Il crollo del sistema dei Paesi Socialisti dell’Est europeo e, in rapida successione, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, secondo numerosi studiosi imperialisti come Fukuyama, avrebbe dovuto chiudere la fase conflittuale della storia umana. Aprire un’era di disarmo, di pace, sotto la tutela onnipresente dell’America vittoriosa e nel quadro della globalizzazione liberista. I più mistici sostenevano che si stava passando all’ “Età dell’Acquario”, un’epoca di armonia in tutto il genere umano.
Ebbene, proprio da quel momento iniziò un crescendo continuo di tensioni internazionali, guerre atroci, conflitti, atti terroristici di dimensioni sempre più spaventose, violenze barbariche, massacri di massa; una situazione che non si vedeva dai tempi della II Guerra Mondiale. Sino al punto attuale, maturato fra il 2014 e il 2015, in cui conflitti feroci e cruenti si estendono dall’Ucraina al Vicino Oriente, dalla Libia all’intera Africa subsahariana sino alla punta estrema della Somalia, paese in guerra civile permanente e in stato di disgregazione sin dal 1990, tanto è vero che è stato oggetto di una delle prime operazioni di “pace” sotto egida ONU, nel 1993, forse la più fallimentare. Gli imperialisti, o se si tiene alle forme, l’ONU, ha ritirato in fretta le truppe, lasciando il paese più devastato di prima e soprattutto ancor più denso di infezioni integraliste settarie. Oggi il corno d’Africa è la base operativa della pirateria, come la Malesia ai tempi di Sandokan.
Con questo riferimento alla Somalia, facciamo notare che le guerre guerreggiate iniziarono subito dopo il crollo del confine di Stato fra RFT e RDT, meglio noto come “Muro di Berlino”, e in un vasto arco planetario: le guerre balcaniche nella ex Jugoslavia, fra il 1991 e il terribile 1999, la prima Guerra del Golfo del 1991, e il successivo intervento in Somalia. In successione si aprì, dopo i fatti delle Torri Gemelle, quella che può oggi essere considerata la “prima guerra al terrorismo islamista”; la seconda ben più cruenta e pericolosa è quella in atto oggi, iniziatasi in pratica nel 2013 con l’apparizione “improvvisa” del “Califfato”.
Non tutti i dirigenti della sinistra comunista, all’inizio di questa nuova fase politica, furono così miopi o ideologizzati da non vedere le nuove contraddizioni che rischiavano di aprirsi con la prima guerra del Golfo, che ai più sembrò una passeggiata nel deserto contro il nuovo Hitler di turno, Saddam Hussein. Proprio nei giorni in cui si decideva l’intervento, nella sala del club “Turati” di Torino tenne sul tema una conferenza Lucio Libertini, ex PSIUP, ex PCI, in quel periodo uno dei protagonisti della nascita di Rifondazione Comunista. La sala era semivuota – segno dei tempi – e in questo triste vuoto spiccava la presenza dell’arcinoto ex ordinovista Salvatore Francia; e nessuno lo minacciò – altro segno di tempi che avrebbero potuto velocemente cambiare.
Libertini fece una lucida analisi della situazione e a conclusione del discorso disse chiaramente che una eventuale guerra contro l’Iraq, a prescindere dalla malvagità presunta o reale di Saddam Hussein e della questione del Kuwait, sarebbe stata vissuta dalle masse arabe e dal resto del mondo musulmano come un attacco dell’Occidente. La reazione avrebbe facilmente potuto essere una spirale terroristica internazionale di dimensioni mai viste sino a quel momento. Libertini sviluppò un chiaro sillogismo apodittico aristotelico: i popoli poveri, se attaccati da superpotenze tecnologiche, possono rispondere solo con la guerriglia e con atti di terrorismo. Nel nostro caso, non essendoci ancora territori occupati, come il Vietnam, in cui organizzare la guerra partigiana, la reazione sarebbe consistita in atti terroristici in tutti i paesi occidentali e alleati dell’Occidente.
Libertini fu inascoltato profeta, se è vero – come un tempo scriveva anche “Repubblica” – che fu proprio dopo l’attacco del 1991 all’Iraq che Bin Laden decise di cominciare la guerra all’America, vedendola ormai come nemica spietata del mondo arabo e dell’Islam. Prescindiamo dal fatto che fosse un agente della Cia, magari manovrato per avviare con Al Qaeda un progetto geopolitico ben diverso dalle sue finalità soggettive, i cui contorni forse gli sfuggivano, o pensava di ritorcerli a suo favore. Nella storia i complotti sono all’ordine del giorno, ma non esistono mai marionette che si fanno manovrare passivamente. Esistono personalità, organizzazioni che si lasciano manovrare, pensando che sia una tattica per realizzare disegni politici diversi da quelli dei loro capi palesi e occulti.
Pensiamo solo alla triste storia del neofascismo italiano, pieno di personaggi che hanno cercato e ottenuto appoggi istituzionali contro il “comunismo”, pensando di essere loro a usare la Cia per conquistare il potere e non la Cia a usare loro salvo poi scaricarli. Questa dialettica fra “manovratori” e “manovrati” la troviamo ad ogni livello e ovunque nel processo storico universale. Mussolini – grandissimo tattico – non si fece portatore dei più retrivi interessi capitalistici e agrari, riuscendo poi, con una serie di virate “a destra”, “a sinistra” e poi di nuovo “a destra”, a non farsi liquidare, ma a stabilizzarsi al potere per un ventennio?
Queste riflessioni servono a meglio farci capire dal lettore più “complottista”; a noi, come penso a Lucio Libertini, non interessa se il capo fosse sul libro paga della Cia, consapevole di lavorare per il “nemico”. Il problema era ed è che nel profondo delle masse arabe e musulmane di tutto il mondo, si stava costruendo la rappresentazione dell’Occidente e dell’America come il nuovo “grande Satana”, il nemico da colpire ovunque e con qualsiasi mezzo a disposizione. L’oggettività delle vicende politiche crea lo sfondo soggettivo e psicologico per accendere e radicalizzare le coscienze in funzione bellica. Per essere più chiari: per far affluire in Al Qaeda e poi in altre formazioni più pericolose centinaia e migliaia di militanti, sempre più determinati a compiere qualsiasi attentato, anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita.
Sarebbe stato proprio il momento per dire “uomo avvisato mezzo salvato”, ma in sala c’eravamo solo noi, Salvatore e un gruppetto sparuto di comunisti. L’avvertimento di un uomo della statura di Lucio Libertini, che ha attraversato da protagonista tutta la storia della sinistra di classe italiana del dopoguerra, passò come un getto d’acqua sulle rocce. Oltretutto sarebbe anche stato facile capire che una guerriglia religiosa in nome dell’Islam sarebbe stata condotta dai militanti come una “guerra santa”, e quindi sarebbe stata ancor più pericolosa del tradizionale terrorismo laico, anarchico, mazziniano ecc., che raramente utilizzava attentatori suicidi.
Noi non siamo teologi e meno che mai esegeti dell’Islam, ma leggiamo nella “Sura II” del Corano “Fate la guerra, per la causa di Dio, a coloro che vi fanno guerra ma non siate aggressori: Iddio non ama gli aggressori. […] Se, però la smettono, allora, allora Dio è perdonatore e misericordioso. – Combatteteli, dunque, finché non vi sia più sovversione. […] Se la smettono non vi sia ostilità che contro gli iniqui. […] Chi vi aggredisce, aggreditelo […]”. È vero che non si può ridurre tutto l’Islam alla “guerra santa”, come tendono a fare salafiti e wahhabiti, legati alla casa dei Saud, cioè all’Arabia Saudita e seguaci di un’eterodossia che, non a caso sempre più diffusa a livello planetario, ispira il terrorismo settario. La stessa nozione di “guerra santa”, secondo la studiosa Virginia Vacca, va intesa come una guerra “interiore che ogni credente è chiamato a compiere contro il politeista che si cela nella sua anima e gli impedisce di ritornare al cuore, il Tempio sacro del suo essere, ‘luogo’ della Presenza divina”; “questo il senso vero del jihàd”.
Gli atti propriamente fisici, guerreggiati, ne sono l’aspetto esteriore, che peraltro – come si può leggere chiaramente nei frammenti citati – si giustificano solo e unicamente in chiave difensiva. Forse la Francia, se ritirasse le proprie truppe dal Mali, non avrebbe più da lamentare attentati terroristici. Diciamo anche che la questione degli “islamisti” sarebbe bene che venisse risolta direttamente dai cristiani, oggetto di persecuzione, e dalle milizie nazionali. Del resto non è quello che avviene in Somalia dal 1993, salvo una sporadica presenza dell’esercito “cristiano” etiope? Molto comodo esternare da San Pietro, ad ogni festa comandata, “facendo l’occhiolino” malizioso all’Alleanza atlantica perché vada a salvare i cristiani nel mondo!
Ritornando al punto di partenza, cioè al sentimento delle masse islamiche dopo il 1991, è chiaro i giovani musulmani, leggendo questi versetti senza un adeguato approfondimento spirituale, possono facilmente gettarsi nelle mani di Al Qaeda e poi del “Califfato”, convinti di guadagnarsi il Paradiso facendosi saltare in aria in mezzo ad una discoteca di Parigi. Ecco la vera Kernfrage lucidamente compresa da Libertini, che avrebbe dovuto far riflettere ogni persona di buon senso! Cessare ogni ulteriore provocazione e concentrarsi sulla soluzione reale del problema dei problemi che infiamma da sempre il mondo musulmano: il problema palestinese!!!
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La “prima guerra al terrorismo” – di cui fu protagonista assoluto, almeno stando alle apparenze massmediatiche, il Presidente Bush junior – si estrinsecò nel catastrofico intervento in Afghanistan delle Nazioni Unite contro i Talebani, e l’anno successivo nella seconda guerra del Golfo, che portò al crollo del regime di Saddam Hussein; di lì ebbe origine la dissoluzione dello Stato iracheno e degli equilibri nella regione, le cui conseguenze più tragiche stanno emergendo proprio in questi ultimi quattro anni, con la sanguinosa guerra civile in Siria e l’affermazione “misteriosa”, “improvvisa” del sedicente “Califfato”.
Da rilevare poi che la situazione in Afghanistan, nonostante quattordici anni di guerra e il dispiegamento di enormi risorse e di un vasto apparato militare multinazionale, è tutt’altro che stabilizzata: i Talebani continuano a controllare quasi tutto il paese e non attendono altro che il ritiro delle truppe imperialiste per riprendere il potere a Kabul. Se si riflette bene, per l’America e i suoi satelliti si tratta di una sconfitta ben più grave di quella del Vietnam. In Afghanistan non devono affrontare un esercito organizzato come quello vietnamita, i Talebani non sono guidati dal Generale Giap, né la guerra subisce le limitazioni strategiche della guerra fredda, che impedivano alle truppe americane di entrare nel Nord Vietnam per bloccare il retroterra logistico della guerriglia vietcong al sud.
In pratica, almeno sino al 2008, cioè prima che riemergesse come contraltare la potenza russa, gli americani avrebbero persino potuto usare l’arma atomica per creare una “fascia di sicurezza” alla frontiera con il Pakistan. Avrebbero così realizzato a cinquant’anni di distanza i sogni di Mac Arthur, che nel 1953 la voleva ai confini fra Cina e Corea del Nord – tanto che il Presidente Truman dovette rimuoverlo d’autorità per evitare ulteriori problemi con l’Unione Sovietica e la Cina; e l’avrebbero potuto fare con l’appoggio dei media e di un’opinione pubblica internazionale plagiata e passiva, ossia in una situazione ben diversa da quella del Vietnam. Eppure nulla! Rastrellamenti, bombardamenti, campi di concentramento (chissà se fra un secolo si potrà fare un “giorno della memoria” anche su questi?), viagra regalato ai capi tribù per conquistarne il consenso, soldi a palate regalati ai collaborazionisti di Kabul, veli strappati alle donne per emanciparle, e la situazione bellica continua a peggiorare di anno in anno. Infatti il serafico Obama aveva promesso di ritirare le truppe entro il 2015; ma, visti i pericoli di una “Saigon 2” in diretta, ne ha riconfermato la presenza. Anche l’Italia naturalmente rimane in terra afghana: i servi dei servi non si smentiscono mai, ma seguono sempre gli ordini del padrone di turno. È di questi giorni infatti la notizia a Mosul saranno inviati 450 dall’Italia, unico fra i paesi occidentali a rischiare la pelle dei propri soldati in un teatro bellico pericolosissimo.
Già da questi sommari riferimenti dovrebbe risultare chiaro il nesso fra la caduta del cosiddetto “comunismo” e la destabilizzazione delle relazioni internazionali: non più trattenute dalla presenza dell’Armata Rossa, sullo scacchiere del Vicino Oriente agiscono ormai in piena libertà le forze degli Stati Uniti e della Nato, nonché quelle dei regimi loro alleati, come Arabia Saudita e Israele. Non è certo casuale che proprio gli anni ’90, con un seguito fra il 2000 e il 2002, vedano la Russia governata dall’alcolizzato El’cin, preda di un gruppo di “oligarchi”. In sostanza, come ha rivelato il recente documentario mandato in onda da Rete 4 sul Presidente Putin, la Russia era un paese sull’orlo dello sfascio istituzionale, del caos economico, del degrado sociale; ciò si rifletteva negativamente in tutti i settori delle forze armate, incapaci ormai di costituire un fattore deterrente nei confronti dell’ex nemico e persino di controllare le spinte separatiste in Caucaso. Ancora nel 2002, la tragedia del “Kursk” rivelò il livello di degrado in cui erano cadute le forze armate ex sovietiche.
Il punto culminante dell’attuale periodo di conflittualità guerreggiata internazionale l’abbiamo raggiunto in questi due ultimi anni, e si spera che non si vada oltre. È uno stato di guerra feroce e di confusione dall’Ucraina all’Africa, dove i due termini, guerra e confusione, sono strettamente interdipendenti, sia per i presunti “esperti” dei media di regime – da Libero alla Repubblica – sia, a maggior ragione, per l’osservatore superficiale; sono un binomio inscindibile, i lati di un’unica medaglia, la cui essenza unitaria non è facile da scoprire.
Infatti, se guardiamo la dinamica degli eventi bellici, vediamo che in poche settimane siamo passati da un confronto diretto fra la Russia e la Nato in Ucraina, dove potevamo rischiare il conflitto atomico, ad un massiccio intervento russo in Siria contro il “Califfato”, un intervento che si è guadagnato il favore dell’opinione pubblica internazionale ed ha scavalcato la logica di conflitto frontale con la Nato. Anzi, sembra ora che Stati Uniti ed Europa, in palese difficoltà nella condanna di una guerra russa contro una centrale terroristica che compie attentati a Parigi, si stiano adattando, pur con numerosi distinguo, ad affiancare la Russia senza più disturbare il governo di Assad.
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Durante i mesi più aspri del conflitto ucraino ci furono effettivamente incidenti gravi e premonitori di una guerra atomica. All’inizio della crisi tutti ricordano la strana vicenda di un aereo russo che sorvolò a bassissima quota un cacciatorpediniere americano in navigazione verso Odessa. Sembrò ai più un gioco di guerra, una bravata provocatoria russa, ma il giornalista cattolico Blondet avanzò subito un’ipotesi più complessa, secondo la quale si sarebbe trattato di un atto di guerra elettronica sofisticata. Il caccia americano USS Donald Cook aveva lo scopo di perturbare la linea di dati tra le antenne riceventi del Centro Spaziale della Flotta russa nel Mar Nero e la rete di satelliti militari ELINT nello spettro elettromagnetico; complesso ed avanzatissimo sistema che trasmette alla Crimea i dati della sorveglianza elettronica dei radar e dei sistemi di navigazione della flotta americana, degli aerei di bordo e dei missili antinave imbarcati. “L’aviazione russa ha dovuto mettere fine all’azione della Cook facendo sorvolare due Su-24MP per 11 volte a raso-ponte la nave americana avendo a bordo sistemi di disturbo nella gamma di frequenze 12-18 GH, utilizzate per neutralizzare il radar di difesa attorno all’incrociatore USA”.
Se ne evince che si trattò di un vero e proprio atto di guerra elettronica funzionale a bloccare un attacco alla Crimea e alla flotta russa di Sebastopoli. Infatti Blondet aggiunge che le forze speciali russe avevano la certezza che a bordo della nave in questione, come dell’intera flotta che si apprestava ad attraversare i Dardanelli, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare USS George Bush, “erano presenti sei gruppi di commando ciascuno formato da 16 elementi; pronti a raggiungere la costa nuotando sott’acqua, invisibili, costoro avrebbero dovuto compiere azioni di sabotaggio e soprattutto creare il panico tra la popolazione, per esempio provocando esplosioni su mezzi pubblici nelle ore di punta, facendo saltare edifici pubblici eccetera. Nell’imminenza del referendum di adesione della Crimea alla Russia, la paura seminata dai commando si sarebbe tradotta in una minore partecipazione al voto da parte della popolazione, e ciò avrebbe dato la scusa per invalidare l’elezione. Per evitare tale azione, «i russi hanno esercitato un controllo stretto e preventivo, impenetrabile»”.
Inoltre Blondet dà notizia che alcuni commando furono sbarcati ma anche subito catturati dalle forze speciali russe. Se non fu il prodromo di un attacco nucleare, certamente fu uno degli incidenti più seri fra le due superpotenze dagli anni più difficili della Guerra Fredda. E, a quanto pare, non fu il solo. Un secondo, in base a notizie riservate, avvenne dopo l’uccisione di Nemzov, un potente “ex” della cricca collaborazionista di El’cin. Seguirono le manifestazioni collaborazioniste e antipatriottiche fomentate dalla potente Lobby “Soros & Clinton”, specializzata in “rivoluzioni colorate”; Putin non uscì dal Cremlino per più di una settimana e voci mai confermate parlarono di un ordine di attacco atomico britannico, subito intercettato dai servizi russi e rispedito al mittente con prevedibili minacce di ritorsione che indussero Londra a desistere.
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Cosa dire, come inquadrare questa protervia americana contro un paese già sconfitto nel 1991, che però da oltre dieci anni, afferma con decisione la propria posizione di Stato sovrano e di grande potenza che, con piena legittimità, esige di concordare alla pari ogni questione internazionale? Un paese che, oltretutto, proprio alla vigilia della crisi ucraina stava ponendo le basi per la ricomposizione di gran parte dello spazio ex sovietico in una vasta Unione Eurasiatica aperta alla Cina, per controbilanciare le tendenze americane all’egemonia mondiale.
Certo, l’Unione Eurasiatica e il rinnovato protagonismo russo non potevano che dispiacere a tutte le centrali atlantiche, ma questo spiega solo in parte un così aggressivo attacco all’area di più diretto interesse di Mosca, lo spazio ex sovietico e soprattutto l’Ucraina, che era vitale per un’Unione Eurasiatica aperta ad occidente. Nei mesi più aspri della crisi Giulietto Chiesa ha sostenuto che negli USA non ben definiti ambienti militari e politici erano convinti che la macchina atomica americana poteva consentire un attacco improvviso alla Russia e annullarne ogni capacità di pari reazione; in pratica, sarebbe stato possibile annullare il famoso “secondo colpo” su cui si era retto l’equilibrio del terrore.
Scatenare una così grave crisi in Ucraina doveva servire a Washington come pretesto per un attacco nucleare preventivo, che annullasse ogni pericolo atomico nel blocco eurasiatico in rapida formazione? Infatti è la Russia, non la Cina, l’unico paese al mondo in grado di distruggere l’Occidente. Distrutta la Russia, contenere la Cina, imporle la propria politica – vero obiettivo strategico americano sin dal 1999 – sarebbe diventato molto, ma molto più semplice. Prima del 2002 alla Casa Bianca si poteva ancora pensare ad un’alleanza subalterna con Mosca, in stile El’cin, che escludesse a priori ogni minaccia di seria ritorsione atomica. Lo spartiacque per misurare la capacità reattiva militare della Russia e la sua affidabilità per l’Occidente fu il 2008: la provocazione georgiana. Visto il modo in cui reagì Mosca, Bush concluse che Putin non era ancora conquistato all’idea della “democrazia”: rimaneva un pericoloso nemico da eliminare, se si voleva poi azzannare il boccone più prelibato, la Cina.
Il citato incidente della USS Cook ha convinto il Pentagono che la situazione era completamente diversa da quella che detti ambienti teorizzavano? Che la deterrenza russa era tutt’altro che usurata dal tempo? È un fatto che dopo la grave sconfitta di Debaltsevo del dicembre 2014 e gli accordi di Minsk, l’Ucraina e la Nato sembrano ormai aver preso coscienza dell’impossibilità e forse della pericolosità di una nuova offensiva – che peraltro dovrebbe ormai essere sostenuta solo da esigue milizie di estrema destra e da mercenari occidentali, visto lo stato di totale disgregazione dell’esercito di Kiev. La crisi ha preso la deriva di una piaga purulenta infinita, simile al Nagorno Karabakh. Oltretutto, le recenti notizie sulla possibile cessazione dei prestiti allo Stato ucraino da parte degli Stati Uniti e del FMI lasciano intravedere il suo meritato crollo finanziario, che i Russi si attendono fin dai giorni del colpo di Stato atlantico. E una volta senza ossigeno, collassata, al freddo, dove andrà Kiev? Cosa faranno gli Ucraini dell’area centrale e occidentale del paese? Di certo Putin, se non avesse precise certezze sullo stabilizzarsi della crisi ucraina, non si sarebbe mosso con fermezza e decisione nel pantano del Vicino Oriente, prendendo tutti alla sprovvista con una classica mossa del cavallo.
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Credo si noti bene l’assoluta confusione in cui si collocano avvenimenti così tragici e sanguinosi. Siamo ben lontani dalla logica di schieramento della Prima e della Seconda Guerra Mondiale: gli Imperi Centrali contro la Triplice Intesa, fra il 1914 e il 1918; le potenze del Tripartito contro la coalizione antifascista, USA, GB, URSS, fra il 1941 e il 1945. La chiave esplicativa della confusione bellica esistente forse ce la fornisce come al solito Giulietto Chiesa. Sino a tutta la guerra fredda, allo stato della documentazione attualmente disponibile, erano i governi e i capi di Stato a decidere la pace o la guerra, ad assumere l’iniziativa come soggetti politici internazionali. Quindi è più che verosimile che le crisi fra Stati Uniti e Unione Sovietica siano state gestite dalla Casa Bianca e dal Cremlino, senza che l’attivismo autonomo dei servizi di informazione forzasse i rispettivi governi. Anche il nefando incidente del “Golfo del Tonchino” del 1964, che diede a Johnson il pretesto per mandare i marines in Vietnam, fu probabilmente orchestrato con il suo pieno coinvolgimento ed assenso. Tutta la storia documentaria della Guerra del Vietnam, pubblicata in videocassette nel 1989, con testimonianze e interviste ai massimi vertici politici, militari e dei servizi d’informazione dell’epoca, non dovrebbe lasciare troppi dubbi: la Cia prendeva ordini dal governo e dal Presidente.
La crisi dei missili a Cuba non degenerò perché fu governata da Kennedy e da Kruscev, che tennero a bada i rispettivi “falchi” presenti negli ambienti militari. La storia della Guerra Fredda dimostra che ancora alla fine degli anni ’80 il potere politico era gestito dai governi. La più grave crisi internazionale, che portò il mondo sull’orlo della guerra atomica, si verificò senza i clamori della stampa e, dunque, ancor oggi all’insaputa del grande pubblico, nel 1983, quando a capo del PCUS vi era Andropov e alla Casa Bianca Ronald Reagan. Ad inizio anno, Reagan annuncia l’intenzione di procedere al programma di “scudo spaziale” (in codice SDI) per intercettare e distruggere in volo i missili intercontinentali sovietici. L’annuncio di un simile programma era contestuale all’ammodernamento dei missili strategici e all’installazione dei Pershing e dei Cruise in Europa, teoricamente in grado di distruggere i silos interrati dei missili sovietici e i centri di comando dell’Armata Rossa.
A Mosca maturò ben presto la convinzione che la Nato si apprestasse a sferrare un attacco preventivo all’Unione Sovietica, sicché tutta la difesa e il KGB vennero messi in stato di massima vigilanza. Ad un soffio dal dramma si arrivò fra il 1 settembre e il 2 novembre. Lo stato di allerta era tale che, quando un aereo di linea coreano, per puro sbaglio, violò lo spazio aereo sovietico, fu intercettato e abbattuto dai caccia sovietici, che temevano di avere a che fare con un aereo spia americano: 269 morti. Questo è l’unico fatto che in quella crisi venne a conoscenza dei media e del grande pubblico.
Naturalmente ci furono condanne, pianti, lamentele; i comunisti sono “cattivi”, “guardate cosa hanno fatto i Russi!”, l’“impero del male” ecc. Intanto, silenziosamente la tensione cresceva e toccava l’apice agli inizi di novembre: il 2 di quel mese era in programma un’importante esercitazione della Nato, Able Archer 83: una prova di funzionamento dei comandi in caso di crisi internazionale, fino alla simulazione degli ordini di lancio di armi nucleare. Il KGB era convinto che si trattasse di una copertura per un attacco atomico reale e al Cremlino misero in allerta diversi reparti militari. L’allarmismo fu notato dallo spionaggio britannico e persino Reagan si stupì e si preoccupò delle paure sovietiche. Si può pensare che tornasse a funzionare la linea “rossa” fra la Casa Bianca e il Cremlino; comunque Reagan decise che fosse giunto il momento di riaprire le trattative sul disarmo, per evitare che si arrivasse veramente al disastro.
La crisi poco nota dell’83 è, a nostro giudizio, la controprova che, sino a quell’epoca, il potere dei governi nazionali, almeno a livello di superpotenze nucleari, funzionava e teneva sotto controllo militari e servizi d’informazione. Insomma, all’epoca la situazione era ben diversa da quella attuale, in cui non solo la CIA, ma addirittura i servizi dell’Arabia Saudita e della Turchia, dotati di immense risorse finanziarie, all’insaputa della Casa Bianca creano dal nulla una potenza regionale come il “Califfato”, salvo poi non riuscire a controllarla. Certo, per tutti gli anni ’80 i servizi occidentali usarono gli estremisti per combattere l’Armata Rossa in Afghanistan; fecero ricorso ad ogni mezzo per spargere sangue in Salvador e minare il Nicaragua sandinista; con la colpevole e decisiva complicità della Chiesa cattolica aizzarono il popolo polacco contro il socialismo; ma in fin dei conti ognuna di queste iniziative era riconducibile al governo americano, al Presidente e alla sua squadra.
Negli ultimi due decenni il quadro istituzionale dei centri di comando dell’imperialismo atlantico è dunque nettamente cambiato, rendendo molto più gravide di pericoli bellici la politica e le iniziative occidentali. Nonostante le apparenze, sorrette continuamente dalla propaganda, l’Occidente si è indebolito e si sta sfilacciando in una pluralità di consorterie e di soggetti politici, le cui iniziative sono sì riconducibili ad un obiettivo strategico chiaro e unitario, ma si sviluppano autonomamente e spesso senza che un soggetto sappia ciò sta facendo l’altro, in modo altamente contraddittorio. Il comune denominatore di questa disordinata agitazione dei tentacoli della piovra è lo scavalcamento dei centri di potere legittimi e istituzionali. E non alludiamo ai parlamenti nazionali, che non contano più nulla, ma ai governi, soprattutto al governo che conta, a Sua Maestà il Presidente degli Stati Uniti e alla sua squadra.
Come spiegare questo sfilacciamento politico dell’imperialismo atlantico? La spiegazione più semplice potrebbe far riferimento all’enorme potere della finanza globale, che sfugge ad ogni controllo interno ed esterno ed è in grado di finanziare qualsiasi servizio di informazioni e qualsiasi consorteria. Ma, a nostro giudizio, esiste una spiegazione più profonda, che va alla radice della sconfitta che l’America e l’Occidente stanno subendo nella lotta per dominio globale.
È dal 1999 che giace sulla scrivania dello “Studio ovale” un dettagliato rapporto sulle tendenze di sviluppo geoeconomico e geopolitico del blocco asiatico, India e Cina, soprattutto di quest’ultima. Il documento attesta che, senza una preventiva azione americana per bloccare la tendenza in atto, nel 2017 la Cina scavalcherà gli USA come superpotenza in ogni settore, economico, tecnologico, politico, con la possibilità di strappare agli americani il controllo del mercato delle materie prime con mezzi economici – situazione che peraltro si sta già verificando a ritmi accelerati – e di dotarsi di un apparato militare all’altezza della propria nuova condizione.
In generale è in atto una tendenza eguale e contraria a quella verificatasi agli inizi del Cinquecento. Alla fine del Quattrocento le potenze industriali dominanti erano asiatiche, da Costantinopoli sino a Pechino. In particolare la Cina esercitava il potere talassocratico su ogni mare e a fine secolo fu vicina a scoprire l’America. Per motivi economici e sociali ancora controversi – ad esempio la casta dominante dei “mandarini” non vedeva di buon occhio lo sviluppo di una borghesia mercantile autonoma che estendesse i propri affari via mare da Aden sino al Mar Giallo -, in pochi decenni la Cina si ritirò entro i propri confini e smantellò la propria flotta. Questo nel momento in cui si sviluppava il colonialismo spagnolo in America e quello portoghese in Asia, consentendo all’Occidente di diventare il continente dominante. Ora la tendenza economica è inversa: le maggiori industrie del pianeta sono in Asia, non più però nelle colonie anglo-americane, come Taiwan o Singapore, ma in paesi che sono o aspirano ad essere grandi potenze nucleari indipendenti, l’India e la Cina.
La serie di guerre inaugurata da Bush nel 2001 era proprio intesa ad imporre il controllo del mercato delle materie prime con mezzi militari ed a penetrare sempre più in profondità nel territorio eurasiatico, onde avvicinare le basi americane al confine cinese. Ma la situazione si aggravò anno dopo anno per l’ascesa economica e politica della Russia di Putin, che cominciò a cercare sempre maggiori collaborazioni con Pechino e con i paesi del BRICS.
Non è dunque affatto casuale che il serafico Obama, prima del pasticcio siriano e ucraino, intendesse delegare agli alleati della Nato il controllo del Nordafrica e del Vicino Oriente e stabilizzare la situazione in Iraq e in Afghanistan, per ritirare le truppe e giungere ad un accordo sul nucleare iraniano, sino al punto di inimicarsi Israele. La sua strategia è sempre stata il “pivot to Asia”, in stretta alleanza con il Giappone ed altri alleati asiatici e neppure è casuale tutto questo rumore sulla Birmania, che gravitava nell’orbita cinese; un bastione di difesa oggi caduto. Il “pivot to Asia” nei piani originari avrebbe dovuto concentrare i tre quarti del potenziale americano e degli alleati asiatici attorno alla Cina, in particolare su tre linee parallele nell’Oceano Pacifico, da quella più lontana, appena dopo le Midway, a quella interna al Mar Giallo. Una simile concentrazione di forze per strangolare la Cina esige come condizione preliminare che si elimini ogni nemico alle spalle, sui fronti occidentali. Su di essi avrebbero dovuto vigilare Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita ed Emirati. Ma essendosi intromessa la Russia sulla questione siriana nel 2013, avendo Turchia e Arabia Saudita cominciato a nutrire troppe ambizioni egemoniche sulla regione, la situazione s’incancrenì. Dato questo quadro, non ci sarebbe proprio da stupirsi se ambienti radicali a Washington avessero cominciato a premere per liquidare la Russia, soprattutto nel momento in cui questa intendeva ricompattare lo spazio sovietico e cementare i rapporti con Pechino, visto che il 2017 si avvicina e non c’è nessun sintomo che la tendenza al rovesciamento della tendenza si sia anche solo indebolita.
In pratica ci troviamo di fronte ad un blocco imperialistico in stato di convulsione profonda, da cui possono nascere le più diverse e pericolose vie di fuga pur di conquistare in tempi brevissimi l’agognato obiettivo strategico, perché effettivamente il 2017 si sta avvicinando e mette il fiato sul collo a personaggi capaci di tutto, in grado di schiacciare il bottone sulle atomiche o anche distribuirle a qualche gruppo terroristico che lo faccia al loro posto.
In questo quadro il “Califfato” e i settari wahhabiti non sono il punto centrale delle crisi internazionali e, al di là degli attentati di Parigi, non hanno nessuna intenzione di venire in Occidente per sgozzare il Papa e distruggere il liberalismo. Questa ce lo fa credere un stupida e ingenua propaganda, montata ad arte dai tempi della Fallaci, la quale sta facendo più danni da morta che da viva. Ci sono stati alcuni attentati – sulla cui natura Giulietto Chiesa ha sempre avanzato più di un dubbio – ma, se si toglie la Bosnia e il Kossovo, non hanno mai scatenato una vera e propria guerriglia come nel Caucaso. Ed è qui che sta il punto e si trova la verità, svelata chiaramente dal Presidente Putin, nel suo ultimo discorso ai vertici delle forze armate, quando ha affermato: “Noi in Siria difendiamo i confini della Patria!” Non li difendono né i Francesi, né gli Americani, non sbarcheranno mai da loro in massa.
Quasi ogni gruppo della galassia terrorista, dagli anni ’90 al “Califfato”, è una creatura dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, e sboccia con il consenso della Cia e del Mossad. Infatti non vengono dal mondo wahhabita i combattenti che si fanno saltare in aria al centro di Tel Aviv! Gli uomini di Bin Laden e del sedicente “Califfo” non hanno mai compiuto attentati contro gli ebrei, né fuori né dentro Israele; anzi, hanno agito ed agiscono con tutta la loro forza contro le forze politiche e militari impegnate da decenni nella guerra al sionismo: la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, le formazioni sciite di Hezbollah.
L’islamismo terrorista opera in funzione di interessi occidentali o riconducibili all’Occidente: in prima fila l’Arabia Saudita, fedele caposaldo americano nella regione sin dagli anni ‘50 – e qui torniamo al discorso dei “manovratori occulti” e di chi pensa di sfruttarli a proprio vantaggio! Attenzione a non diventare un “apprendista stregone”! Spesso, se si manovra male, si generano mostri che possono anche sfuggire al controllo di chi li ha creati. È della Clinton la recente affermazione che “gli uomini del califfato sono andati fuori controllo”; contrabbandando petrolio alla Turchia e ad Israele, essi possono finanziare autonomamente la propria guerra.
Quali sono gli interessi strategici in gioco? L’Arabia Saudita ha come scopo prioritario eliminare gli sciiti dalla regione e contenere nel Golfo l’influenza iraniana, come dimostrano gli ultimi drammatici eventi, verificatesi dopo l’assassinio dell’Imam sciita Al-Nimr. Gli Usa vogliono utilizzare i tagliagole, come hanno già fatto negli anni ‘90, nel Caucaso, nell’Asia Centrale ex sovietica sino al “boccone prelibato”, la regione musulmana cinese dello Xin Jiang, già in ebollizione da anni. La speranza è che utilizzarli in quelle regioni porti all’agognato traguardo di destabilizzarne gli equilibri. Sarebbe eliminata l’unione doganale eurasiatica, tornerebbero a farsi sentire le spinte indipendentiste in Cecenia e in Daghestan, scoppierebbero in Cina. E si badi bene che, in Cina, se si muove una sola pedina periferica se ne possono muovere altre ben più consistenti. Dopo lo Xin Jiang potrebbe scoppiare il Tibet e ciò provocherebbe le urla internazionali di tutte le consorterie buddiste. Pensiamo solo al putiferio che potrebbe scatenare Richard Gere!
In un contesto così intricato, in cosa consiste lo “scontro di civiltà”, su cui da destra e da sinistra si va sproloquiando sin dal colpo di Stato dell’11 settembre 2001? Più in generale, come si colloca l’intera civiltà islamica, che viene strattonata da tutti, per lo più in modo indecente? Su questo piano, almeno in Italia, ma credo nell’intero Occidente, si sta vivendo un vero regresso più antropologico che ideologico. Regresso nel senso che gli argomenti e i toni che si usano per attaccare il presunto nemico “islamico” ricordano l’anticomunismo viscerale del dopoguerra. Nel 1945 erano i comunisti a “mangiare i bambini”; ora sono gli “islamisti”, anzi, gli “islamici”. Il meccanismo che è scattato oggi verso l’intero mondo islamico è identico. E la paura dei nuovi mangiatori di bambini tocca uniformemente il cristiano, il laico e quel po’ di comunisti che ancora esiste. Lo possiamo dire per esperienza famigliare: l’anno scorso, quando cominciarono a “informarci” su questa gente, a far vedere mucchi di cadaveri, a mandare in onda videomessaggi in cui gli uomini del “Califfo” minacciavano di invadere l’Europa, mio padre, comunista trinariciuto di 84 anni, si alzò dalla poltrona impietrito, esclamando: “Ma non arriveranno mica da noi, che siamo vicini al porto di Savona?” Se poi lo “sbarco” islamista lo intrecciamo alla questione degli immigrati, il quadro del regresso antropologico è completo e richiama direttamente il famoso film americano maccartista degli anni ’50, L’invasione degli ultracorpi. Ci stanno invadendo! Stanno arrivando! Anzi sono già qui, pronti a rapire il Papa! Che una parte consistente di questi invasori sia costituita di cristiani copti, cristiani cattolici, indù, sembra che non lo sappia nessuno!
Un pericoloso antislamismo di questo tipo agisce su di un retroterra di assoluta ignoranza sull’Islam e sulla sua storia; un’ignoranza indubbiamente coltivata ad arte, perché siamo sicuri che un Magdi Allam l’Islam lo conosca molto bene. Sa cosa sono i sunniti, i wahhabiti, gli sciiti. Conosce la storia ed è informato sul fatto che, in tutto il mondo islamico – arabo e non arabo, sunnita e sciita – fra i secoli VII e XIII si sviluppò una splendida civiltà multireligiosa, nella quale poterono esprimersi correnti filosofiche platoniche e aristoteliche. Sa anche della tolleranza di cui godevano le comunità ebraiche, che in età medioevale espressero la loro filosofia proprio entro il mondo islamico, mentre nell’Europa cattolica le cose erano assai diverse – e nei secoli successivi, fino all’Illuminismo, andò anche peggio. Pensiamo solo al grande macello della Guerra dei Trent’anni, 1618-1648, in Germania, in Italia, nei Paesi Bassi. Dunque Magdi Allam avrebbe tutti i mezzi culturali per non urlare in TV, di fronte a milioni di telespettatori già spaventati per loro conto: “Voi ve lo immaginate un cristiano che uccide per Dio? No! Ve lo immaginate un ebreo che uccide per Dio! No! e invece il musulmano uccide per Dio!” E questo senza fare distinzioni fra le varie correnti dell’Islam, visto che comincia ad essere un po’ chiaro anche ai TG che ad uccidere per Dio sono i salafiti e i wahhabiti. È come se, riferendosi alla notte di San Bartolomeo, uno parlasse genericamente di cristiani e non di cattolici. Il messaggio che viene diretto da simili provocatori è che sunniti, sciiti, salafiti e wahhabiti sono la stessa cosa e che quelli che ancora non hanno sparato sono pronti a farlo. Ma se così fosse, essendocene ormai milioni in Europa, saremmo già tutti spacciati! Anche perché, se esiste un carattere comune dell’Europeo contemporaneo, prodotto della democrazia, delle tutele legali, dell’edonismo capitalista, è la sua quasi totale perdita di virilità; e non ce lo vediamo proprio a difendere sé e la sua famiglie da orde con scimitarra e turbante. Del resto è cronaca di tutti i giorni che, non appena uno spara ad un ladro che gli entra in casa, viene puntualmente arrestato e condannato dalla magistratura.
Morale della favola: stiamo attenti a non farla scoppiare sul serio la guerra civile con i musulmani, aggiungendo provocazione a provocazione! Anche perché a salvarci non arriva Putin, il quale, tra l’altro, è molto attento a non ledere i diritti delle minoranze religiose, soprattutto di quelle musulmane.
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