Le recenti notizie riportate dai media hanno messo ancora una volta in luce i difficili rapporti tra l’Afghanistan e la comunità internazionale. Il caso Emergency e il ritiro statunitense dalla provincia di Korengal sono due fatti che testimoniano una situazione divenuta ingovernabile e sono un riflesso dell’instabilità interna al Paese.

Partiamo dalla vicenda che ha coinvolto la nota organizzazione Emergency: lo scorso 10 aprile i servizi segreti afghani hanno arrestato e successivamente rilasciato tre operatori italiani della Ong, che lavoravano presso l’ospedale di Lashkar Gah, con l’accusa di detenzione di armi e coinvolgimento in un complotto ai danni del governatore della provincia di Helmand, Gulab Mangal. Si tratta di un episodio che ha rischiato di minare la reputazione dell’organizzazione e la sua missione umanitaria, e che rappresenta una prova dell’ostilità del governo afghano nei confronti di un’organizzazione, come Emergency, presente in Afghanistan dal 1999, che svolge il suo compito di assistenza sanitaria a tutti coloro che ne hanno bisogno, inclusi quindi anche i militanti talibani; Emergency è inoltre testimone diretto della guerra, della quale denuncia continuamente gli orrori. Una chiave di lettura dei fatti potrebbe dunque essere il tentativo del presidente Karzai di estromettere l’Ong italiana per controllare direttamente il rapporto con la guerriglia. D’altra parte, non è una novità l’avversione del presidente afghano nei confronti di Emergency; basti ricordare il caso del sequestro, nel 2007, del giornalista Daniele Mastrogiacomo, quando la polizia afghana aveva arrestato il direttore dell’ospedale di Lashkar Gah di Emergency, Rahmatullah Hanefi, accusato ingiustamente di aver collaborato con i sequestratori talibani.

Inoltre, il presunto coinvolgimento delle truppe ISAF durante il raid nell’ospedale, dove sono stati fermati i tre italiani, ha posto il problema del ruolo dell’Italia nella coalizione; si tratta di un particolare di non poco conto, dal momento che il contingente italiano è parte integrante della missione ISAF e continua ad esservi impegnato con tremila uomini. Sebbene i tre operatori siano stati liberati, vi sono ancora molti dubbi sul ruolo svolto dal governo italiano e dalla sua diplomazia: essi, infatti, non hanno chiesto alcun chiarimento né al governo afghano, né ai comandi ISAF, che non li aveva avvertiti dell’irruzione nell’ospedale, limitandosi a monitorare la situazione.

L’incidente è avvenuto nella provincia di Helmand, una delle roccaforti talibane nel sud dell’Afghanistan. Qui si concentra la produzione d’oppio: 70 mila dei 165 mila ettari di terreno coltivati ad oppio in tutto il territorio afghano si trovano qui; la provincia, inoltre, è responsabile del 42% della produzione globale che alimenta il 90% del mercato mondiale di eroina.

E dato che l’oppio è fondamentale per il rifornimento di armi, Helmand è considerata l’Eldorado talibano. Data la sua conformazione geografica, la provincia è fondamentale anche per infiltrare uomini e armi dal Pakistan. Dal 2006 vi operano le forze armate britanniche facenti capo alla missione atlantica ISAF, le quali quotidianamente si scontrano con i rivoltosi talibani. Nel 2009, 8500 marines sono stati inviati a presidiare la provincia a fianco delle truppe britanniche, in seguito alla decisione del presidente nordamericano Barak Obama di aumentare di 30000 unità le truppe statunitensi presenti in Afghanistan. Helmand è una delle zone più violente del paese; agli inizi di febbraio la cittadina di Marjah è stata il bersaglio di un’importante offensiva delle truppe Nato, che sono intervenute con lo scopo di ottenere il sostegno della popolazione locale ed insediare una stabile amministrazione afghana.

In sintonia con questo nuovo modello di guerra, vi è anche la nuova strategia statunitense di concentrare le truppe nei centri a maggiore densità di popolazione. Questo obiettivo ha condotto il generale delle forze Usa Stanley McChrystal al ritiro del contingente americano da uno degli avamposti più importanti, la valle di Korengal, nella provincia di Kunar. Ma l’abbandono dell’area non rappresenta altro che una vittoria per i Taliban, che ora possono utilizzare la base nella provincia per lanciare attacchi ed estendere il loro potere nel territorio. Si tratta di un’area montuosa, corridoio naturale di collegamento con il Pakistan, un’area strategica per il controllo militare e per la sicurezza del Paese. Questa valle ha registrato violenti scontri che, dall’inizio dell’occupazione nordamericana nel 2005 fino ad oggi, hanno provocato la morte di 42 militari e centinaia di feriti statunitensi, tanto che è stata soprannominata la Valle della Morte. Il ritiro delle forze armate statunitensi dalla valle di Korengal sarà seguita da un’importante offensiva militare, che avrà inizio a giugno e che vedrà l’introduzione di truppe Nato a Kandahar e nelle aree circostanti, nel tentativo di garantire la sicurezza della popolazione civile e frenare il controllo dei Taliban in quella zona. Non sarà un’operazione agevole, dal momento che il presidente Karzai, durante la shura (il consiglio degli anziani) dello scorso 4 aprile, ha annunciato che, senza il consenso dei capi tribali, non permetterà la preannunciata operazione militare per sottrarre la provincia al controllo dei militanti. Essi sono, tra l’altro, molto critici verso il suo governo per la diffusione della corruzione e del nepotismo e per il deterioramento della sicurezza.

Tutto ciò costituisce il sintomo di un conflitto senza fine. L’Afghanistan è afflitto non solo dal problema di una guerra che provoca quotidianamente la perdita di numerose vite umane, sia tra i militari sia tra i civili, ma anche da numerose altre ingiustizie, dalla corruzione, al traffico di droga, al malgoverno.

Una delle maggiori cause del caos interno è la debolezza del governo Karzai. In occasione della recente visita in Afghanistan, il presidente statunitense Obama ha reclamato la lentezza con cui il governo di Kabul sta contrastando la corruzione e il narcotraffico. Gli Stati Uniti chiedono progressi sul fronte civile nel campo del buon governo, del rispetto della legge, della lotta alla corruzione, attraverso norme più rigide; chiedono, inoltre, che il governo afghano stabilisca delle linee guida all’approccio da seguire per convincere i militanti a rinunciare alla lotta armata. Nel mondo occidentale ci si è chiesti se è possibile fidarsi ancora di Karzai per ottenere la stabilizzazione dell’Afghanistan. Preoccupazioni ed incertezze sulla sua credibilità politica sono state manifestate più volte in passato, soprattutto in occasione delle elezioni dello scorso anno, caratterizzate da frodi elettorali che gli osservatori internazionali avevano attribuito soprattutto ai settori vicini al presidente. Dal canto suo, Karzai ha accusato gli Stati Uniti di aver manipolato le elezioni, minacciando perfino di appoggiare l’insurrezione contro le forze straniere.

Certamente in questo clima di tensione aumentano gli ostacoli per la soluzione dei problemi. I media vedono questi atteggiamenti critici del presidente afghano nei confronti degli alleati occidentali come segnali della frustrazione di un dirigente per le serie difficoltà che sta incontrando nel governo del paese. Quelli favorevoli a Karzai evidenziano il suo impegno per rafforzare i poteri presidenziali in modo da controllare il processo consultivo ed impedire nuovi brogli alle prossime elezioni politiche; quelli contrari sostengono che la resistenza del presidente afghano alle pressioni occidentali per una lotta risoluta alla corruzione sia dovuta al fatto che membri della sua famiglia vi sarebbero coinvolti: secondo voci che provengono da più parti, il fratello Ahmed Wali Karzai sarebbe implicato nel narcotraffico, in intrighi segreti e nella manipolazione elettorale.

I rapporti tra Washington e Kabul si erano incrinati già al momento dell’insediamento di Barak Obama alla Casa Bianca. A differenza dell’amministrazione precedente, il nuovo presidente nordamericano sostiene la necessità di un atteggiamento maggiormente distaccato nei confronti di Karzai, almeno fino a quando questi non affronterà adeguatamente la diffusione della corruzione. Secondo la strategia nordamericana, la dirigenza afghana deve essere in grado di esercitare la propria sovranità per giungere ad un Afghanistan sicuro e autosufficiente nella lotta al terrorismo. Ma Karzai evita ancora di assumersi le responsabilità che gli derivano dal suo potere, sia in tema di difesa nazionale, sia di sviluppo e di governabilità.

La debolezza di Karzai ha comportato il distacco della popolazione dalle istituzioni che, nel corso degli anni, non hanno saputo rispondere alle loro esigenze. Per il rilancio del paese, infatti, è necessario creare nuove opportunità di lavoro ed estendere gli spazi di libertà individuale e collettiva. La lotta al terrorismo è anche la lotta per garantire a tutti i cittadini, sia uomini sia donne, di fruire dei propri diritti. Quelli più colpiti sono la libertà di espressione, spesso attaccata sia da esponenti dello Stato sia da gruppi antigovernativi e criminali, ma anche la libertà di istruzione, sopratutto femminile, ostacolata dai talibani. È di qualche giorno fa la notizia di un attacco talibano ad una scuola femminile, durante il quale 50 bambine sono rimaste intossicate dallo sprigionamento di un gas; questo è soltanto uno degli innumerevoli casi di violazione dei diritti delle donne. Nonostante i successi ottenuti in seguito alla caduta del regime talibano nel 2001, la condizione femminile in Afghanistan rimane alquanto difficile. Anche se sono uscite dal “oscurantismo” imposto loro dai talibani, le donne sono quotidianamente vittime di violenze familiari e abusi sessuali, spesso all’origine dei suicidi.

Dunque, se il governo riottenesse l’appoggio popolare, ai talibani verrebbe tolta la possibilità di sfruttare il malcontento del popolo per alimentare la lotta armata. Malgrado le promesse fatte in occasione del discorso di insediamento per l’inizio del suo nuovo mandato, Karzai ha continuato a governare senza una decisa volontà politica di affrontare i problemi del paese. Problemi che sono stati presentati anche in occasione della Conferenza di Londra sull’Afghanistan, organizzata lo scorso 28 gennaio, durante la quale è stato presentato un piano di pace con due obiettivi principali: da una parte, incoraggiare i militanti talibani ad abbandonare la lotta armata e, dall’altra, creare le condizioni per un dialogo strategico con i gruppi anti-governativi.

Il governo deve, inoltre, intervenire sul piano dello sviluppo economico: nonostante i piccoli segnali di miglioramento riscontrati nella seconda metà del 2009, con l’aumento delle entrate e del PIL nazionale, che è cresciuto del 7%, la popolazione non ha visto cambiamenti nel suo tenore di vita. E’ compito del governo e della comunità internazionale attuare politiche di cui possano beneficiare gli strati più emarginati della popolazione; la povertà spesso spinge molti giovani ad avvicinarsi ai talibani, accettando le loro offerte di denaro in cambio di un impegno nella lotta contro le forze governative e straniere.

Di fronte alla precarietà della situazione, la dirigenza afghana e la comunità internazionale devono superare le reciproche divergenze e collaborare per la stabilizzazione e lo sviluppo economico e sociale del Paese. Il presidente afghano, aldilà dei limiti del suo progetto politico e delle gravi carenze della sua azione di governo, è riuscito a tenere finora unito il paese, attraverso un atteggiamento fermo e coerente nella lotta al terrorismo e al fondamentalismo islamico.

Non servono più le parole, ma i fatti. La popolazione afghana non ha bisogno di una guida debole, ma di un presidente in grado di far uscire il suo paese da una crisi economica, politica, sociale e soprattutto morale.

* Silvia Bianchi è dottoressa in Editoria e giornalismo (LUMSA di Roma)

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