Il risultato del cosiddetto referendum “Icesave” non lascia adito a dubbi interpretativi. Il 92.3% dell’elettorato islandese ha sonoramente bocciato il nuovo disegno di legge, approvato dal parlamento il 30 Dicembre 2009, che prevedeva una restituzione dei “prestiti” britannici ed olandesi slegata dall’andamento economico del paese nei prossimi anni. Londra e l’Aia avevano unilateralmente risarcito i propri cittadini rimasti vittime del fallimento di Landsbanki e della sua banca online Icesave. Da allora, negoziati triangolari tra Islanda, Gran Bretagna ed Olanda si sono succeduti senza sosta: il Tesoro di Reykjavik ha sempre confermato la sua disponibilità a garantire le somme già versate da Londra e l’Aia. Il problema, piuttosto, ha riguardato il “quanto”, il “quando” ed il “come”.
Nel mio articolo sulla vicenda, preannunciavo una bocciatura per l’Icesave II con un voto contrario pari al 53%. L’approccio elettorale utilizzato per elaborare la previsione, pur non essendo “statico” (venivano considerati, per esempio, i trend di consenso per ogni partito), si basava su diversi presupposti, diciamo così, “non-dinamici”. Due di questi, in particolare il fatto che l’affluenza alle urne fosse in linea con l’affluenza media delle consultazioni legislative ed il fatto che non succedessero eventi politici rilevanti nei giorni precedenti alla consultazione, non hanno trovato conferma.
A poche ore dal voto, la dichiarazione del Primo Ministro Jóhanna Sigurðardóttir, secondo la quale il referendum sarebbe stato inutile poiché un nuovo accordo era già “sul tavolo”, ha avuto un effetto dirompente sull’elettorato. Molti elettori di centro-sinistra (e della sinistra estrema), teoricamente i più propensi a votare in favore dell’Icesave II, hanno disertato le urne (come, tra l’altro, lo stesso Primo Ministro): rispetto alle ultime elezioni politiche, l’affluenza è scesa dall’85% al 63%. Gli altri elettori di sinistra, preferendo seguire il Presidente socialdemocratico Ólafur Ragnar Grímsson (piuttosto che un premier che prima aveva voluto il nuovo disegno di legge, per poi rinnegarlo) e desiderando mandare un segnale forte all’intera comunità internazionale, hanno votato contro la nuova normativa Icesave.
Occorre ora rispondere a due domande: che tipo di segnale ha voluto mandare il popolo islandese? E perché Jóhanna Sigurðardóttir, il primo capo dell’esecutivo nella storia islandese ad essere filo-europeo, ha lasciato mettere a rischio l’ingresso dell’Islanda nell’UE?
Partiamo dalla seconda domanda. Non c’è dubbio, nonostante le rassicurazioni di Bruxelles, che il referendum di ieri abbia fortemente compromesso il cammino di Reykjavik verso l’Unione Europea. Altrettanto evidente è il fatto che di accordi sicuri “sul tavolo”, come li ha definiti Jóhanna Sigurðardóttir, non ve n’è traccia. Inoltre, quello ch’è certo, è che il Primo Ministro, ormai conscio di difendere una causa perdente (o, come ha testimoniato il mio articolo, a forte rischio di sconfitta), ha deciso di distanziarsi sempre più da quello stesso provvedimento votato poco prima in parlamento. Non è un caso che Jóhanna Sigurðardóttir abbia dichiarato, a qualche ora dal voto, che un eventuale esito negativo del referendum non avrebbe in alcun modo minato la stabilità del governo. Dunque, perdere una battaglia oggi per non perdere una guerra, la guerra per il controllo dell’esecutivo islandese. È da vedere se tale ragionamento sia corretto: le conseguenze politiche del referendum, in realtà, sono tutt’altro che prevedibili.
Per quanto concerne invece il primo quesito, emerge chiaramente come il popolo islandese, oltre ad aver perso quasi totalmente la fiducia nei confronti della propria classe politica, abbia voluto mandare un chiaro segnale alla comunità internazionale: “non pagheremo noi gli errori delle nostre banche”, è stato lo slogan che ha accompagnato i cortei e le manifestazioni contro il nuovo disegno di legge Icesave. Certo, questo non è precisamente il messaggio che i politici islandesi hanno rivolto a Londra e l’Aia negli ultimi mesi: nella loro opinione, come già ricordato, in ballo non vi sarebbe il “se” pagare, ma il “quanto”, il “quando” ed il “come” pagare. In altre parole, l’Icesave II ha ricevuto una chiara bocciatura, ma non è detto che a futuri accordi, magari più favorevoli di questo, il popolo islandese non riservi (se consultato) lo stesso trattamento. Alcuni commentatori parlano d’irresponsabilità degli islandesi; in fondo, si dice, anche loro avevano beneficiato di questo capitalismo di carta, anche loro si erano comprati auto di grossa cilindrata e beni di lusso che mai erano stati visti prima nel paese. Può essere, ma questa è la democrazia. Ed è quantomeno curioso che nel giorno in cui i principali media nostrani celebrano le votazioni in Iraq e s’interrogano sullo stato della democrazia italiana, gli stessi media facciano passare uno storico pronunciamento di una democrazia come l’Islanda in secondo o, sempre se va bene, terzo piano. Esistono forse momenti nei quali è lecito parlare di democrazia e momenti nei quali non lo è?
* Francesco Rossi, dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna), collabora con “Eurasia”
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”
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