Carl Schmitt: diritto e concretezza è l’ultima opera pubblicata dalla collana Quaderni di geopolitica delle Edizioni all’insegna del Veltro. L’opera consta dei contributi di tre autori – Alberto Buela, David Cumin e Stefano Pietropaoli – i quali analizzano da diverse prospettive l’approccio di Carl Schmitt a problematiche di tipo giusinternazionalistico o inerenti i rapporti internazionali in senso lato.

Il primo saggio, di Alberto Buela, ha come principale punto di riferimento l’opera schmittiana L’unità del mondo, frutto di una conferenza tenuta nel 1931 presso l’Ateneo di Madrid e avente ad oggetto l’analisi di tre diverse visioni dell’unità del mondo: politica, tecnica e cristiana.

La visione politica è perfettamente rappresentata in Schmitt dalla dichiarazione del 1932 dell’allora presidente USA Stimson, il quale ebbe a dire che la terra era troppo piccola per due sistemi contrapposti e che anzi non era “più grande degli Stati Uniti”. Schmitt risponde a ciò affermando invece che il mondo continuerà ad esser abbastanza grande da superare non solo la sua riduzione agli Stati Uniti, ma anche al bipolarismo postbellico. Il giurista individua delle ecumeni culturali, potenziali attori di un pluri-verso a venire, fra le quali Cina, India, blocco arabo, mondo di lingua spagnola, Europa, Commonwealth britannico. Possiamo affermare che la visione schmittiana è lungimirante ed anche notevolmente avveniristica, dal momento che, a distanza di sessant’anni esatti, l’emergere di nuovi attori globali e il conseguente affermarsi di una prospettiva multipolare, è una realtà difficilmente contestabile, per quanto dai contorni ancora molto incerti.

Nemmeno la tecnica rappresenta un valido elemento di unificazione spaziale definitiva. Schmitt riprende al riguardo l’intuizione di Goethe: “è pernicioso per l’uomo tutto ciò che senza renderlo migliore, lo fa più potente”, laddove il richiamo è ad una tecnica in cui la potenza non si accompagna un perfezionamento morale.

La risposta la si trova invece nella visione cristiana della storia. Schmitt menziona tre possibili visioni cristiane della storia ma solo ad una, quella del katechon, “concede funzionalità teologico politica”, per usare le parole di Buela. Il katechon, concetto mutuato dal Paolo della seconda epistola ai tessalonicesi, è “ciò che trattiene”, principio di ordine e giustizia che ritarda l’avvento dell’Anticristo nel mondo. Schmitt afferma al riguardo che la stessa idea di Impero medievale, guidato da un principe cristiano, ha senso solo in quanto katechon. Buela commenta in nota diversi passi effettivamente meno noti di Schmitt, che confermano l’importanza della visione cristiana come fondamento onto-teologico del suo pensiero, il quale è spesso trascurato in favore esclusivo dei suoi “corollari” metapolitici (contrapposizione amico-nemico, configurazione dei grandi spazi, etc.). Si pensi al riguardo, per fare due esempi, ai riferimenti mariani nonché al rigetto della visione ciclica del tempo, vista dall’autore tedesco come “sprofondamento dell’uomo nella natura” e, di conseguenza, “rinuncia alla Storia”.

Buela chiude quindi il saggio ricordando come i concetti espressi ne L’unità del Mondo segnano importanti sviluppi del pensiero schmittiano nel dopoguerra, anche nel superamento di suggestioni abbracciate in precedenza: la “mobilitazione totale” condivisa con Jünger e il fascino del dinamismo tecnico-industriale con Heidegger; la sua stessa teoria del grande spazio si evolve, laddove quest’ultimo non è più indicato come luogo del dominio di una potenza egemone ma come ecumene politico-culturale. Va sicuramente dato merito a Buela di aver valorizzato l’elemento onto-teologico del pensiero di Schmitt; sarebbe stato forse interessante un chiarimento ulteriore del rapporto fra la riflessione sull’unicità del principio trascendente di una specifica tradizione (il cristianesimo, evidentemente) e la contemporanea accettazione, ed anzi valorizzazione, di una realtà mondiale ‘pluri-versa’.

David Cumin sposta l’attenzione del lettore sul concetto di guerra in Schmitt. Il suo saggio analizza l’impegno del giurista nel campo del diritto di guerra anche come opera di resistenza culturale; questa lo porterà ad identificarsi come “l’ultimo teorico dello jus publicum aeuropeum” di fronte alle grandi fratture nello sviluppo del diritto bellico conseguenti al primo e al secondo conflitto mondiale, e fra queste in particolare la criminalizzazione della guerra. Cumin segue con grande attenzione l’attività intellettuale del giurista sul tema, nel suo sviluppo cronologico e quindi anche in rapporto agli eventi storico-politici esterni.
Egli suddivide lo sviluppo delle argomentazioni schmittiane in due fasi, prima e dopo la seconda guerra mondiale: si parla nel saggio di una prima posizione “offensiva”, dove punti di riferimento del diritto internazionale sono i concetti elaborati dal fascismo e dal nazionalsocialismo (in una posizione, quindi, di difesa degli interessi di Italia e Germania nel panorama internazionale) ed una posizione “difensiva”, maturata nel secondo dopoguerra, che trova fondamento nel diritto delle genti classico, in precedenza criticato dal giurista.
Le pagine iniziali partono, dunque, dal rilievo dell’anomalia della Società delle Nazioni nel diritto internazionale classico: un’istituzione che si vorrebbe universalizzare nelle sue attività, coinvolgendo nelle sue decisioni anche Stati non (più) aderenti. La pretesa della Società sarebbe quella di abolire lo jus belli non solo fra gli Stati membri della stessa, in quanto federazione, ma anche all’esterno, creando i presupposti di un conflitto irrimediabile e totale contro gli Stati che si oppongono alle sue pretese universalistiche e sovranazionali.

Il Patto della Società in realtà non abolisce la guerra, ma distingue fra guerra lecita ed illecita ed in tal modo stabilisce esso stesso il parametro di illiceità nonché le procedure di risposta alle crisi interstatuali, arrivando a riconoscere come lecita la guerra iniziata da un Paese suo membro contro un Paese litigante, qualora quest’ultimo non abbia accettato di sottoporre il contenzioso alle procedure della Società.

E’ proprio l’introduzione di una liceità o illiceità del conflitto a scardinare la concezione classica dello jus ad bellum: non si nega – tutt’altro – la possibilità di un giudizio politico e morale sulla guerra e tuttavia il giudizio sul torto e la ragione delle parti in conflitto non è suscettibile di valore giuridico, giacché i belligeranti, in quanto realtà statuali, godono di pari valore e dignità e quindi di eguaglianza giuridica.

Con l’introduzione di una concezione discriminatoria della guerra, la stessa cessa di esistere in quanto tale e degrada ad una “supplenza della polizia” oppure a “guerra civile internazionale”, secondo le definizioni di giuristi francesi sostenitori del nuovo paradigma ‘giusbellico’.
Una simile visione giuridicamente ‘agnostica’ della guerra non poggia su rozze finalità belliciste. Per Schmitt la visione ‘classica’ della guerra può limitare i conflitti mentre le pretese di eliminarli finiscono per esacerbarli. Il riconoscimento giuridico della iniquità, in cui versa una delle parti, degrada il nemico a criminale, così ponendo le basi per una guerra mondiale totale.
Si procede nel saggio ad analizzare la ricostruzione che fa Schmitt dell’evoluzione della concezione bellica nella civiltà europea. Sono passaggi su cui non possiamo soffermarci, ma vediamo che in sostanza si parte dallo slittamento dalla concezione di justa causa a quella di justus hostis in età medievale (dai criteri materiali della causa del conflitto si passa a quelli formali dell’auctoritas del belligerante, ovvero la qualità di Stato), per arrivare alla dottrina moderna di guerra legale ed al suo apogeo con lo jus publicum aeuropeum, affermatosi con la Restaurazione, ed il suo principio di non discriminazione bellica e di pari dignità giuridica dei contendenti.

Notiamo che già nel Medioevo la justa causa teologico-morale del conflitto, godendo di un riconoscimento giuridico-politico, poneva le basi per un concetto discriminatorio dello stesso, e tuttavia una simile discriminazione è ben diversa da quella che si affermerà decisamente a partire dalla conclusione del primo conflitto mondiale. Ciò è dovuto non tanto e non solo al fatto che la “justa causa” delle democrazie occidentali sia ‘laica’ ma anche perché essa serviva – con uno scopo politico ben chiaro – a preservare lo status quo postbellico e ad imporre una pace prescindente dalle esigenze di giustizia; non così invece nella concezione medievale, dove non poteva esserci vera pace nell’ingiustizia. La mancata considerazione della giustizia nel sistema di Ginevra è data dal fatto che, secondo i criteri del Patto, l’ipotetico aggressore in un conflitto è già in torto in quanto tale. Un simile assunto rappresenta la vittoria del massimo formalismo giacché si valuta la ‘colpevolezza’ in base all’iniziativa delle ostilità, trascurando gli eventi contingenti, nonché le cause, che ad esso hanno condotto.

Si giunge infine alla ricusazione del Tribunale di Norimberga che avviene contestando la fondatezza della giuridicità dell’accusa di crimine contro la pace sulla base dell’evoluzione dello jus bellum.
Partendo dall’analisi del Trattato di Versailles, Schmitt non ritrova gli estremi per il riconoscimento giuridico di simile accusa a danno di Guglielmo II e la stessa Commissione delle responsabilità degli autori della guerra parlò di “delitto morale” invece che di vero e proprio “crimine”. Il Trattato di Versailles – e così anche i Patti successivi – non costituisce dunque una base normativa per la criminalizzazione della guerra ed è per questo che il Tribunale di Norimberga nella sua attività va contro il principio giuridico della irretroattività della legge penale (nullum crimen, nulla poena, sine lege).

Il saggio di Cumin non è esente da critiche nei confronti del pensatore tedesco. Si fa ad esempio notare l’unilateralità di Schmitt nell’accusa, rivolta alle democrazie occidentali, di creare i presupposti di una “guerra totale” con lo smantellamento del diritto bellico ‘classico’. Cumin ricorda come Schmitt taccia invece i presupposti per uno scontro bellico totale insiti nella stessa ideologia del III Reich e ricorda anche i ripensamenti e le riformulazioni dell’autore finalizzati a scopi politici (discolpare la Germania e accusare gli Alleati) anche se l’autore precisa come la ricusazione schmittiana della criminalizzazione della guerra non possa di fatto ridursi alla contingenza politica della difesa del Reich.

Passiamo all’ultimo saggio dell’opera, quello di Stefano Pietropaoli, che si concentra sulla concezione dell’ordinamento giuridico in Schmitt visto come ordinamento concreto. Il saggio si apre con l’interrogativo, ancora oggi accesamente dibattuto, sulle cause dell’interesse di Schmitt per le problematiche giusinternazionalistiche. Si riportano tre delle interpretazioni elaborate dalla letteratura sull’argomento: il tentativo antebellico di giustificare la dottrina del Lebensraum nazionalsocialista e lo sforzo postbellico di giustificare una scelta rivelatasi a posteriori disastrosa; il ‘rifugio’ nel diritto internazionale come rifiuto di affrontare ulteriormente problematiche di diritto interno, a seguito dell’ostracismo intellettuale subìto dal regime; l’impegno politico di un giurista sensibile alle tematiche internazionalistiche già in gioventù, il quale riprende simili interessi per contrastare, con la sua autorevolezza, l’indirizzo del “sistema di Ginevra”.
Nessuna di queste tre letture è – per Petropaoli – esaustiva, ma l’ultima ha il merito di valorizzare l’impegno giusinternazionalistico di Schmitt già in periodo ‘pre-hitleriano’. Per questo l’autore riconosce un filo rosso che collega negli anni l’impegno intellettuale del giurista in questo campo – pur risultando evidente la tortuosità dello stesso – nonché la rinuncia di elaborazione sistemica a favore della decostruzione dei punti di riferimento dottrinali della cultura accademica del tempo.

Si passa ad analizzare il passaggio cruciale per il giurista tedesco verso una concezione concreta dell’ordinamento giuridico, ovvero il superamento della dicotomia normativismo/decisionismo. Il tertium genus si ritrova nella teoria dell’istituzionalismo giuridico (lo stesso Bobbio ritiene che Schmitt sia stato il primo grande giurista a cogliere la novità dell’istituzione), con la sua valorizzazione dell’organizzazione sociale che viene a coincidere con quella giuridica. La portata ‘antinormativistica’ dell’istituzionalismo è valorizzata dall’affermazione schmittiana: “Giustamente Santi Romano [uno dei maggiori teorici dell’istituzionalismo, ndr] osserva che un mutamento della norma è più conseguenza che non causa di un mutamento dell’ordinamento”. Ecco che quindi le complesse organizzazioni sociali sono valorizzate in quanto fondamento di ordine e stabilità del sistema e “capac[i] di reggere ai più grandi sconvolgimenti, perché le consuetudini degli ordini non possono essere rovesciate con la stessa facilità di un sistema politico”.  L’interesse per la concezione istituzionalista, e la conseguente valorizzazione dell’organizzazione sociale, non porteranno tuttavia Schmitt a rifiutare i presupposti del decisionismo ma piuttosto a dichiararne la contingenza: il decisionismo non può infatti prescindere dal concetto di Stato, e quest’ultimo è ormai una realtà in crisi, che “vale solo da Hobbes a Hegel” mentre l’analisi di un ordinamento giuridico nella sua concretezza resta valida al di là della cornice cronologica e spaziale dell’idea di Stato.

Pietropaoli passa all’analisi delle critiche di Schmitt nei confronti della Società delle Nazioni, elemento già presente nel precedente saggio, che qui viene visto anche alla luce dell’introdotto concetto di concretezza. Schmitt avanza infatti anche delle critiche di tipo ordinamentale all’istituzione, la quale dimostra tutta la sua artificiosità strutturale ed essenziale: non è un’istituzione veramente universale, ma nemmeno strettamente europea; gli USA sono formalmente assenti ma di fatto profondamente influenti nella vita dell’istituzione stessa; la reazione della Società nel conflitto italo-abissino è inconsistente, nonostante i due belligeranti ne fossero membri. In conclusione, Schmitt riconosce l’inconcretezza dell’ordinamento ginevrino, incapace addirittura di difendere l’indipendenza dei suoi membri (Abissinia).

Procedendo nell’analisi del valore della concretezza nel diritto internazionale, Pietropaoli fa una digressione sulla dottrina Monroe, necessaria per comprendere gli sviluppi intellettuali del giurista tedesco sul tema. La dottrina nasce dalla solenne dichiarazione del 1823, che decreta l’impegno degli Stati americani a respingere ogni ingerenza e attentato alla sovranità da parte dell’ “assolutismo europeo”. Si guarda ai corollari storici della dottrina stessa, dal principio di non-trasferimento (nessun territorio americano deve essere oggetto di ‘scambio’ tra Stati europei) al riconoscimento del controllo statunitense su ogni canale inter-oceanico. E’ però nel 1895 che si registra una discontinuità forte nella concezione della dottrina; è da questo momento infatti che si affermano fortemente ed in maniera crescente posizioni di interventismo; scrive Pietropaoli che “la questione della propria sopravvivenza era ormai risolta” e “la dottrina Monroe del 1895 intendeva (…) difendere non gli Stati Uniti, ma “la causa democratica”. Da qui il passaggio dall’isolazionismo, ad un interventismo “democratico” a livello continentale, fino ad un paninteventismo di proporzioni globali.

In Schmitt l’analisi della dottrina Monroe rappresenta, come ci illustra Pietropaoli, il passaggio verso l’applicabilità dello schema interpretativo istituzionalista alla teoria del diritto internazionale. Sarà la coppia concettuale Reich/Großraum che permetterà al giurista di sviluppare le sue intuizioni in tal senso. Il diritto internazionale è dunque esso stesso ordinamento concreto e ritrova la sua concretezza – oltre che nella comunità di sangue di un popolo – nel suo nesso con un spazio definito e – proprio in quanto tale – politico (“non esistono idee politiche senza uno spazio a cui siano riferibili, né spazi o principi spaziali a cui non corrisponda un’idea politica”). Lo Stato inteso come realtà politico-spaziale è al tramonto e l’alternativa appare per Schmitt quella del Großraum. Concezioni di grande spazio sono sempre esistite ma Schmitt non ritiene soddisfacenti le più recenti elaborazioni europee al riguardo mentre guarda con interesse la dottrina americana e si chiede se questa sia solo ‘massima politica’ o non assurga invece a principio giuridico di diritto internazionale. E’ chiaro che oggetto d’interesse è la formulazione originaria della dottrina nella suo concetto essenziale – prescindente dallo specifico campo d’applicazione (americano) della dottrina stessa – che vede l“l’illiceità (…) dell’intervento da parte di potenze straniere in un Großraum retto da un principio ordinatore”. In quest’ottica, l’evoluzione in senso paninterventista della dottrina rappresenta una “deformazione imperialistica e capitalistica” e ancor più la negazione di un principio ordinatore entro uno spazio geografico definito, in favore invece di un principio “generale ed universalistico”. L’abbandono del principio continentalistico porta gli USA ad abbracciare la prospettiva politica universalista dell’Impero britannico, che – dislocato territorialmente in diversi spazi del globo – si fa portavoce di istanze universali in difesa dei propri interessi politico-commerciali non evidentemente limitati entro una precisa area geografica. Importante esempio dell’uso politico di una concezione universalista è offerto dal  principio di “libertà dei mari”, che garantisce all’Impero stesso la libertà dei traffici e delle comunicazioni intra-imperiali.

La struttura mercantilista e universalista (imperialista in senso lato) dell’Impero britannico porta dunque Schmitt a discriminare una simile idea di Impero da quella del Reich, principio ordinatore spazialmente delimitato, la cui influenza si irradia su un grande spazio ove non è ammessa ingerenza di potenze esterne. Interessanti alcuni rilievi su una simile concezione: è evidente che questa supera un’idea rigidamente ancorata al concetto di Stato, ormai ineluttabilmente ‘obsoleto’ per Schmitt. Altrettanto interessante la contrastante recezione che la teoria ebbe in diversi contesti: percepita in ambienti ‘Alleati’ come legittimazione teorica dell’ideologia espansionista nazionalsocialista, la teoria dei grandi spazi veniva invece accolta con non poco sospetto negli ambienti interni al Reich. Risulta evidente, infatti, il distacco di Schmitt da concezioni suprematiste di ordine biologico-razziale così come il rifiuto di negare dignità ai popoli e le nazioni del grande spazio, per quanto fossero da considerarsi subordinate all’autorità del Reich. Il crollo stesso del Reich non determinerà l’abbandono di simili teorizzazioni; le idee di ordinamento concreto e grande spazio trarranno nuova linfa dall’elaborazione della contrapposizione terra/mare, la quale già aveva portato i primi frutti a conflitto mondiale non ancora concluso.

La ricostruzione e l’analisi del pensiero del giurista tedesco, compiuta nei tre lavori, dimostra la grande validità delle intuizioni schmittiane anche in rapporto a precise tematiche della stringente attualità. Si pensi – a titolo di meri esempi – alla previsione del superamento del bipolarismo postbellico e dello stesso unipolarismo statunitense a favore di emergenti realtà geopolitiche (ecumeni politico-culturali) come tratteggiato da Buela. Ancora, si pensi alla denunciata ‘degradazione’ della guerra ad operazioni di polizia internazionale e la si rapporti alla crescente riluttanza – nel linguaggio dei media e degli atti normativi internazionali – ad indicare con la parola ‘guerra’ i conflitti internazionali, preferendo a questa espressioni che rievocano la necessità umanitaria dell’intervento. Si pensi infine al grande problema della illiceità della guerra, emerso con la costituzione della Società delle Nazioni; l’imperativo etico dell’eliminazione della guerra non può distogliere dalla questione determinante del chi decide (se c’è o meno violazione della pace, aggressione, etc.).

Si spera quindi che l’opera qui descritta getti semi fecondi nel mondo degli studi schmittiani e dia il suo contributo nel far conoscere, anche presso un pubblico non ‘specialista’, quei numerosi elementi di estrema attualità del pensiero schmittiano di cui si è provato a dare cenni minimi in conclusione.


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