro Asia. Gli eventi mettono Mosca di fronte ad una situazione particolarmente delicata. Da un lato, di fronte alle intromissioni occidentali, Mosca vuole affermarsi quale garante esclusivo della sicurezza dello spazio post-sovietico. Dall’altro, in un contesto di gradimento calante, il tandem Medvedev-Putin non si arrischia ad implicarsi massicciamente in una situazione da dove sarà poi molto difficile uscire. Dopo esitazioni e smentite, domenica un battaglione della 31 Brigata paracadutisti è stato dislocato nella base di Kant, nel nord, ufficialmente per il solo rafforzamento delle difese della base. La situazione evidenzia la mancanza russa di risorse umane ed intellettuali per far fronte a simili crisi le quali mostrano inoltre il carattere effimero dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva della CSI (OTSC, sorta di ‘mini-NATO’ formata su insistenza russa da Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, oltre ad Armenia e Bielorussia), la quale resta inattiva in mancanza di basi legali e di chiare regole d’ingaggio.
In definitiva la crisi segna un momento decisivo. Oltre a porre fine al modello di convivenza interetnico di una regione potenzialmente ancora più esplosiva dei Balcani, essa mostra il fallimento definitivo della sfida dell’indipendenza con cui, oltre al Kyrgyzstan, si confrontano un numero di soggetti post-sovietici emersi mutilati nel tracciato delle frontiere deciso dall’URSS negli anni 20-30.
Senza un deciso intervento russo il paese potrebbe scomparire dalla carta dell’Eurasia con conseguenze di ampia portata per l’intera geopolitica della regione.
Fabrizio Vilemini, ricercatore associato presso l’ISPI – Istituto Studi di Politica Internazionale – è esperto di Caucaso e Asia centrale. Un suo saggio (La presenza militare USA in Asia Centrale ) è stato pubblicato in Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici (nr. 3/2005, pp. 39-54)
Si ringrazia l’autore per aver concesso la pubblicazione di questo articolo, apparso ne “il manifesto”del 15 giugno 2010
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