Il recente share swap tra la compagnia petrolifera russa Rosneft e la “nota inquinatrice” britannica British Petroleum – ai più nota semplicemente come BP – non va inquadrato esclusivamente come un mero accordo economico, in quanto trattasi di un evento dai risvolti politici potenzialmente imprevedibili.
Prima di tutto è consigliabile inquadrare i fatti: il 15 gennaio 2011 vede i dirigenti di BP annunciare con fierezza uno scambio azionario con la compagnia petrolifera di stato russa Rosneft, tramite il quale i primi ottengono il controllo del 9,2% dei secondi, che a loro volta mettono le mani sul 5% della compagnia britannica. Dopo il tentativo fallito nel 2008 da parte di Gazprom di entrare in BP, è la seconda compagnia energetica russa a mettere a segno l’ennesimo colpo importante sul mercato internazionale dell’energia. Rosneft diviene così il primo azionista della British Petroleum. È stato anche annunciato il primo grande obiettivo comune, che consiste in una serie di trivellazioni congiunte che saranno svolte a partire dal 2015 nella zona russa dell’Artico, verso uno dei bacini di petrolio ancora intonsi più grande al mondo.
Delineiamo dunque due principali direttive lungo le quali osservare l’evento in questione:
– quella dei rapporti interni alla Russia a livello economico (la supremazia tra Gazprom e l’arrembante Rosneft) ed i relativi interessi politici;
– quella delle conseguenze indirette dell’acquisizione in tema di equilibri internazionali e rapporti con gli Stati Uniti, sapendo che la BP è il primo fornitore dell’Esercito a stelle e strisce.
È interessante innanzitutto rendersi conto delle origini della Rosneft, onde capirne la collocazione nel sistema di potere russo. Trattasi dell’evoluzione della compagnia di stato derivata dal Ministero del Petrolio e del Gas di memoria sovietica, convertita poi in JSC nel 1995. La compagnia non nasceva sotto i migliori auspici, sopravvivendo come un’impresa poggiante su strutture obsolete ed incapaci di opporsi, già sul territorio nazionale, a concorrenti ben più performanti come la cara vecchia e soprattutto defunta Jukos. Sotto la direzione di Sergej Bogdančikov dal 1998, la Rosneft non raggiunse mai l’obiettivo di privatizzarsi in maniera efficace: riuscì però ad uscire dalle cattive acque degli esordi, in particolare grazie a due potenziamenti della produzione, nel 2000 e nel 2004. Proprio quell’anno andava profilandosi una svolta tanto importante quanto sfavorevole per la compagnia, ossia la sua incorporazione da parte del colosso Gazprom, già all’epoca diretto da Aleksej Miller. L’operazione fu spinta al naufragio dallo stesso Bogdančikov, che non la vedeva di buon occhio: un simile assetto societario l’avrebbe messo in posizione subordinata rispetto a Miller, non solo nell’ambito delle decisioni strettamente aziendali, ma anche in quello delle possibilità di scalata nell’establishment economico-politico della Russia putiniana. Mentre nella direzione della Rosneft entrava Igor Sečin [nella foto assieme a V. Putin] – vice capo dello staff presidenziale – le pressioni all’indipendenza della compagnia diedero presto i loro frutti, grazie anche alla serie di vittorie nelle aste per acquistare gli assets della Jukos, in fase di smantellamento. Nonostante le reazioni negative provenienti anche dagli ambienti di governo (il consigliere economico di Putin Andrej Illarionov definì queste acquisizioni come la “truffa dell’anno”) e l’accollarsi dei debiti della stessa Jukos, la Rosneft riuscì a moltiplicare produzione e fatturato, riuscendo ad espandersi con successo sul territorio cinese. Nel 2006, il primo “incontro ravvicinato del terzo tipo” con la BP: i russi lanciarono una delle OPA più grandi della storia, con il 15% delle azioni lanciate sia a Mosca sia a Londra, e la compagnia britannica ne acquisì l’1,2%.
Se si trattò dell’inizio dell’ascesa della Rosneft sul piano internazionale e del suo primo contatto approfondito con la BP, non si trattava certo della prima escursione dei secondi sul territorio russo. La British Petroleum, infatti, per espandere il suo mercato – nonché per dare nuovo ossigeno alla sua sempre disastrata situazione di bilancio – si era lanciata già dalla seconda metà degli anni ’90 nel mercato delle risorse russe. Dopo alcuni anni di affari di media portata, il risultato più redditizio fu la fondazione nel 2003 della TNK-BP, joint venture al 50/50 con la compagnia russa TNK, controllata da un gruppo di oligarchi della vecchia guardia eltsiniana attraverso la AAR (holding basata sul gruppo bancario ed energetico Alfa). La convivenza non è mai stata delle migliori, con una serie di reciproche accuse su eventuali pratiche predatorie per il controllo definitivo della società. Grande peso in queste dispute avevano i diritti di sfruttamento dei giacimenti sia petroliferi sia di gas: il picco fu raggiunto nel 2007, quando la TNK-BP doveva chiudere un accordo con sua maestà Gazprom per il controllo del giacimento di gas di Kovykta volto ad un memorandum d’intesa per una cooperazione futura. L’idea era la seguente: la TNK-BP, già proprietaria del giacimento, ne avrebbe ceduto il 62,89% a Gazprom, in cambio della possibilità di entrare in una nuova joint venture con Gazprom stessa più il 25% delle licenze di sfruttamento una volta avviati i processi di estrazione. Il tutto condito dal sospetto della presenza di pressioni governative: il “no” all’accordo avrebbe potuto significare l’espulsione dei britannici dal territorio russo. Nonostante l’ostentazione di sicurezza e soddisfazione provenienti non solo da Vladimir Putin, ma anche dal CEO della BP, l’accordo non andò a buon fine. Già dal 2008 la TNK-BP venne subissata da numerose richieste di acquisto da parte di Gazprom per grandi quote societarie nella parte britannica: trattavasi di un’azione coordinata da dietro le quinte da parte di Gazprom e AAR per portare interamente sotto controllo russo la TNK-BP. Una tale mossa avrebbe portato sotto controllo governativo una compagnia considerata straniera dalla Russia, ed allo stesso tempo avrebbe indebolito fortemente la BP, togliendole una fonte fondamentale di output (nel 2007, la TNK-BP rappresentava il 24% della produzione ed il 19% delle riserve totali). I britannici respinsero al mittente ogni tipo di offerta, mentre durante tutto il 2008 la AAR continuava a cercare di colpire la BP sul controllo della joint venture tramite una serie di denunce riguardo comportamenti lesivi della legislazione vigente in Russia: la BP rispose con delle controdenunce, in particolare in tema di tasse. La bagarre apparentemente si chiuse a fine 2008, con un memorandum che di fatto sanciva lo status quo. Mentre i rapporti con Gazprom erano stati congelati, faceva capolino la figura di Igor Sečin, che iniziò ad intrattenere una serie di colloqui informali con la dirigenza sia della BP che della TNK-BP. Dopo un 2009 relativamente tranquillo, ai primi del 2010 la Gazprom non solo rinunciò alle proprie mire sulla TNK-BP, ma addirittura ritirò l’offerta per Kovytka, lasciando i britannici a godersi un sito di estrazione non sviluppato ad est ed una ben nota marea nera ad ovest. Il resto è notizia recente: dopo alcuni incontri pubblici, ad inizio anno la BP ha reso noto alle masse questo nuovo inizio di collaborazione con la Rosneft. Una grande vittoria per Igor Sečin, uomo di Putin al 100%, un fiasco per l’entourage di Miller, Šmatko e soprattutto Medvedev. Ci sono due commenti da fare all’evento, una volta rammentati i retroscena di cui sopra. Al livello delle imprese, esso è importante perché la Rosneft è riuscita a piazzare un’intesa miliardaria senza – almeno per quanto sappiamo – utilizzare mezzi illeciti, pressioni governative o pratiche predatorie. Ha dato un’iniezione di credibilità al sistema di imprese russo, ed è stata l’occasione per mostrare che la Gazprom non è imbattibile. Inoltre vengono fatti dei passi avanti nei cambiamenti degli assetti interni alla Russia. La Rosneft consolida la posizione di terza compagnia del paese, ed indirettamente rafforza quella dei suoi manager. Ed eccoci al secondo commento: in un’economia trainata dal settore energetico come quella della Russia, i ruoli del potere governativo sono intercambiabili con quelli del potere “energetico”. Il direttivo di Gazprom è formato quasi esclusivamente da (vice)Ministri, ex-Ministri e membri di gabinetto, mentre quello di Rosneft vede il solo Sečin con un posto d’onore al Cremlino. La “staffetta” tra Gazprom e Rosneft ha mostrato una politica russa stile anni ’90 (guidata tanto da uomini di governo che oligarchi) ottenere pochi risultati ed una grande perdita di immagine internazionale, mentre la compagnia di Sečin spalleggiata dal “solo” Putin ha raggiunto un obiettivo di grande portata con metodi apparentemente leciti. In vista dei continui sconvolgimenti politici ed amministrativi, che a più livelli portano il controllo del paese lontano da Putin, il potere acquisito da Sečin e la sua compagnia potrà rivelarsi di gran peso per il futuro prossimo del paese.
Il secondo grande tema che si apre riguarda le relazioni internazionali: come detto, con un sillogismo che appare quasi ironico, i russi divengono in pratica i fornitori di petrolio dell’esercito degli Stati Uniti, essendo la Rosneft il maggiore singolo azionista della BP. Già da Londra, le reazioni sono state miste: se il Ministro dell’Energia inglese Chris Huhn ha laconicamente benedetto l’accordo, meno favorevoli sono stati gli analisti, che vedono l’accordo come un mero tentativo artificioso della BP per sopravvivere. Non va dimenticato inoltre che la British Petroleum ha già in passato subito molte critiche per aver “messo in pericolo la sicurezza energetica europea” pur di ottenere accordi vantaggiosi con dei partner russi.
Voci leggermente più omogenee, nonché decise, sono arrivate da oltreoceano. Nonostante la recente visita di Hu Jintao abbia catalizzato l’attenzione di Washington, dal Congresso sono partite le prime voci contrarie – e contrariate – alla faccenda. Il deputato democratico Markey – membro del comitato per le risorse energetiche nazionali – ha espresso il proprio disappunto dileggiando la BP con un gioco di parole discutibile (chiamandola “Bolshoi Petroleum”, come riportato sui giornali), mentre il repubblicano Burgess ha evitato il clamore delle freddure parlando di un generico bisogno di attenta analisi sull’accordo. Il Presidente Obama pare non abbia ancora commentato, mentre dalla Commissione governativa presidenziale – già “nemica” della BP a proposito del recente disastro ecologico – giunge il solo invito a non effettuare trivellazioni nell’Artico senza i dovuti controlli ambientali. Un’analista della Rice University, riporta il Financial Times, ha sottolineato come, nonostante le prospettive aperte dall’accordo possano essere non gradite alla Casa Bianca, per il governo non c’è possibilità d’intervento in quanto trattasi di un accordo tra compagnie private, per di più straniere. Sembra un’osservazione alquanto puerile, visto che uno Stato ha moltissimi strumenti per fare pressione sulle compagnie private, senza dimenticare i rapporti strettissimi tra numerose major del petrolio e l’amministrazione Obama.
Non resta dunque che concludere ricordando che le prospettive aperte da quest’intesa sono numerose, e tutte in via di sviluppo: l’unica certezza che si conferma è quella dell’enorme influenza dei possessori delle risorse energetiche sulle dinamiche della politica interna ed internazionale.
* Giuliano Luongo è analista per il progetto “Un Monde Libre” della Atlas Economic Research Foundation.
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