Fuoco Edizioni ha scelto coraggiosamente di specializzarsi in un genere di nicchia come quello dell’analisi geopolitica, concedendosi pure qualche sconfinamento in ambito storico. L’editore Luca Donadei ha quindi organizzato assieme ad Eurasia. Rivista di studi geopolitici il 10 giugno la serata Equilibri multipolari. Politiche e strategie per il nuovo secolo per presentare alcune delle sue ultime opere ed i loro autori presso la Biblioteca Comunale Enzo Tortora di Roma, grazie alla collaborazione del dott. Emanuele Merlino.

Donadei ha ben evidenziato come, finita la contrapposizione della Guerra Fredda e con l’inizio della crisi del consequenziale unipolarismo statunitense, oggi lo scenario internazionale sia in continuo sussulto, con potenze emergenti come quelle del BRIC (acronimo che indica Brasile, Russia, India e Cina) che chiedono maggiore capacità decisionale, laddove la potenza statunitense accusa colpi a vuoto in ambito militare, economico e diplomatico. In questa situazione è preziosa la guida rappresentata da La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali, opera prima di Daniele Scalea, redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, con prefazione del Generale Fabio Mini. Apre quest’agile volumetto una disamina sulle principali scuole e dottrine geopolitiche, comun denominatore delle quali è la strategia per il controllo del cosiddetto Heartland, zona nevralgica del globo per la sua posizione e per le sue risorse energetiche che grosso modo corrisponde all’attuale Russia, per cui gran parte di guerre e contrasti erano dovuti proprio al possesso ovvero alla possibilità di influenzare quest’area. Venendo all’attualità, vengono approcciate le principali tematiche odierne, a partire dal risveglio dell’orso russo: smaltita la botta della dissoluzione dell’URSS (“l’evento geopolitico più importante della nostra epoca” l’ha definita Vladimir Putin), il Cremlino oggi attraverso alleanze, sistemi di mercato comune e consorzi energetici, sta riallacciando le fila con quei Paesi che ricadono nel suo “estero vicino” (sostanzialmente le ex repubbliche sovietiche), i quali però sono pure al centro dell’interesse statunitense, che, a suon di rivoluzioni colorate e di avveniristici progetti di scudo spaziale, va stringendo sempre più la morsa attorno alla rinascente Federazione russa. Nella massa eurasiatica si trovano anche altre due potenze emergenti a spron battuto, vale a dire la Cina e l’India, entrambe con problemi ancora irrisolti in termini di approvvigionamento energetico, di unificazione nazionale (Formosa e altre isole del Mar Cinese per Pechino, Pakistan e Bangladesh per Nuova Delhi) e di separatismi interni ai quali rispondono in maniera diametralmente opposta. Rispetto al federalismo indiano, ben più efficace sembra l’accentramento cinese, grazie al quale “il Drago” può affrontare le sfide poste dallo sfruttamento delle risorse africane e cimentarsi quasi alla pari con gli USA nella contesa per le rotte del petrolio che dal Medio Oriente deve irrorare il colosso cinese. Offre chiavi di lettura preziosissime per interpretare le notizie di maggiore attualità il capitolo dedicato alla contrapposizione fra Iran e Israele, con quest’ultimo Paese che è rimasto l’ultimo bastione sicuro della politica statunitense in Medio Oriente, anche se, come hanno ben documentato Walt e Mearsheimer, gran parte dell’agenda di politica estera di Washington è in effetti dettata da Tel Aviv. Sintomo più evidente della crisi statunitense è per giunta la perdita di controllo del “cortile di casa”, vale a dire quell’America “indiolatina” (così definita dalla redazione di Eurasia per evidenziare il ruolo fondamentale svolto dai vessilliferi degli abitanti originari nelle più recenti svolte politiche) che sull’onda dei successi elettorali dei movimenti neobolivariani ha posto (forse) finalmente fine all’epoca dei colpi di stato e delle ingerenze a stelle e strisce.

Ingerenze a stelle e strisce che sono invece ancora vive e vegete in Italia, come ha ben argomentato Fabrizio Di Ernesto, giornalista professionista e autore di Portaerei Italia. Sessant’anni di NATO nel nostro Paese, basti pensare a come il movimento No Dal Molin venga ostacolato in tutti i modi nella sua battaglia civile finalizzata a scongiurare l’allargamento della base americana sita a Vicenza, ovvero alla strage del Cermis rimasta di fatto impunita in base ad un codicillo sottoscritto dal governo di Roma e che garantisce la non processabilità all’estero per quei soldati statunitensi che commettano reati in Italia. In giorni in cui in Giappone il governo Hatoyama dà le dimissioni perché non è stato capace di far chiudere la base di Okinawa, in Italia non possiamo neppure dire quante siano con precisione le installazioni a disposizione in un modo o nell’altro degli Stati Uniti (in ogni caso, un centinaio almeno). Risulta, infatti, che Gaeta e La Maddalena non facciano più parte del novero, eppure vi sono ancora soldati americani di presidio… Tant’è, queste basi, la cui collocazione geografica è oltremodo significativa (a nord-est in prospettiva balcanici, in Sardegna per surrogare l’ondivago appoggio francese, in Sicilia per proiettarsi verso l’Africa ed in Puglia per agire verso il Vicino e Medio Oriente), sono una garanzia per gli USA di poter proseguire l’asservimento della colonia italiana conseguente agli esiti della Seconda Guerra Mondiale: quei politici come Mattei, Moro e Craxi, i quali hanno cercato di riconquistare fette di sovranità, sappiamo tutti come sono “casualmente” finiti.

In questo scenario un Paese cardine per l’accesso ai Balcani è la Romania, facente parte di quella “Nuova Europa” che, sfuggita al controllo moscovita, ora si presta a garantire appoggio diplomatico e non solo all’avventurismo della politica estera atlantista. Antonio Grego, collaboratore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, nel suo Figlie della stessa lupa ha ripercorso la politica diplomatica intercorsa fra Roma e Bucarest fra le due guerre mondiali. A prescindere dalla ricostruzione storica che spiega i tentennamenti rumeni fra l’allineamento alle potenze democratiche occidentali, cui miravano i governi liberalnazionali e conservatori dell’epoca, ed il richiamo delle comuni radici culturali e linguistiche che esercitava l’Italia fascista, si tratta di un testo importante per approfondire la conoscenza di questo Paese. Oggi si parla dei romeni soprattutto con riferimento ad incresciosi fatti di cronaca, però deve essere ben chiaro che etimologicamente “Romania” non ha niente a che fare con il ceppo “rom” degli zingari, altresì è la testimonianza più lampante di come l’antica Dacia si senta legata a quella Roma imperiale che la conquistò e vi lasciò la sua impronta.

Ha tirato le somme della tavola rotonda il prof. Antonio Caracciolo, docente all’Università la Sapienza di Roma, il quale, da buon filosofo del diritto e fresco di un corso monografico su Carl Schmitt, un giusfilosofo col pallino per la geopolitica appunto, ha evidenziato come gli USA oggi abbiano ben presente la lezione hobbesiana che nel bellum omnium contra omnes che intercorre fra Stati sovrani una delle prime armi è quella di creare disordine in casa del nemico e inoltre non rispettino il diritto internazionale, salvo poi in certe circostanze pretendere che certi Paesi lo facciano, per cui viene a cadere l’universalità della norma. Se questi sono gli effetti dell’unipolarismo in prospettiva dell’utopistico Stato unico che dovrebbe affratellarci tutti, ben venga un mondo multipolare in cui le varie potenze regionali avranno modo di mettere in atto un sistema di scambi e compensazioni che sicuramente peggiore di quanto oggi abbiamo non potrà essere.

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