L’attuale complesso delle relazioni internazionali e la crisi economica globale che, partendo dagli Stati Uniti, ha investito l’intero sistema mondiale, hanno sottolineato come la Cina abbia accresciuto il suo potere economico-politico, candidandosi a poter diventare la quarta potenza economica del mondo e un attore politico di importanza strategica per i capitalismi occidentali. Negli ultimi quindici anni e, in particolar modo, dopo l’ingresso nella World Trade Organization, Pechino ha portato avanti una corsa all’industrializzazione, al progresso tecnologico, al potenziamento militare, alla globalizzazione e all’urbanizzazione senza precedenti, cosicché si può parlare di un nuovo “Balzo in Avanti”.

Ma l’escalation cinese riflette anche un mutamento degli equilibri politici su scala regionale e globale, sul quale le altre grandi potenze economiche, Stati Uniti e Unione Europea, hanno bisogno di riflettere e al quale, al tempo stesso, dare risposta. In particolare, Bruxelles, nell’ambito delle sue relazioni esterne, non ha ancora preso in considerazione la costante influenza e penetrazione cinese all’interno delle strutture economiche e politiche di Paesi che rivestono un ruolo chiave all’interno dello scacchiere internazionale (Russia, Iran, India e in qualche misura anche Arabia Saudita), continuando a considerare il paese asiatico un “partner strategico” quasi esclusivamente in ambito commerciale.

L’incerta “partnership strategica”

Infatti, fin dal 1982 – anno della nuova Costituzione cinese, che, ispirata alla “strategia delle quattro modernizzazioni” di Deng Hsiao-p’ing, ha aperto la Cina alle economie di mercato occidentali – Bruxelles ha inteso intavolare con la Cina accordi bilaterali di natura commerciale: l’“Accordo di cooperazione economica e commerciale” (1985) era volto a “promuovere e intensificare gli scambi commerciali” e “incoraggiare la costante crescita della cooperazione economica”. Queste relazioni, raffreddatesi a seguito dei fatti di piazza Tienanmen (1989) e del conseguente embargo posto sulla vendita delle armi, si sono rinnovate nel corso degli anni Novanta, che, pur aprendosi a nuovi settori – ambiente e sviluppo sostenibile, diritti umani, cooperazione doganale e culturale, relazioni sull’informazione e sulla ricerca in campo scientifico e tecnologico –, hanno continuato a limitarsi ad una cooperazione economica che ha posto le basi per l’ingresso della Cina nella WTO (2001).

Dopo il 2001 – anno cruciale anche nella ridefinizione dell’intero sistema delle relazioni internazionali – il Consiglio dell’UE ha approvato un rapporto della Commissione europea sulle relazioni UE-Cina, “A Maturing Partnership: Shared Interests and Challenges in EU-China Relations” (settembre 2003), in cui le istituzioni comunitarie hanno definito Pechino “partner strategico” dell’Unione Europea e hanno dato avvio nel biennio 2005-2006 ad una serie di memorandum e intese bilaterali (24 Dialoghi Settoriali) volte a conseguire una collaborazione in una vasta gamma di ambiti che vanno dalla ricerca scientifica e tecnologica alla regolazione delle imprese e alla politica di concorrenza, dalle politiche energetiche ed ambientali a quelle agricole e industriali, dall’educazione e dalla cultura ai diritti di proprietà intellettuale.

Tuttavia i dettagli e, soprattutto, gli obiettivi di tale partenariato strategico – menzionato anche nel Rapporto sulla Sicurezza Strategica Europea (ESS, dicembre 2003) e nella successiva Comunicazione della Commissione intitolata “Unione Europea e Cina, partner più vicini, responsabilità crescenti” (ottobre 2006) –, pur escludendo con chiarezza l’aspetto militare, non sono mai stati completamente definiti e hanno omesso la nuova dimensione geopolitica assunta dal colosso cinese. D’altra parte, gli obiettivi principali per i leader comunitari, in assenza di una visione politica effettivamente comune, sono la costante importazione di prodotti a basso costo, l’allargamento del mercato europeo nel sud-est asiatico, la possibilità di contare su un partner economico con cui instaurare un multilateralismo effettivo che porti ad una “global governance”. Dal canto suo, la Cina, nel mantenere semplicemente relazioni commerciali con l’Europa, spera di ottenere la garanzia dello status di economia di mercato (MES), di porre fine immediata all’embargo sulle armi, di assicurare la libertà di movimento dei propri cittadini e beni all’interno dello spazio europeo, di procurarsi il know-how necessario al potenziamento scientifico e tecnologico. L’Unione Europea per la Cina, quindi, non è altro che il più grande mercato su cui sfogare l’enorme produzione interna. Tuttavia è al di fuori dell’UE che la Cina trova la ragione della sua legittimazione internazionale.

Il nuovo impero cinese

Negli ultimi anni l’ex Celeste Impero, grazie alla sua diplomazia, ha tessuto una fitta rete di rapporti internazionali che lo rendono il principale attore asiatico in grado di connettere cinque regioni strategiche: la formazione del BRIC (con Brasile, Russia e India) e dell’alleanza strategica del Gruppo di Shanghai (SCO, di cui fanno parte anche Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e che ha come osservatori Iran, India e Pakistan), è lo strumento attraverso cui la Cina intende imporre la propria egemonia economica e politica nell’Asia Centrale. E proprio verso l’Iran – contro cui sono state richieste dagli USA nuove sanzioni per il proseguimento del programma nucleare, sanzioni che la Cina ha nei giorni scorsi criticato aspramente pur finendo per approvarle – il Paese asiatico sta rivolgendo le sue attenzioni, sperando di costruire un polo di interesse alternativo a quello americano. In secondo luogo, attraverso il dialogo con l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e attraverso il costante potenziamento della flotta, la Cina aspira a diventare, come le recenti vicende relative alla Corea, i rapporti con Taiwan e i contenziosi circa alcune isole nel Mar cinese meridionale hanno dimostrato, la prima potenza militare nella regione del sud-est asiatico, estromettendone gli Stati Uniti. Non di meno, la Cina sta rafforzando la sua influenza nella regione del Golfo Persico, allacciando relazioni sempre più strette con l’Arabia Saudita, alla quale ha venduto fin dagli anni Ottanta missili e armi e con la quale ha siglato dei memorandum di intesa per l’approvvigionamento energetico. Proprio la connessione fra petrolio e moneta costituisce il perno intorno a cui ruota la politica di ascesa della Cina. La “oil diplomacy” della Cina si dispiega su scala globale e gli introiti derivanti dai Paesi produttori di petrolio (così come quelli derivanti dalla cooperazione energetica con le regioni siberiane della Russia) vengono impiegati nella costruzione di infrastrutture in Asia, Africa e America Latina e nei fondi sovrani asiatici. Proprio in Africa, grazie al forum sino-africano (FOCAC) e ad investimenti ad ampio raggio all’interno di 49 Paesi su 53 del Continente nero, la Cina sta creando le premesse per un nuovo terreno di scontro con gli Stati Uniti. Infine, grazie agli investimenti che Pechino ha realizzato nel Sud America, Argentina e Brasile hanno potuto saldare i propri debiti con il Fondo Monetario Internazionale, togliendo agli USA una potente arma di ricatto.

In questo scenario si inseriscono, inoltre, le controverse relazioni con il Tibet – territorio fondamentale per l’accesso ad importanti risorse naturali – e con le minoranze di altre regioni interne, che, invece, godono dell’approvazione delle democrazie occidentali; infine, il segno tangibile dell’accresciuto peso della Cina è stato il fallimento della Conferenza di Copenaghen sul clima, in cui Pechino è riuscita a dettare le sue regole al momento della finalizzazione dell’accordo.

Questi ambiti, dunque, sono accomunati da una medesima strategia: l’indebolimento dell’Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti. In questo gioco di forze, che potrebbe preludere alla creazione di un G2 con gli USA per un’effettiva governance mondiale, l’Unione Europea rischia di rimanere esclusa.

Ripensare la strategia europea

La Cina è diventato, quindi, un importante test per l’Unione Europea. Bruxelles dovrà dimostrare che le sue azioni non riguardano più il completamento dell’allargamento e del mercato interno, ma anche una globalità di aspetti e regioni mondiali. La sfida per i leader comunitari diventa inserire la Cina non più nel contesto di politiche commerciali o, comunque, di ampio raggio economico, ma nell’ambito di politiche di aspirazione mondiale.
La sfida per l’UE, che allo stato attuale delle cose non ha alcuna influenza politica sulle scelte di Hu Jintao, è capire, come suggerito dai maggiori think tank europei, di cosa la Cina ha bisogno e che soltanto l’Unione Europea può offrirle e garantirle.

Dopo la ratifica del Trattato di Lisbona – che conferisce all’UE una nuova credibilità a livello internazionale anche attraverso la ridefinizione del ruolo dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza – e la creazione del “Servizio Europeo per l’Azione Esterna” (EEAS), Bruxelles ha la possibilità di agire su due diversi livelli per creare un’effettiva partnership strategica con Pechino: da un lato, date le tensioni nelle relazioni sino-americane, può rilanciare un coordinamento politico con Washington; dall’altro, rilanciando il partenariato Asia-Europa (ASEM, 1996), può realizzare una forte rete di collaborazione e coordinamento politico con i Paesi del sud-est asiatico.

Questa strategia ha, dunque, come presupposto l’abbandono delle politiche bilaterali con la Cina, per aprirsi ad un approccio multilaterale globale. In particolare, questa multilateralità deve esplicarsi non più su punti vaghi ed obiettivi incerti, ma su alcuni aspetti concreti: commercio e investimenti, industria e tecnologia, cambiamenti climatici, proliferazione nucleare e diritti umani. La multilateralità deve presupporre, inoltre, un sistema di “reciproco impegno”, prevedendo una serie di misure sanzionatorie qualora la Cina non rispetti gli accordi presi (per esempio, misure anti-dumping, sanzioni sulle importazioni illegali, sanzioni per la non collaborazione alle emissioni di CO2).

Creare un sistema di interdipendenza globale che imbrigli la Cina, la sua moneta, il suo sistema economico e sociale in una rete internazionale, può essere l’arma con cui l’Unione Europea può emergere anche come potenza mondiale capace di influenzare le scelte dei partner a livello regionale e globale. Questa partnership, infine, non può prescindere dal problema della sicurezza.

La Commissione Barroso I (2004-2009), infatti, pur rinnovando il vecchio accordo del 1985 (il nuovo “Partnership and Cooperation Agreement”, a cui si aggiungono i nuovi meeting UE-Cina), è risultata piuttosto debole nelle sue azioni verso Pechino. Tuttavia, dato il quadro internazionale e la criticità soprattutto della regione mediorientale, e dato il rinnovamento politico e istituzionale dell’UE anche grazie al passaggio dell’Unione Europea Occidentale (UEO) sotto il controllo di Bruxelles, la Commissione Barroso II ha il compito di rafforzare il suo peso all’interno della NATO, in modo da creare un effettivo ed efficace blocco politico e strategico contrapposto a quello cinese, anche alla luce del futuro ingresso nel patto Atlantico di Paesi che hanno strette relazioni con il Continente asiatico. E, inoltre, non bisogna dimenticare il ruolo che il Partenariato Euro-Atlantico (EAPC) può giocare negli equilibri euroasiatici. Una potenza mondiale, quale l’Unione Europea potrebbe aspirare ad essere, necessita non solo di una “partnership strategica” di tipo economico, ma anche di una partnership in materia di sicurezza globale.


* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)


Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”


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