Primo aprile, la Federcalcio di Bosnia e Erzegovina (NFSBiH) è stata sospesa da FIFA e UEFA. La Bosnia non potrà partecipare a nessuna competizione internazionale fino a nuovo ordine, ovvero fino a quando la dirigenza della Republika Srpska e quella della Federazione non troveranno un accordo per un solo e unico presidente, invece dei tre attuali, così come previsto dallo statuto delle due federazioni sportive. Dai campi di calcio un segnale forte di stanchezza per un sistema logoro che ormai fatica a mantenersi in piedi e a trovare giustificazioni per la sua stessa esistenza. Questa volta, ad usare il vecchio metodo di carota e bastone non è l’Unione Europea ma le due associazioni calcistiche che per prime sono passate dalle parole ai fatti dopo il non rispetto dell’ ultimatum imposto sei mesi fa e scaduto il 31 marzo. Decisione che va ben oltre i confini sportivi e che apre a nuove riflessioni sul sistema politico e sociale della Bosnia Erzegovina.
Sintomi dello sgretolamento di un sistema ormai vecchio
La decisione di sospendere la nazionale da ogni competizione calcistica ha colpito la Bosnia tutta senza distinzione di etnie. Bosgnacci (bosniaci musulmani), bosniaci coati e bosniaci serbi, che sostenevano con speranza la squadra in lotta per la qualificazione agli Europei 2012, hanno accolto con sconcerto e stupore la notizia e ancora una volta chiedono, e forse si aspettano, comprensione e tolleranza. La comunità calcistica internazionale, dal canto suo, e a differenza della comunità politica internazionale, sembra non voler più accettare una rappresentanza tripartita, basata sulle sempre vive divisioni etniche, incapace di gestire efficacemente la NFSBiH.
Ancora una volta l’attenzione dei media si concentra sul più complesso degli stati balcanici solo quando il polverone dal basso raggiunge l’alto, le presidenze o, come in questo caso, le dirigenze. L’attenzione dei media è tornata sulla Bosnia così come era accaduto lo scorso ottobre in occasione delle elezioni nazionali. Attenzione poi mantenuta viva dal fatto che ancora non si sia riusciti a creare un governo, ritardo dovuto alla mancata formazione delle camere cantonali (resa difficile dall’opposizione dei due partiti croati, HDZ e HDZ 1990), che rende a sua volta impossibile la costituzione delle camere del parlamento della Federazione e del governo della stessa (quello della Republika Srpska è già stato formato).
Ancora una volta la convivenza tra i tre vicini di casa viene descritta come prossima al collasso nonostante il pantagruelico impiego di risorse umane e finanziarie da parte di svariati attori internazionali. Pare quasi che le crisi e i disaccordi inter-etnici vengano strumentalizzati per giustificare la presenza invasiva e invadente della comunità internazionale, iniziata a Dayton e mai interrotasi e, cosa ben più grave, mai evolutasi in qualcosa di più redditizio o di basicamente utile per i cittadini bosniaci tutti. Le numerose agenzie internazionali continuano a mantenere migliaia di dipendenti impegnati in vari progetti di cooperazione e pacificazione, ma questi il più delle volte parlano la lingua delle organizazioni governative e delle NGO, non quella delle persone a cui tali progetti son rivolti. Si continua a monitorare il settore istituzionale bosniaco e a scrivere lunghi rapporti su come stanno le cose, su come dovrebbero essere e su come la comunità internazionale contribuirà a fare in modo che le cose che devono essere siano. Gli Stati Uniti e l’UE continuano a intrattenere rapporti particolari particolari con le varie forze politiche, con l’obbiettivo principale di riuscire ad indurre un cambio istituzionale che preveda un rafforzamento del governo centrale e un primo ministro con poteri accresciuti.
Nonostante tutte queste ingerenze esterne, ufficialmente impegnate a migliorare le condizioni potiliche e sociali della Bosnia, poco cambia. Ciò perché, diversamente da quanto accaduto per i settori alti, la società civile non ha ricevuto l’attenzione che meritava e non sembra essere stata supportata, agevolata e neppure facilitata a perseguire comuni percorsi di buon vicinato. Al contrario, la popolazione bosniaca è stata letteralmente nutrita con propaganda nazionalistica che ha da una parte mantenuto vive le divisioni e ostacolato la pacificazione, dall’altra fatto in modo che il sistema nato dagli accordi di Dayton costituisse lo scheletro del paese. Tra gli effetti collaterali di tale sistema vi sono sia il disgregamento della società civile adulta che, nonostante le apparenze, non vive in pace, sia la mancata formazione dei più giovani secondo un’identità condivisa basata su una storia recente che non hanno vissuto. I primi si trovano a vivere in una situazione di stallo temporale tra il ricordo di un passato di convivenza pacifica e un presente di differenziazione propagandata, passando per la follia di quella guerra che non possono ancora comprendere; i secondi chiedono sempre il cognome di tutte le persone che incontrano.
Il sistema di Dayton, costruendo la Republika Srpska e inventando la complicata struttura governativa della Federazione, ha permesso che le divisioni etniche si istituzionalizzassero. Dayton creo’ una piccola Serbia forte, che di certo tarderà a sentirsi bosniaca, e un sistema di rappresentanza e di voto basato solo su criteri etnici. A livello istituzionale vennero creati infiniti ministeri, circa 140, inefficienti e confusi che raramente superano l’impasse derivante dal complicato groviglio burocratico.
Le due dirigenze calcistiche hanno rotto quello schema, colonna portante di ogni istituzione statale, che prima ha salvato l’esistenza stessa della Bosnia e che poi ha contribuito alla perpetuazione delle divisioni etniche. Stesso schema che la comunità internazionale sembrerebbe non voler neppure scalfire.
Messaggio chiaro e semplice da FIFA e UEFA: la Bosnia Erzegovina è uno stato sovrano e democratico, e come tale deve avere un’unica dirigenza, così come tutti gli altri stati membri, in modo da garantire una maggiore efficienza e coesione all’interno della stessa squadra. Basta con la tolleranza, basta con le eccezioni, o ci si adatta a standard comuni attraverso un compromesso interno, sicuramente non facile da raggiungere, o si va fuori. Carota e bastone, impegno e premio.
Dai campi di calcio l’inizio della fine dell’era che iniziava ad apparire infinita. Forse proprio questo forte scossone proveniente dal mondo dello sport potrebbe costituire il punto d’inizio del superamento del sistema esteso di Dayton, a livello politico e sociale. Indubbiamente troppo presto per pensare ad un unico presidente politico dello stato nazione, ma non troppo presto per pretendere che la Bosnia Erzegovina inizi con le proprie forze a crearsi un proprio stato partendo dalla formazione di una società civile più unitaria e meno segregata.
I bosniaci della Federazione sembrano pronti ad intraprendere per primi il cammino del cambiamento, come dimostrato alle elezioni di ottobre. Elezioni che hanno visto il Partito Socialdemocratico di Bosnia Erzegovina (SPD) ottenere la maggioranza dei voti nella stessa Federazione, fiducia al partito che più di tutti si è dimostrato propenso al dialogo e alla moderazione, a differenza di partiti più tipicamente etnici e perpetuatori di divisioni, come il Partito di Azione Democratica (SDA), votato da bosniaci musulmani e l’Unione Democratica Croata (HDZ). D’altra parte, non si può dire che partiti e politici abbiano lo stesso desiderio della società civile. Al contrario, le parti politiche continuano ad alimentare le profonde fratture sociali in nome di un nazionalismo proposto come vitale, talvolta solo copertura di interessi personali.
Superare il sistema di Dayton per intraprendere un percorso di cambiamento a partire da un più reale rispetto dei vari standard democratici fondamentali rappresenterebbe l’inizio di una nuova epoca. Da dove partire allora per procedere al superamento di Dayton non essendo previsto un secondo Dayton costruito a tavolino? Dal basso, senza dubbio. Dalla scuola, istituzione che nella maggior parte degli stati moderni e democratici contribuisce indiscutibilmente alla coesione sociale e al superamento di eventuali differenze etniche o religiose e che in Bosnia, nella maggioranza dei casi, contribuisce a formare cittadini croati, serbi, musulmani e quasi mai bosniaci.
Agli alti livelli non ci si è mai occupati abbastanza seriamente del fatto che la storia studiata nelle scuole dell’obbligo sia diversa a seconda dei paesi in cui ci si trova, o che croati e bosgnacci studino su libri di testo differenti sotto lo stesso tetto, nelle scuole separate del sud dell’Erzegovina e in tante altre scuole miste, una cinquantina in tutto nel territorio nazionale. Il sistema scolastico bosniaco rimane un settore complesso e controverso e continua a riflettere onestamente il panorama politico e sociale del paese. Il sistema scolastico post-Dayton, infatti, si articola a livello d’istruzione in 14 ministeri: 10 ministeri dell’educazione per i dieci cantoni che compongono la Federazione, uno per la Federazione, uno per la Republika Srpska, uno per il distretto di Brcko e uno a livello nazionale, in ministero degli Affari Civili. Le singole autorità competenti sono poi libere di decidere come gestire le discipline nazionali a seconda di criteri personali fondati per lo più su appartenenze etniche.
Nel 2002, il Consiglio d’Europa condannò la segregazione sui banchi di scuola e il sistema delle “due scuole sotto lo stesso tetto”, chiedendo alla Bosnia di eliminare ogni forma di separazione. In risposta, nel 2003 fu attuata una riforma scolastica che unificò le scuole separate amministrativamente ed eliminò i simboli religiosi nel rispetto di tutte le religioni. Nei fatti, poco cambiò. Le scuole miste dove le appartenenze etniche non vengono rafforzate, ma al contrario affievolite attraverso uno studio oggettivo delle cosiddette discipline nazionali (storia, lingua, geografia e letteratura, 30% delle discipline), costituiscono pure eccezioni e si possono localizzare per lo più nel distretto di Brcko. Nella Federazione, la scuola cattolica di Sarajevo gestita dal vescovo Pero Sudar è uno dei pochi esempi, se non l’ unico, di scuola multietnica, dove studenti di religioni differenti imparano dagli stessi testi scolastici e dove e’ possibile sostituire l’ora di religione con quella di etica, nel rispetto dell’identità particolare di ognuno.
Se la separazione scolastica ha rappresentato qualcosa di assolutamente necessario nell’immediato dopoguerra, permettendo a famiglie di diverse etnie di tornare a vivere in aree geografiche comuni, oggi, a sedici anni dalla fine delle ostilità, costituisce un qualcosa di altamente nocivo e pericoloso. Così come controproducenti sono i 14 ministeri che si occupano di educazione e gli infiniti altri.
Identico discorso vale per gli accordi di pace, indispensabili per porre fine ad un conflitto e necessari per agevolare la ricostruzione nell’immediato dopoguerra, ma mai troppo giusti, progressivamente sbilanciati a sfavore della società civile e certamente non consoni a costituire una struttura immutabile per il nuovo stato.
Se Dayton ha permesso alla Bosnia di non morire e di uscire dal conflitto fratricida, la fine del sistema di Dayton permetterebbe alla Bosnia di uscire dal primo dopoguerra, durato troppi anni, e di rinascere, magari stavolta con un solo cervello (certamente multi-settoriale), un solo cuore (certamente con tre potenti arterie), una sola scuola sotto un unico tetto, un solo presidente della nazionale di calcio e, un giorno, un solo presidente dello stato di Bosnia Erzegovina.
La lezione di FIFA e UEFA sarebbe sicuramente una delle più preziose del lungo dopoguerra, a patto che la nazionale di calcio bosniaca non diventi a sua volta un protettorato gestito da un comitato di emergenza con a capo un presidente internazionale, come già successo in El Salvador, Kuwait, Senegal e Samoa.
*Alessandra Bua, dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche, Università’di Bologna, e in Affari Umanitari, Università di Sarajevo.
Le opinioni espresse nell’articolo dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”.
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